Stranieri in carcere: una ricerca etnografica
di Emilio Quadrelli
pubblicato sul sito web del Dipartimento di Teoria e Storia del
Diritto
della Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università di Firenze
I materiali che presentiamo sono una parziale rielaborazione di un percorso
di ricerca interuniversitaria, finanziato dal Murst, La cittadinanza tra
inclusione ed esclusione. Contenuto teorico e suggestioni operative. Una
prima esposizione è stata presentata e discussa, col titolo: Immigrati tra
illegalità e carcere: una ricerca etnografica, nel Dicembre 1999, all'interno
di un seminario di studi tenutosi presso il Dipartimento di Teoria e Storia
del Diritto dell'Università degli Studi di Firenze. La ricerca si è svolta all'interno
di alcune aree metropolitane del nord Italia. Il nostro problema era descrivere,
utilizzando gli strumenti metodologici dell'etnografia (1),
le trasformazioni intervenute all'interno delle logiche della "cittadinanza"
(2) in relazione ai
nuovi flussi migratori e la crisi del sistema del Welfare (3)
L'interrogativo non era privo di ragioni. Il carcere, nella sua estrema
specificità, è pur sempre un buon punto di osservazione delle dinamiche sociali
(4). Inoltre non ci
saremmo occupati di una problematica simile se, da più parti, non fossero giunti
stimoli e sollecitazioni diverse. In particolare la presenza di numerosi detenuti
stranieri legava l'ambito carcerario a temi ricorrenti nel dibattito delle scienze
sociali come gli effetti culturali prodotti dai flussi delle cosiddette "nuove
immigrazioni" e in quale ambito dei diritti la nostra società colloca la figura
dello straniero.
All'interno dell'articolo descriveremo principalmente tre aspetti:
Nella parte finale sono discussi alcuni aspetti del razzismo contemporaneo e
ipotizzate alcune linee di ricerca.
Introduzione
Ogni volta che si parla di razzismo e xenofobia si è colti da una sorta di
pudore. Solitamente si tende a trattare l'argomento nell'ambito rassicurante
delle discipline storiche piuttosto che all'interno della teoria sociale
contemporanea (5). Se il dibattito attraversa le società attuale
viene confinato in ambiti sociali esterni e estranei alla cosiddetta società
civile. (6) Teste rasate, gruppi di tifosi legati al calcio o al
basket (7), moda temporale collegata a particolari gusti e stili
musicali o al massimo fenomeno politico endemico circoscritto a particolari
ambiti sociali (8). Tutto sommato l'idea che, dopo una breve eclisse, la ragione
o, nell'ambito dei discorsi di senso comune, il progresso fossero tornati a
governare l'agire umano era una convinzione condivisa da buona parte degli
uomini e delle donne che hanno contribuito a edificare le società europee nel
secondo dopoguerra(9). Sono molti gli episodi che si potrebbero riportare
per mettere, per lo meno, in dubbio una fede così certa. Significative linee di
ricerca hanno evidenziato come il razzismo non sia per nulla estraneo ai
postulati legittimi e nobili della nostra tradizione culturale: l'umanesimo e
l'illuminismo. (10) Senza dilungarci nella disamina infinita di una serie di
fatti e circostanze, per il nostro lavoro è più significativo riportare un
evento legato al contesto della presente ricerca. Tra le varie testimonianze
raccolte abbiamo ascoltato il Dott. A. Sansa, sia in qualità di magistrato sia,
soprattutto, come sindaco di Genova, eletto a ridosso degli eventi genovesi del
"Luglio '93". (11) Il Dott. A. Sansa ci ha autorizzati a rendere pubblici i
materiali dell'intervista senza vincolo di anonimato. Nel corso dell'intervista
in relazione al razzismo presente nell'ambito cittadino ha detto:
...inoltre tenga conto che il razzismo, anche se ufficialmente non sembra,
perché non appare mai in forma esplicita, è ben radicato in vari ambiti sociali.
A me per esempio è stato detto:
"Certo, durante la sua amministrazione, è stato fatto molto per rilanciare
l'immagine culturale della città. I suoi sforzi sono sicuramente encomiabili,
però lei ha dato troppo spazio agli Ebrei, ha avuto troppe contaminazioni. Non
li ha tenuti al loro posto!!!"
Ora è difficile immaginare che un simile scambio di opinioni sia avvenuto tra il
sindaco e una qualche "testa rasata". Più facile immaginare la scena all'interno
di un qualche salotto bene tra toni pacati, ragionevoli e perbene. Il dott.
Sansa non si è soffermato sui particolari, ha però precisato:
Va sottolineato che a essermi rimproverata è stata la mia partecipazione,
insieme a quella di tutta l'amministrazione comunale, a iniziative
particolarmente significative del circolo culturale Primo Levi
(12). Attività inserite in un contesto completamente laico. Questo lo sottolineo
per rimarcare il sentimento spiccatamente antisemita del rimprovero.
Ha quindi aggiunto:
...in un panorama culturale simile, non è difficile capire come e perché
l'immigrato o lo zingaro(13) diventi oggetto di una serie di
pregiudizi e di criminalizzazioni. Certo ci sono anche elementi del tutto nuovi
nella "questione immigrazione" attuale. Ma grattando leggermente la patina della
nuova intolleranza si finisce per scoprire, comunque, ampi tratti dei razzismo
tradizionale.
Queste poche note, in realtà, ci dicono molto. La lettura di parte dei materiali
che seguono ci porrà di fronte a un nodo politico e culturale di non poca
entità: l'esistenza e la legittimazione (14) del razzismo e della
xenofobia all'interno della nostra società.
Mutismo e rassegnazione
Su questi presupposti le pratiche razziste trovano una facile breccia in cui
incunearsi e diventare rispettabili. Le interviste che presentiamo sembrano
rafforzare le ipotesi appena formulate. In particolare sono alcune interviste,
rilasciateci dagli agenti e dalle vigilatrici più giovani della Polizia
Penitenziaria, ad evidenziare come il rapporto di dominio sia la forma
relazionale decisiva tra detenuto e istituzione penitenziaria. Ma c'è di più.
Emerge un discorso di localismi, d'autonomismi, di riproposizione, anche se con
un linguaggio meno dotto, dell'idea di oikos. (15) Qualcosa del tipo: "Nel mio
carcere, quindi nel mio territorio, decido io. Come cittadini, che garantiscono
un servizio indispensabile per la sicurezza di tutti, siamo gli unici a essere
legittimati a decidere. Siamo noi, e solo noi, a poter legiferare su come
mantenere l'ordine e la sicurezza in carcere. Il punto di vista che adottiamo è
legittimo semplicemente perché nostro. È lo straniero che deve fornirci prove
tangibili della sua affidabilità, rispettando la nostra città, la nostra gente e
la nostra civiltà. Non siamo noi che dobbiamo andare incontro a lui, quasi
fossimo i suoi servi, è lui che deve uniformarsi e piegarsi a noi."
Esistono forme di razzismo, più o meno diffuse, tra i suoi colleghi?
Si. Anche abbastanza evidenti.
Come si attuano tali forme?
Nel nostro istituto in maniera piuttosto blanda. C'è una parte dura, però non
ha il sopravvento. I pestaggi ci sono, ma non sono all'ordine del giorno. I più
presi di mira sono i marocchini e anche i neri. Sono episodi che di solito si
svolgono di notte. Poi ci sono le provocazioni, ma che non vanno oltre le
parole.
Può elencare qualche altro esempio?
Si. Uno dei loro divertimenti consiste nel fare ubriacare qualche detenuto
marocchino e poi spintonarlo per la sezione quando non capisce più
niente.
Questi gruppi fanno anche propaganda politica?
Qualcuno si. Ma più che altro loro si definiscono "quelli che agiscono".
Tenga conto che molti di loro bevono molto e calano anche. Di solito quando
agiscono sono belli impistonati.
Può dirmi qualcosa sulla loro propaganda e eventuale reclutamento?
Più che un reclutamento vero e proprio, loro hanno il loro punto di forza tra
gli accasermati. Tra questi hanno più ascendenza. Sono più giovani, appena
usciti dal corso, un po' montati e soprattutto vivono praticamente in carcere.
Se uno vive qua dentro a un certo punto è facile che odi i detenuti. È un
meccanismo quasi automatico.
La seconda intervista è decisamente più esplicita. L'attore sociale è un
testimone particolarmente privilegiato in quanto "politicamente impegnato". Ci è
sembrato opportuno delineare e evidenziare i tratti politici e culturali in cui
tali modelli prendevano forma. In particolare capire:
I materiali raccolti sembrano confermare un simile spostamento. Dato
maggiormente rilevante è il prodursi di un discorso che, con sfumature e
tonalità diverse, è riscontrabile in ampi settori dell'opinione pubblica. La
sensazione è di non essere di fronte a un modello estremista ma a un discorso
"ragionevole" molto presente nelle retoriche di senso comune (17).
Quali sono, secondo lei, i problemi all'interno del carcere?
Sicuramente la sicurezza. La presenza di razze e etnie così diverse e lontane
dalla nostra danno molti problemi.
Come si può mantenere, secondo lei, l'ordine?
Noi abbiamo delle idee molto precise. I detenuti non devono scambiare il
carcere per un albergo dove fare quello che vogliono. Sono qua perché si sono
macchiati di colpe verso la nostra società e il nostro popolo. Sono qua per
espiare e devono farlo in assoluto mutismo e rassegnazione.
Concretamente cosa vuol dire?
Vuol dire per prima cosa metterli a tacere sin da subito. Poi instaurare un
clima dove loro, alla fine, spontaneamente si comportano come subordinati. È un
po' come con le bestie. A un cane devi far capire chi comanda e a chi deve
obbedire. Per farlo devi anche ricorrere alle maniere forti. Mettere subito in
chiaro, e ricordarlo spesso, quali sono i ruoli. Chi comanda e chi deve
ubbidire.
Senta prima ha parlato di reati contro il nostro popolo, cosa intende?
Bisogna essere ciechi per non vedere quello che ormai da diverso tempo sta
avvenendo. Gente di altre razze, con culture e civiltà incompatibili con la
nostra ha occupato le nostre città. Le nostre donne non possono più mettere il
naso fuori di casa, c'è sempre qualche marocchino pronto ad aggredirle e a
violentarle. Se non si è armati non si gira tranquilli. Questa è gente che è
venuta qua per sfruttarci, per portarci via tutto. Quasi gli dovessimo qualcosa.
Non ha voglia di lavorare, di fare niente. Sono solo capaci a rubare, spacciare
o a prostituirsi. Il principale reato lo commettono minacciando il nostro
popolo, le nostre madri, sorelle, mogli e figli. Purtroppo abbiamo uno stato e
dei politici che invece che difendere la propria gente fanno di tutto per
imbastardirla e indebolirla.
Lei, prima, ha usato il termine noi. È un modo di dire generico o ha un
significato più preciso, ad es. politico?
In un certo senso. Ma non come probabilmente lo intende lei. Non facciamo i
politicanti. A noi non interessa la politica, i partiti, 'ste cose qua. A noi
interessa essere padroni nella nostra città. Siamo contro gli stranieri, i
delinquenti, i drogati per il bene del nostro popolo, non per un
partito.
L'intervista riportata ha un merito: la chiarezza. Non si può certo dire che
provi a mascherare le sue convinzioni. Significativi i richiami costanti alla
dimensione locale e alla propria gente: sono il "popolo" (18), la
"nostra gente", a essere assunti come i referenti concreti da difendere e
proteggere. In nessun passaggio dell'intervista compare, come possibile
referente, lo Stato. Anzi l'accentuazione è posta continuamente sul locale. Il
nostro territorio, le nostra città, il nostro carcere e così via. La propaganda
si incentra prevalentemente sul tangibilmente nostro, sul riemergere di una
"comunità" immediatamente percepibile al "cittadino comune".
L'ultima intervista evidenzia il successo di tale propaganda, sostanzialmente
impolitica o ancor meglio anti-politica (19), tra gli agenti.
L'attore ha una storia del tutto priva di una qualche connotazione ideologica.
Entra nella Polizia Penitenziaria, senza particolari entusiasmi, prima come
ausiliario, in sostituzione del servizio militare, poi come effettivo. Le sue
motivazioni sono esclusivamente economiche, il posto di lavoro. Con l'ambito
carcerario ha un rapporto il più distaccato possibile. Trasferito da una
struttura penitenziaria ad un'altra, "matura" la trasformazione. Come vedremo il
cambiamento non avviene attraverso la ricezione delle tematiche razziste
tout-court ma con il graduale assorbimento di luoghi comuni. È la "banalità del
male" (20) a insinuarsi in quote non minimali della popolazione. Sono temi ovvi,
pieni di "buon senso" a trasformare persone assolutamente innocue e privi di
qualunque interesse per la vita politica in potenziali aguzzini. L'intervista
mostra la semplicità e la facilità con cui il razzismo e la xenofobia diventano
discorso rispettabile anche e soprattutto in persone ideologicamente
neutre.
La "banalità" del male
Come è entrato nella Polizia Penitenziaria?
Sono entrato come ausiliare. Dopo il servizio militare mi sono
fermato.
La decisione di fermarsi è stata casuale o aveva delle motivazioni?
All'inizio nessuna. O meglio l'unico motivo era un lavoro sicuro. Non ho
finito le superiori, per cui non è facile trovare un lavoro, sicuro e
discretamente retribuito, senza un titolo di studio. Prima di arruolarmi avevo
lavorato un po' in giro come manovale. Tanto lavoro, pochi soldi, nessuna
garanzia.
Cosa pensava degli immigrati?
Non è che mi fossi mai posto seriamente il problema. A vederli così in
carcere mi sembravano un po' degli sfigati. Gente povera che cercava in qualche
modo di campare. Non notavo le differenze di razza e di cultura.
A un certo punto qualcosa cambia?
Si. Prima pensavo unicamente a me stesso, ai miei divertimenti, non mi
interessavo di niente. Poi ho scoperto, forse sarebbe meglio dire ho riscoperto
di appartenere a un territorio, alla mia gente. Di avere delle radici. Ho capito
il pericolo che rappresentano per noi, per la nostra gente gli
extra-comunitari.
Poi invece?
Poi mi sono reso conto che non era così. Ho capito che la loro presenza ci
avrebbe immancabilmente contaminati, che non avremmo più potuto decidere in casa
nostra. Non è che adesso io sia razzista. Almeno come si può solitamente
pensare. Credo, però, che ognuno deve essere padrone a casa sua. Stare con la
sua gente, governare la sua casa, senza che altri vengano a reclamare diritti o
a imporre leggi. Penso che le nostre città debbano essere governate dalla gente
del posto. Gli stranieri sono una minaccia alle nostre tradizioni.
Lei attualmente si sente impegnato politicamente?
Si e no. Al pari di molti altri mi sento partecipe di un movimento. Se per
politica intende i partiti, il modo come tutti, o quasi, pensano solo agli
affari loro, no non mi sento impegnato politicamente. Se intende invece lottare
e difendere i nostri diritti, la nostra cultura e civiltà si. Se per politica
intende la libertà e la sicurezza per la nostra gente si.
La storia descritta rappresenta una delle tante vite anonime che il razzismo e
la xenofobia a un certo punto risvegliano. Nessun mito eroico e nessun destino o
decisione (21) ha agito nella trasformazione. Banalmente è la
metafora della casa, con le sue radici e tradizioni, a agire come volano. Se
nell'intervista precedente l'ideologia razzista era esplicita in quest'ultima
tutto è decisamente più sfumato. Il razzismo e la xenofobia sembrano essere
quasi una costrizione. Sono gli stranieri, lo stato dei burocrati, le leggi dei
giuristi e non del popolo a costringerci a difenderci. L'intervistato in fondo
sembra dire: "Siete voi che ci obbligate a diventare razzisti. In fondo noi ci
stiamo solo difendendo. Noi siamo in casa nostra. Vogliamo solo comandare su ciò
che è nostro. Siete voi gli usurpatori." Nel suo lavoro di reclutamento e di
allargamento del consenso, l'ideologia razzista, pone la discriminante razziale
o etnica come l'extrema ratio che una comunità deve attuare in termini puramente
difensivi. Tra i simpatizzanti, infatti, il discorso razziale sta sempre sullo
sfondo. Dinanzi sono i diritti e la sicurezza del popolo, della propria gente,
delle madri, delle zie, della gente comune. Significativamente è stato detto:
"...le leggi fatte dai giuristi e non dal popolo", leggi considerate astratte e
estranee alla gente comune. Concepite da qualcuno che non è dei nostri. Una
continua frattura tra popolo e Stato attraversa l'ordine discorsivo dei
movimenti xenofobi e razzisti.. Nelle interviste seguenti questo scarto apparirà
in maniera decisamente esplicita.
Fare il proprio dovere
Esistono secondo voi delle discriminazioni razziste nei confronti delle detenute
straniere?
Ma quale razzismo. Semmai il razzismo c'è, ma da parte loro. Sono tutte voci
messe in giro da chi vorrebbe, dopo aver spalancato le frontiere, spalancare
anche le porte del carcere
Se qualcuno parla di razzismo deve venire a lavorare con noi. Dopo forse la
smetterà. A meno che non si definisca razzista chi fa seriamente il proprio
dovere.
Dovrebbero venire i politici qua a vedere con chi abbiamo a che fare. Altro che
parlare di razzismo. Noi non siamo più sicuri in casa nostra, questa è la
verità.
Vengono qua a rubare, spacciare, a portarci la miseria, a occupare le nostre
città, le nostre strade, ci invadono e noi cosa dovremmo fare stare a
guardare?
Io non sono razzista ma questi devono rispettarci, non possono venire qua e fare
come se fossero a casa loro. Questa è casa nostra.
Questa gente deve imparare a stare al suo posto. Per avere dei diritti bisogna
rispettare, per prima cosa, i doveri. Se io sono ospite di qualcuno mi comporto
come tale, non come se fossi a casa mia.
Forse qualcuno si riferisce al modo in cui fate il vostro dovere?
Certo c'è anche chi pensa che questi, dopo essere arrivati da noi, magari
illegalmente, aver rubato, spacciato, ucciso e che altro ancora, quando lo
prendono dovrebbe essere trattato come in un albergo.
Noi non andiamo in servizio per fare le dame di carità. Siamo lì per fare
rispettare delle disposizioni. Dobbiamo mantenere la sicurezza non trasformare
il carcere in una baraonda. Se qualcuno si lamenta poteva fare a meno di
finirci. I diritti sono per le persone perbene.
In servizio noi facciamo solo il nostro dovere: manteniamo la sicurezza.
Questi sono animali, siamo noi a rischiare nelle sezioni.
I detenuti se sono qui è perché hanno sbagliato. Il carcere è una punizione mica
un premio.
Come mai, allora, si sente parlare di comportamenti xenofobi e razzisti in
carcere?
Non lo so. In giro c'è gente sempre disposta a darci addosso. Basta che una
di 'ste t... dica una cosa e tutti le credono. Magari questa dice una cosa,
senza dire perché una ipotetica cosa è successa. Certo mica sempre si possono
usare i guanti di velluto.
Perché, molti, si fanno infinocchiare dai comunisti. Loro ai negri ci vogliono
dare anche il voto. Così poi tutta l'Africa ci arriva qua.
È questa mania delle società multietniche. Basta che uno straniero dica una cosa
e sono tutti pronti a starlo a sentire. Noi invece che siamo di qua non veniamo
tenuti in considerazione.
Sono i politici e gli intellettuali a fare 'sti discorsi. La gente la pensa come
noi. È stufa. Non vuole avere tra i piedi tutte 'ste razze, che poi sono tutti
delinquenti.
Chi fa 'sti discorsi forse non si rende conto del pericolo che stiamo correndo.
Le nostre città sono diventate un concentrato di criminalità. La nostra gente
non può più girare tranquilla per strada. Ci sono extracomunitari
dappertutto.
Lo stato invece di dare i soldi a sta gentaglia, lo sa che danno i soldi anche
agli zingari, dovrebbe preoccuparsi di più della nostra gente che non vive più
sicura.
La frattura tra Stato e popolo, e la sfiducia nei confronti delle istituzioni
centrali, trova il suo corollario nel sentirsi parte di un movimento che ha
nell'idea di "comunità", culturalmente definita (22), la propria
ragione di esistere. Di primo acchito può suonare strano trovare i termini
cultura, differenza culturale, origini culturale ecc. nelle parole di attori
sociali che ben poco hanno a che fare con la produzione culturale. Sarà meno
strano se pensiamo a come, da circa un decennio, il termine cultura è diventato
l'oggetto privilegiato dei discorsi di senso comune. Anche se nessuno in realtà
sa o riesce a dire qualcosa intorno alle culture originarie della "comunità" di
cui parla, tutti se ne sentono partecipi. Ognuno ha scoperto che, da qualche
parte, più o meno nascosta, esiste una cultura e un'epoca, autentica e felice,
che è propria del luogo e della gente che "da sempre" lo abita, nessuno l'ha mai
vista e conosciuta, ma tutti ne parlano e la ricordano. Il semplice ricordo,
continuamente alimentato dall'invenzione di "antiche tradizioni" (23), è
sufficiente. Intorno al mito di una cultura propria e originaria, quote di
popolazione, riscoprono un senso di appartenenza probabilmente impensabile solo
qualche tempo prima. La scoperta ha, tra le sue conseguenze immediate, il
rivendicare, senza alcuna mediazione esterna e estranea, il governo del proprio
territorio. Più volte verrà infatti ribadita e sottolineata la proprietà delle
città, dei territori, delle ricchezze locali. È un noi che si concretizza
immediatamente con gli edifici, i panorami, le vie e le piazze, è un noi che è
possibile constatare e toccare con mano. Vale la pena di sottolineare come, a
fronte dell'apparente concretezza, il frame in cui queste nuove forme di
identità e appartenenza si giocano siano totalmente immaginifiche (24). La città
che viene riscoperta non solo non esiste più ma non è mai esistita. Non siamo
neppure di fronte al famoso, anche se non meno discutibile, perché restiamo in
provincia. (25) Palesemente il bisogno di "immaginare una comunità", in un'epoca
in cui gli stessi confini statali diventano(almeno per alcuni e sicuramente per
le merci e i capitali) vincoli arcaici (26), è tanto più forte per chi è
collocato in una situazione definibile glocale(27) Nel tramonto dello
Stato-Nazione (28), per gli attori sociali inseriti nell'incertezza del glocale,
decisivo è l'emergere di un noi in grado di garantire e riprodurre una qualche
forma di potere e privilegio.
È un noi che ha comunque e sempre una priorità sull'altro. Insomma chi non è
come noi è contro di noi. Si è noi semplicemente perché si appartiene a un
paesaggio, a una via, a un luogo. È la nostra cultura, che possediamo fin dalla
nascita, dalle tradizioni culturali che ci tramandiamo, a legittimarci. È
intorno a tale riscoperta che matura una precisa definizione dell'altro e dello
straniero come nemico. Per quanto grotteschi i motivi culturali dei nuovi
movimenti di popolo non sono poi così estranei e alieni a tematiche, molto più
nobili, presenti nell'attuale dibattito delle scienze sociali. Termini come
multiculturalismo, interculturalismo e società multietnica godono, infatti, di
ben altra stima. A ben vedere il differenzialismo culturale, che caratterizza i
movimenti popolani, non sembra essere altro che l'altra faccia di discorsi
apparentemente più rispettabili.(29)
Nel ventre del mostro
La tipologia dei reati commessi dagli stranieri si colloca, generalmente,
all'interno di un profilo criminale tendenzialmente basso.(30)
Solitamente anche nei casi di reati di una certa entità, come i fatti di sangue,
non ci troviamo di fronte a un progetto criminale volutamente pianificato. Per
lo più il grosso reato, ad es. il tentato omicidio o le lesioni, è più il
risultato, non voluto, di una infrazione. Numerosi sono ad esempio i casi di
risse finite con l'assumere contorni delittuosi di maggiore entità. Generalmente
lo stesso discorso vale per i reati contro il patrimonio. Le numerose rapine, di
cui gli stranieri sono imputati, in origine sono semplici furti o scippi che,
per imprevisti e più spesso per incapacità, si trasformano in un reato,
giuridicamente, molto più grave(31).
La presenza di detenute/i stranieri ha modificato radicalmente la composizione
sociale carceraria. Nelle grandi aree metropolitane del nord Italia superano,
sovente il 50% della popolazione detenuta. Secondo gli attori istituzionali e
sociali intervistati questo ha modificato principalmente due cose: l'equilibrio
(il rapporto di forza) tra detenuti e istituzione penitenziaria e la messa in
discussione di quello status di cittadinanza che, movimenti sociali, società
civile e interventi riformatori istituzionali avevano costituito nell'arco di un
trentennio. Le logiche descritte hanno delle ricadute immediate sulla vita dei
detenuti. Attraverso un certo numero di interviste a ex detenuti abbiamo cercato
di ricostruire la dimensione ordinaria della vita carceraria.
Forza e denaro
Le prime due interviste sono state rilasciate da due donne italiane
"privilegiate". Imputate per un reato associativo, in relazione
all'organizzazione e alla gestione del business del gioco clandestino
sottolineano immediatamente:
Con noi sanno che non conviene comportarsi in un certo modo. Sanno che ci
devono portare rispetto.
Solo una volta una si è permessa una parola di troppo. Ma sono state le sue
stesse colleghe a riprenderla e a dirle che con noi non poteva fare come con le
altre.
Chiarito il loro status particolare e quindi anche una probabile maggiore
obiettività nella narrazione abbiamo proseguito l'intervista facendoci
raccontare gli standard di vita abituali all'interno della sezione
femminile:
Normalmente le cose come vanno?
Per chi non sa farsi rispettare male, molto male. Le guardiane e le guardie
fanno quello che vogliono. Specialmente con le straniere. Poi sono coperte dalla
direzione che è peggio di loro. C'è una donna, una vice direttrice, che gliela
raccomando.
Di solito, sia al femminile che al maschile, le cose vanno da cani. Guardie e
guardiane hanno carta bianca. Comandano loro e anche di brutta
maniera.
Potete essere più precise?
Volentieri. Picchiano, a volte anche con l'aiuto degli uomini. Specialmente
se devono picchiare le nigeriane. Di solito le nigeriane non si lasciano
sottomettere. Così, per picchiarne due, gli entrano in cella sei donne e due o
tre uomini. Con le altre se la sbrigano da sole.
È come dice lei. Lì i detenuti non sono rispettati per niente. Per le straniere
è ancora peggio.
Secondo la vostra esperienza ci sono comportamenti razzisti?
Non lo so, ma è normale sentire dire: "fila in cella t... negra", oppure se
una nigeriana protesta: "cosa hai da lamentarti, t..., ti mancano tutti i c...
che prendevi", è tutto così.
Sono così arroganti che se ne fregano anche degli avvocati. Insultano le donne
anche in loro presenza.
Prima avete detto che c'è una differenza, di solito, tra il modo di comportarsi
delle vigilatrici con più anni di servizio e le più giovani. Potete spiegarmelo
meglio?
Con le guardiane più anziane di solito c'è un rapporto diverso. Rispettano le
persone. Almeno di solito è così. Non ti vengono a cercare. Le nuove invece
sembrano non pensare ad altro. Poi vanno in giro anche a vantarsi. Un sacco di
volte le ho sentito dire frasi come: "le abbiamo s... per bene", oppure parlando
con un collega maschio: "abbiamo più c... di voi"
Una sera, me lo ricordo benissimo, sono entrate dalle zingare dicendole: "per
ora vi massacriamo solo, ma prima o poi vi facciamo arrosto", poi hanno aggiunto
delle altre frasi che non ho capito bene, qualcosa che aveva a che fare con dei
forni, comunque sia con le guardiane che non vengono dalla vecchia galera i
problemi sono più grossi. Sono arroganti e strafottenti.
Qualche ulteriore nota biografica va aggiunta. Le due donne, secondo i capi di
imputazione contestati, erano interne a una struttura criminale che gestiva un
giro di affari miliardario. Gli introiti illegali venivano investiti in attività
legali. Parzialmente decapitata la struttura illegale potevano contare su una
solida e fiorente struttura economica legale giuridicamente intoccabile. La
struttura illegale poteva vantare ramificazioni, conoscenze e alleanze su tutto
il territorio nazionale. Oltre a potersi permettere un tenore di vita, anche
all'interno del carcere, invidiabile potevano vantare una copertura esterna
sempre tangibile e presente:
È chiaro che se qualcuno si permette di farci uno sgarbo poi se ne assume
anche le conseguenze. Possono anche toccarci o trattarci male, ma poi devono
anche uscire e noi non siamo come le zingare, le tossiche o le straniere ...
abbiamo qualcuno che ci pensa e ci vuole bene ...
In sostanza le due donne, a differenza delle altre, possono contare su soldi e
potere. A una forza contrappongono, senza troppi giri di parole, un'altra forza.
Su questo equilibrio si gioca il quotidiano carcerario. Come vedremo meno gli
attori sociali sono in grado di ostentare forza e denaro, simboli universali
dell'inclusione sociale, più le loro condizioni si fanno precarie e
difficili.
Sulla falsariga delle precedenti si delineano le due interviste seguenti. Si
tratta di due italiani che hanno scontato un residuo pena per vecchie pendenze.
Attualmente lavorano nell'ambito del gioco clandestino. In pratica la loro
attuale occupazione somiglia molto a un lavoro impiegatizio: raccolgono le
scommesse, pagano le vincite, controllano alcuni locali dove sono inseriti i
video poker. Non sono legati organicamente alla "struttura", tuttavia rientrano
nel clima di protezione che questa fornisce e gli effetti si riversano
immediatamente nella vita carceraria:
Come sono le condizioni di detenzione nell'istituto penitenziario nel quale
eravate detenuti?
In generale non buone. Ci sono molte limitazioni, pochissima socialità. Se
non sei un lavorante passi quasi tutta la giornata chiuso in cella. Soprattutto
c'è un clima pesante con le guardie e la direzione.
Per noi le cose comunque andavano un po' meglio. Lavoravamo tutt'e due. Avevamo
abbastanza libertà di movimento.
Come sono trattati gli stranieri?
Per quello che sono. Niente. Poi gli sbirri ci mettono del loro. Li provocano
apposta. Si divertono a farli bere e a riempirli di pastiglie. Così questi non
capiscono più niente e gli fanno fare tutto quello che vogliono.
Molto spesso li vanno proprio a cercare. Li insultano, qualcuno fa cenno di
reagire e loro gli fanno il santantonio. (32)
Secondo voi c'è un atteggiamento razzista nei confronti degli stranieri?
Razzismo...non lo so. Certo questi sono di razze e culture diverse. Vengono
qua invece di starsene a casa loro. È normale che non li vogliono. Anch'io non
li voglio.
In sostanza c'è che sono diversi e non possono andare d'accordo con noi. E poi
sono troppi. Forse esagerano a trattarli così, in fondo anche loro sono uomini,
però se continuano ad arrivare in così tanti è normale che chi è di qua cerchi
di mandarli via.
Voi avete mai avuto dei problemi con la custodia?
No. Nessuno ci viene a cercare. Noi abbiamo molti amici che hanno il 41 Bis
(33)...
Noi rispettiamo tutti, ma vogliamo essere rispettati. Le guardie lo sanno che
qua dentro comandano loro, ma fuori il mondo è grande...
Come si è visto le ultime due interviste confermano, non solo, l'esistere e il
diffondersi sistematico delle pratiche razziste e xenofobe all'interno del
carcere, ma anche la loro legittimazione in ambiti sociali diversi. In ogni caso
sembra evidente che meno si è in grado di esercitare una forza individuale o di
gruppo più si è soggetti a pratiche vessatorie.
Corpi impresentabili
La condizione delle detenute tossicodipendenti è per certi versi significativa.
Le due interviste raccolte forniscono, secondo noi, uno spaccato significativo.
Protagoniste sono due donne italiane tossicodipendenti da diversi anni.
L'intervista è stata registrata presso lo studio di un avvocato Una delle donne
proviene da una famiglia benestante. Con la morte dei genitori la ragazza si è
trovata completamente priva di protezione. Consumato il patrimonio di famiglia
ha iniziato a condurre un'esistenza di strada. La sua storia è indicativa
perché, come ci rammenta il suo avvocato:
Anche se in passato aveva avuto alcuni problemi con la giustizia, per spaccio,
in realtà non aveva mai dovuto sopportare detenzioni lunghe. Con la morte dei
genitori e il rapido esaurirsi delle risorse la sua condizione è radicalmente
mutata. La mancanza di una rete sociale di appoggio e di risorse economiche
spalanca immediatamente le porte del carcere e le riapre con difficoltà. La
stessa persona, continuando a condurre la stessa vita, ha delle conseguenze
completamente diverse. Probabilmente se io non continuassi a occuparmi di lei
sarebbe in una condizione ancora peggiore. Oggi, molto più di ieri, il carcere è
fatto solo per i poveri. Più sei povero e più stai dentro.
L'altra donna ha conosciuto il carcere molto più a lungo. Senza famiglia e
protezione sociale da sempre è abituata a combattere una quotidiana battaglia
per la sopravvivenza. L'intervista inizia cercando di mettere a fuoco il
trattamento riservato alle tossicodipendenti:
Le persone con problemi legati alla tossicodipendenza che tipo di trattamento
hanno in carcere?
Bisogna distinguere due momenti. C'è l'intervento sanitario esterno che
funziona più o meno bene. Poi c'è il trattamento interno. Il trattamento esterno
tende a disintossicarti, quello interno a intossicarti ancora di più.
È così. Dentro tendono a riempirti di pastiglie a più non posso. Così sei bella
inebetita e non esci mai di cella. Non sei più un problema.
L'avvocato, presente all'intervista, conferma:
Spesso, andando a trovare la mia assistita, ho avuto la sensazione che
continuasse a usare eroina anche in carcere. La vedevo sovente sfatta. Una volta
le ho domandato se continuava a farsi e lei mi ha risposto che era piena di
psicofarmaci che le venivano continuamente somministrati, senza controllo e
senza limite dagli addetti all'infermeria.
La ragazza interviene per spiegare il contesto in cui sovente vengono a trovarsi
le detenute tossicodipendenti:
Se finisci dentro e ci rimani, oggi finisci in un inferno. Le cose sono
cambiate. È cambiato il modo come sei visto, trattato, considerato. Le guardiane
e non solo loro te lo dicono anche chiaramente: "Quand'è che voi, drogate di
m..., vi togliete dai c...?", "Meno male che ci ha pensato l'AIDS a togliere un
po' di t... da mezzo", "C... che resistenza, come fate a essere ancora vive?".
Queste frasi te le senti ripetere in continuazione. Ti stravolgi e riesci a
sopportare.
Abbiamo cercato di evidenziare maggiormente questo punto:
Volete dire che se uno non è in grado di proteggersi da solo è costretto a
vivere in un clima di continua violenza fisica e psicologica?
Grosso modo è così. La violenza fisica c'è, ma è quella psicologica che,
almeno a me, fa più male. Non è bello sentirsi dire continuamente: "Chissà che
p... devi fare con quella bocca sdentata", oppure "Ma chi viene con voi? I
marocchini".
Ma io a questo non ci faccio neanche più caso. Mi fanno più paura le botte. A
certe hanno lasciate dei bei ricordi. Poi tanto dicono che sei tossica e ti sei
fatta male da sola. Cosa fai le denunci, così magari ti ammazzano e dicono che
ti sei suicidata?
L'intervista si conclude con una domanda sull'esistenza di una differenza di
trattamento tra detenute italiane e straniere:
Voi detenute italiane avete un trattamento diverso rispetto alle
straniere?
Ma un po' si. Forse su di noi c'è meno accanimento. Con le straniere alla
violenza solita si aggiunge il razzismo.
Con le straniere se la prendono di più. Persino con le nomadi che sono di solito
molto quiete. Alle nomadi le fanno anche i gavettoni d'acqua sporca dicendole
che così almeno si lavano un pò
Quindi secondo voi c'è una buona dose di razzismo nella gestione quotidiana del
carcere?
C'è molto razzismo e molto sadismo. In più c'è una specie di
politicizzazione, se vogliamo chiamarla così, di questi atteggiamenti.
Sicuramente c'è proprio un odio per le straniere. Ma anche per tutto quello che
non rientra nella loro visione di normalità. Se non sei nei loro schemi sei da
eliminare. Per loro chi è dentro è un problema che va contenuto o
eliminato.
Queste testimonianze permettono di delineare una sostanziale differenza di
trattamento rispetto alle condizioni descritte precedentemente. In particolare
va evidenziato il continuo riferimento al corpo delle donne. Un corpo
antiestetico e malato, completamente estraneo ai criteri della rispettabilità.
In particolare c'è un lapsus che continuamente fuoriesce: il desiderio di
vederle morte, di rimuovere l'anomalia. Oltre ai riferimenti all'AIDS
significativo è l'accostamento con l'etnia, che nelle logiche di senso comune,
si situa all'ultimo gradino: i marocchini. Il corpo tossicodipendente può al
massimo essere appetibile per chi rappresenta l'altro nel suo aspetto più
infimo. Nelle varie classificazioni culturali in cui i vari altri sono iscritti,
marocchini e tossicodipendenti sono associati a malattia, degrado e morte. Il
corpo malato della tossicodipendente è immediatamente associato a una specie
(umana?) che non ha neppure l'istinto di sopravvivenza della bestia.
Malintesi "naturali"
Gli attori sociali, delle successive interviste, sono quattro ragazze
nigeriane.
Come siete state trattate durante il vostro periodo di detenzione?
Credo di poter parlare a nome di tutte, male, abbiamo avuto un sacco di
problemi e guai.
Potete essere più chiare?
Vieni continuamente provocata e umiliata. Sia le guardie che le guardiane si
rivolgono a te con frasi del tipo: "stai zitta, t... negra!", oppure ti fanno il
verso ripetendo in continuazione: "boca, figa, boca, figa".
Poi appena hanno il minimo pretesto ti entrano in cella per picchiarti. Siccome
di noi hanno paura, entrano sempre insieme a due o tre uomini.
Io le ho prese due volte. Tutte e due le volte di notte. Sono entrate quattro
guardiane e due guardie con i manganelli. Io e l'altra abbiamo appena fatto in
tempo a saltare giù dal letto. Ma non siamo riuscite a difenderci
troppo.
Con noi poi si i... perché non vogliamo prendere le pastiglie. Le drogate e
anche altre le prendono volentieri. Ma noi no. Loro vorrebbero farti sempre
prendere delle pastiglie. Così dormi.
Potete fare degli altri esempi?
Posso ricordare un episodio forse importante. Una volta un gruppo di guardie
e guardiane, mentre ci accompagnavano, si fa per dire, in realtà ci
trascinavano, in cella hanno detto: "ci mancano solo le ebree per fare una bella
infornata". Evidentemente si riferivano allo sterminio. Loro pensano che siamo
tutte ignoranti, ma invece la maggior parte di noi ha molta più cultura di
loro.
Ti trattano come se fossi una scimmia. In fondo ne sono anche convinti. Secondo
loro noi, prima di venire qua, abitavamo sugli alberi della foresta. A volte ti
dicono: "negra, non rompere i c..., qua hai anche il letto, non devi più dormire
sugli alberi.
Anche quando facevamo la doccia si comportavano come i razzisti. Magari ti
dicevano: "dai negra, lavati che puzzi", oppure "guarda che sono docce, non
arrampicartici su".
Ancora una cosa. Ricordate discorsi particolari sugli stranieri?
Qualche volta. Ricordo che ci dicevano che non ci volevano. Che dovevamo
tornare nella jungla. Che questa era casa loro.
Si spesso se ci ribellavamo ci dicevano che qua era casa loro. Che se non ci
andava bene dovevamo tornarcene a casa nostra. Che noi dovevamo solo stare
zitte. D'altra parte, ci dicevano, con il vostro mestiere siete abituate a
lavorare in silenzio e con la bocca piena.
Che come t... andavamo anche bene, ma poi non dovevamo rompere i c...
Che sappiamo solo fare le p... perché siamo ninfomani per natura.
Che serviamo solo per prendere dei gran c... perché siamo naturalmente
t...
Di fronte al nero e alla donna di colore in particolare il nostro senso comune
sembra riscoprire la natura. Che le popolazioni di colore fuoriescano dalla
foresta e approdino nelle nostre società lanciandosi da una liana in fin dei
conti è una cosa fin troppo ovvia.
Nonostante una copiosa letteratura, all'interno di ambiti disciplinari diversi,
abbia da tempo evidenziato come con i processi di globalizzazione sia poco
sensato continuare a parlare di "terzo mondo" (34), nelle logiche
di senso comune l'idea di "terzo mondo" è paradossalmente rafforzata. (35) Continuamente viene ribadito lo scarto culturale che separa noi
da loro. Come abbiamo visto persino il letto e la doccia vengono considerati
oggetti di possibile stupore per le popolazioni provenienti dal continente
africano. Cadremmo in errore se considerassimo tali pregiudizi circoscritti a un
ambito ristretto e specifico. Comunemente non è tanto inusuale sentire
affermazioni del tipo: "Hanno anche il telefonino". Per non parlare della
sorpresa di fronte allo straniero e al nero in particolare che usa con
tranquillità il computer. Una nera è una nera, può esistere soltanto all'interno
dello stereotipo culturale che noi abbiamo costruito. Non saranno passati
inosservati i neppure troppo velati rimandi alla incontenibile sessualità della
donna di colore. Anche in questo caso il discorso razzista non fa che utilizzare
e volgarizzare un ordine discorsivo assolutamente scontato nelle logiche di
senso comune. Come hanno osservato numerose studiose femministe americane (36),
la donna nera, all'interno della società bianca, può esistere solo come serva.
Donna addetta alle fatiche domestiche o ai piaceri dell'erotismo. In entrambi i
casi da lei si ci spetta una prestazione consona alla sua natura. Instancabile
lavoratrice, più resistente di un mulo, o insaziabile animale erotico. Docile,
laboriosa, paziente e invisibile come la Mamy di "Via col vento" o aggressiva,
sessualmente esplicita e incontenibile come la regina del rock Tina Turner. (37)
La donna nera è tutta lì. Entrambe vivono in funzione del soddisfacimento dei
bisogni della società bianca. Il carcere non fa che volgarizzare ulteriormente
un radicato luogo comune.
Malintesi "culturali"
Vediamo di seguito i riflessi delle logiche di senso comune nei confronti delle
donne nomadi. Le due donne intervistate hanno trascorso alcuni mesi di
detenzione in seguito a un'accusa di furto dalla quale sono state in seguito
prosciolte. La storia delle due ragazze è emblematica. Evidenzia come, nell'uso
contemporaneo, il termine cultura tenda a diventare una sorta di "gabbia
d'acciaio" contrapposta alle concrete pratiche culturali individuali. (38) Il caso descritto rientra nella tipica casistica di quel processo
di ibridazione (39) culturale così difficilmente accettato nella società
attuale. Come vedremo le due donne vivono un doppio processo di esclusione
sociale: da parte della nostra società, in quanto appartenenti a una cultura di
infimo ordine; da una parte della "comunità" (in particolare dei maschi adulti)
a causa dei loro comportamenti anomali rispetto alle loro tradizioni culturali.
Banalmente le due ragazze avevano iniziato ad avere frequentazioni amicali
esterne al "campo". Inevitabilmente questo aveva prodotto una serie di
contaminazioni culturali e comportamentali. Non ultimo una messa in discussione
delle gerarchie di potere tradizionali. L'arresto li ricolloca all'interno di
rigidi schemi culturali:
Dal momento dell'arresto e per tutto il periodo della detenzione tutti non
hanno fatto altro che dirmi e spiegarmi che sono una zingara.
Sembra impossibile essere una cosa diversa da quello che gli altri decidono. Se
ti dicono che sei una zingara devi fare tutto quello che secondo loro fanno le
zingare. Non esisti come persona ma come gruppo e con certe
caratteristiche.
In che senso?
Per loro è inconcepibile che una zingara si ribelli, che affermi di avere dei
diritti.
Le zingare dovrebbero fare le zingare, è stupido ma funziona così.
Com'erano i rapporti con le altre detenute?
Con le italiane e le albanesi pessimi. Non volevano avere niente a che fare
con noi per i soliti motivi. Meglio con alcune ragazze nigeriane e sud
americane. Le altre donne nomadi invece tendevano a isolarci.
Si le altre donne nomadi ci consideravano delle p... perché non ci comportavamo
come loro.
Cosa vuol dire comportarsi come una donna nomade?
Accettare il tuo ruolo di completa sottomissione.
Fare quello che tutti si aspettino dalle zingare...
Con la custodia avete avuto dei problemi particolari?
Gli stessi che hanno avuto le ragazze nigeriane e sud americane che non si
piegavano facilmente.
Noi eravamo un gruppo che faceva sempre casino. Che non ci stava a subire.
Eravamo considerate le ribelli r... Abbiamo avuto qualche guaio, anche un
pestaggio, ma se non altro non venivamo umiliate come le altre
nomadi.
L'intervista meriterebbe di essere riportata integralmente. All'interno di una
sezione femminile vediamo concentrarsi molti degli aspetti determinati dalle
attuali retoriche culturaliste. (40) Le ragazze sono rifiutate
dalle italiane e dalle albanesi perché zingare, al contempo vengono escluse
dalle nomadi perché il loro stile di vita non è consono all'ortodossia culturale
dell'etnia di appartenenza. Significativamente l'unico ambito di inclusione lo
trovano nel gruppo di donne nigeriane e sud americane che non si caratterizza in
chiave etnico-culturale ma, secondo le parole delle guardiane come "il gruppo
delle ribelli r..."
L'insubordinazione del piccolo gruppo di donne mette in crisi non solo le
logiche di comando e dominio interne all'istituzione carceraria ma tutto un
intero paradigma analitico. A essere spiazzati sono le donne culturalmente
definite, gli operatori istituzionali che su tali definizioni operano e, non da
ultimi, gli estensori dell'ordine discorsivo (41). Ma cosa hanno fatto di così
radicale? Banalmente si sono comportati come individui non disposti a
sottostare, senza resistere, alla logica della dominazione. Di fronte al gesto
di resistenza tutti entrano in crisi. Le etnie bollano le ribelli come
traditrici, l'istituzione non riesce a catalogarle. L'ibridazione culturale,
così possiamo debolmente (42) definire l'agire multietnico delle donne, confonde
sia il potere che il sapere dimostrando ancora una volta quanto strette siano le
maglie che li legano.
I sommersi
Concludiamo occupandoci di alcuni giovani immigrati marocchini. Le interviste
sono state effettuate grazie alla mediazione di un operatore del volontariato
all'interno di un Centro Sociale che si occupa prevalentemente di giovani
immigrati. Due dei ragazzi erano stati arrestati per spaccio, gli altri due per
furto. Due di loro, saltuariamente, si prostituiscono. I migranti marocchini,
all'interno della cosìddetta opinione pubblica, godono di una pessima
reputazione. In carcere le cose non cambiano. Solitamente dediti a reati
irrisori e poco professionali, privi di un qualunque legame organizzativo e
senza protezioni economiche, sono considerati la feccia della feccia. Per le
logiche razziste rappresentano il tipo sub-umano ideale. Nelle retoriche comuni
non è raro che il termine marocchino, unito sovente a zingaro, sia utilizzato,
in senso dispregiativo, per definire l'insieme degli stranieri indesiderabili.
Nelle interviste abbiamo, principalmente, cercato di evidenziare quanto queste
logiche di senso comune giochino un ruolo decisivo nella gestione dei frame
relazionali.
Essere marocchino in carcere ha un significato particolare?
Sei visto male. Un po' come fuori solo che lì non puoi evitare le
conseguenze.
Essere un marocchino è come essere niente. Sei sempre l'ultimo in ogni
cosa.
Sei considerato meno di niente.
Ti possono fare qualunque cosa tanto è come se non esistessi.
Potete raccontare dei casi specifici?
Sei provocato di continuo. Se devono divertirsi con qualcuno i primi a essere
presi di mira siamo noi.
Di notte ti svegliano prendendo a calci la porta e insultandoti, se reagisci
entrano dentro e ti pestano.
Certi si divertono a farti ubriacare e poi spintonarti come un manichino giù per
le scale.
Nei nostri confronti c'è molta più intolleranza. Qualunque scusa è buona per
darci addosso.
Ricordate qualche discorso particolare fatto nei vostri confronti?
Che dovevamo imparare a ubbidire e che loro erano i nostri padroni.
Si che eravamo i loro schiavi e che gli servivamo per divertirsi.
Non dovevamo rompere i c...con tante pretese. Noi qua siamo estranei, non
abbiamo diritti ma solo obblighi.
Qualcuno diceva che avrebbero dovuto rinchiuderci tutti insieme e non farci
muovere liberamente per la città. Dovevamo imparare a stare al nostro
posto.
Se come è stato ben evidenziato la condizione di straniero assomiglia molto
all'arcaica figura dell'homo sacer (43) il "marocchino" sembra
materializzarla fino all'inverosimile. Nei suoi confronti ogni abuso sembra
lecito. È assolutamente uccidibile perché assolutamente inesistente.
Disagio mentale e esclusione sociale
Nonostante i dinieghi di facciata, un certo "positivismo" di ritorno,
nell'ambito del "disagio mentale", sembra aleggiare tra gli addetti ai lavori(44). A riguardo abbiamo raccolto testimonianze di operatori
impegnati contemporaneamente in carcere e sul territorio. Infine abbiamo
ascoltato alcuni ex detenuti. Palesemente, almeno questa è la sensazione che
abbiamo ricevuto, un notevole imbarazzo è presente tra gli operatori predisposti
al servizio:
Negli ultimi anni, all'interno del carcere, è notevolmente aumentata la
richiesta di supporto psichiatrico. Può delinearmi da che cosa è causata questa
richiesta?
Innanzi tutto, bisogna precisare, la richiesta di intervento psichiatrico non
è soltanto legata all'ambito carcerario. In molte aree urbane c'è un aumento
costante del cosiddetto disagio mentale. In carcere è prevalentemente legato
alla presenza di detenuti stranieri. La stragrande maggioranza di interventi
sono richiesti e rivolti a loro.
Detta molto semplicemente l'aumento di servizi psichiatrici in carcere è dovuto
alla presenza di detenuti stranieri.
Molti dei detenuti stranieri mostrano segni evidenti di disagio mentale. Spesso
il disagio è provocato dal carcere e dalle sue condizioni. Noi siamo chiamati a
tamponare e contenere gli effetti di una situazione. Questo, per noi, è un
paradosso.
In carcere, ma anche sul territorio, negli ambiti sociali meno protetti, il
"disagio mentale" conosce una nuova fiorente stagione. Tra i detenuti stranieri
la cosa ha caratteristiche più marcate perché la loro condizione di vita ha
tutti i presupposti per sfociare nel disagio psichico.
Il carcere è un luogo che ha sempre favorito la produzione di forme marcate di
disagio psichico. Per i detenuti stranieri queste condizioni sono ulteriormente
amplificate. Con la loro presenza le richieste di intervento sono aumentate
continuamente.
Buona parte degli addetti ai lavori intervistati è cresciuta o ha respirato il
clima innovativo e non ortodosso della "scuola basagliana". (45)
Basaglia, nell'ambito del suo lavoro, era riuscito a incrinare, fino a
dissolvere, almeno in parte, la contrapposizione secolare tra il medesimo e
l'altro, (46) riportando il folle all'interno della società. La malattia mentale
veniva alla fine rivisitata come specchio e non aporia del vivere sociale.
Riconsegnando il folle alla società, sottraendolo quindi al sapere - potere (47), inappellabile, della medicina, Basaglia riconsegnava l'attore
sociale, tout court, alla sfera del diritto e dei diritti. Figlio di un'epoca
che presupponeva i diritti come qualcosa di permanentemente inclusivo e
estensivo, il medico italiano, individuava nella lotta (48) per i diritti la
miglior cura e medicina. Non a caso l'uovo di colombo della sua strategia
curativa era l'approdo del folle al mondo del lavoro. Su questo aspetto vanno
spese alcune parole.
Indubbiamente, il lavoro come cura ricorda molto da vicino,
al contempo, la pedagogia socialista e calvinista. Parlando di accesso agli
ambiti del lavoro, Basaglia, ha in mente non l'inserimento della follia in un
circuito di lavoro differenziato, marginale, appositamente costruito per, come
si direbbe oggi, ipotetiche fasce deboli e/o svantaggiate; ma la presenza dei
folli nell'ambito del salario. Il salario, in quanto materializzazione monetaria
del lavoro sociale astratto (49), ricompone, oggettivamente, la frattura tra
medesimo e altro, ne generalizza l'alienazione (50). Nella sua nudità, il
salario, annulla ogni differenza. Parlando del lavoro, il medico di Gorizia, in
realtà parla dei diritti che il lavoro, in quel contesto storico, esercita.
Essere un lavoratore significava diventare cittadino. Non a caso tutti coloro
che vivevano una condizione di esclusione e marginalizzazione sociale o erano
totalmente estranei al ciclo produttivo o si collocavano alla sua estrema
periferia. Per tutta un'epoca il lavoro include (51). L'eclisse dell'equazione
lavoro/diritti ha molto a che fare con il ripristino di pratiche fortemente
esclusive. (52)
Che tipi di interventi vi vengono richiesti?
Un intervento che rovescia le logiche in cui per anni eravamo abituati a
operare: non trasformare il disagio in esclusione sociale.. Anche se non è detto
in modo esplicito, il servizio oggi, è chiamato a svolgere un ruolo di
esclusione sociale.
In poche parole invece che liberare la malattia o, come sarebbe sensato fare,
rimuoverne le cause, quasi sempre esterne ai soggetti trattati, siamo chiamati a
rinchiuderla e a differenziarla. In altri termini il disagio mentale torna a
essere trattato come fatto puramente individuale, organico. In questa logica il
malato per prima cosa deve essere separato dal mondo dei sani e, se la malattia
non è grave, risocializzato in un ambito estremamente circoscritto
Inoltre l'essere o meno inseriti e classificati come folli, poco ha a che fare
con la patologia in sé. Lo stesso tipo di disturbo, a seconda della condizione
sociale, veicola in un ambito piuttosto che in un altro. In altre parole
diventare folli o meno dipende dalla concreta condizione sociale, giuridica e,
non ultimo dal colore della pelle. Classe, nazione, razza diventano i profili
decisivi di ogni cartella clinica. Vediamone un caso concreto incontrato nel
corso della ricerca.
Razza, nazione e classe
Come sembrano dimostrare varie inchieste scientifiche e non, il "disagio
psichico", sotto forma di ansia, insicurezza, senso di inadeguatezza, ecc. è
diventato un luogo comune della nostra società. La presenza di antidepressivi,
ansiolitici, sonniferi e tranquillanti vari sembra rientrare, insieme
all'aspirina e a pochi altri farmaci, nel kit farmacologico presente in ogni
abitazione. Il numero di persone che ricorre all'analista o a qualche altra
forma di terapia similare è pressoché infinito. Non è questa la sede per
discutere gli stili di vita, più o meno alienati e alienanti, della nostra
società; più concretamente volevamo capire come, dove e quando la malattia cessa
di essere un fatto privato per diventare una questione pubblica (53). In
definitiva perché, di fronte a forme di malessere simili, qualcuno può
continuare tranquillamente la propria vita e altri no. Significativo a proposito
è l'esempio che riportiamo. Due donne afflitte dalla stessa fobia: la paura per
gli insetti. La prima è una donna bianca, laureata e benestante. Gestisce una
galleria d'arte e si occupa di antiquariato. La seconda è una donna nera,
colta, non benestante, che svolge la professione di prostituta. La prima ha
affrontato e affronta il problema attraverso l'analisi. Non ha mai fatto uso di
farmaci, il suo disagio non è un fatto pubblico. Al massimo la malattia è
socializzata in una ristretta cerchia di amici e colleghi. La scelta
dell'analisi è frutto di una decisione del tutto individuale. Né l'analista né
la cerchia di colleghi e amici la sottopone periodicamente a alcun tipo di
verifica. La malattia non la obbliga a dare continue prove. La nostra donna
bianca, attualmente, continua ad aver paura dei suoi insetti, ma solo di quelli.
Oltre agli insetti non deve temere altre figure:
La mia fobia riguarda unicamente me. La socializzo se decido di farlo. Il mio
ruolo pubblico non ne è intaccato.
Vediamo cosa succede alla donna nera detenuta. La stessa fobia conduce a due
destini diversi. Intanto in carcere è difficile non convivere con un tot di
insetti, ma è anche impossibile mantenere la fobia nell'ambito del privato. La
paura esiste e si manifesta. Come ogni paura genera panico e comportamenti
anomali. Per farla breve la donna nera mostrava palesi segni di squilibrio,
piangeva, gridava, diventava aggressiva e violenta. Banalmente, aveva
paura:
Di notte mi svegliavo urlando. Sognavo scarafaggi e ragni, me li sentivo
camminare addosso. Gridavo e iniziavo a picchiare contro la porta. Mi sentivo
soffocare. Le prime volte le guardiane entravano e mi portavano in isolamento,
sono stata anche picchiata...
In seguito è stata messa sotto terapia.
Dopo hanno iniziato a farmi delle iniezioni che mi facevano dormire per tutto
un giorno.
L'aspetto veramente curioso riguarda la ricostruzione del quadro clinico. A
differenza della donna bianca che si è consegnata al potere dell'analista
descrivendo in prima persona la malattia, nel caso della donna nera la malattia
è stata raccontata. Il medico si è trovato di fronte non la fobia per gli
animaletti ma tutti i comportamenti folli della donna. A emergere alla fine era
lo squilibrio: instabile caratterialmente, soggetta a fasi depressive e/o
aggressive imprevedibili. In altre parole pericolosa. È l'inizio della
malattia.
"Differenze culturali" e esclusione sociale
Torniamo agli operatori. Secondo il loro giudizio i servizi di salute mentale
vengono investiti di responsabilità al contempo nuove e arcaiche. Devono
attestare il diffondersi della malattia, certificarlo e catalogarlo,
ri/funzionare come struttura di contenimento e di differenziazione. La follia
ricompare nelle strade delle nostre città. Nuove quote di popolazione vengono
iscritte nei registri delle anomalie. Gli operatori cresciuti in una logica che
tendeva a "non riconoscerla", se non per vanificarla, sono chiamati a
ricercarla, testarla e certificarla nei micro-comportamenti quotidiani. È un
processo biunivoco a instaurarsi. Non solo si producono dei nuovi matti, ma
quote di popolazione si auto-producono come tali. Il numero crescente di persone
che si rivolgono in cerca di aiuto e sostegno ai centri di salute mentale
aumenta. Il compito degli operatori si fa difficile. Da una parte sono chiamati
a svolgere un lavoro di contenimento, impedire che la follia si manifesti, in
seconda battuta devono scremare questo luogo. Certificare insomma un circuito di
follia "docile" da utilizzare per un ciclo di produzione differenziato e
auto-escludente. Per il folle "docile" si attivano tipologie di lavoro
particolari e "protette", costruite ad hoc. Contenimento e classificazione
questi i compiti a cui sono chiamati gli operatori. Le testimonianze raccolte
evidenziano continuamente, con toni spesso critici, le funzioni che il servizio
è chiamato a svolgere. In particolare vedremo come, nei confronti dei detenuti
stranieri, la richiesta di trattamenti psichiatrici eluda tranquillamente il
fattuale. Nella migliore delle ipotesi, l'immigrato, viene trattato attraverso
lo specifico dell'etnopsichiatria. Non ci permettiamo, non essendo specialisti,
di entrare nel merito di un ramo così specifico e specialistico della scienza
psichiatrica. Un dubbio profano sembra, però, lecito. Presupporre lo
sradicamento come veicolo e causa del disagio mentale, dato considerato
obiettivo, appare per lo meno dubbio. Un famoso giurista tedesco, Carl Schmitt,
in uno scritto polemico, contro il calvinismo e Max Weber(54), o viceversa,
fece dell'essere radicati una peculiarità propria del cattolicesimo. Nello
stesso testo si sottolineava come lo sradicamento, quindi la capacità di
sentirsi a casa propria ovunque, perché sostanzialmente privi di radici, fosse
la peculiarità dei popoli non cattolici. Questa stessa affermazione può essere
sottoposta a più di un interrogativo se consideriamo come per Agostino il
cristiano sia in primo luogo un pellegrino. (55) Difficile in ogni caso capire
come, improvvisamente, per musulmani e protestanti o non credenti il problema
delle radici sia addirittura così stringente da produrre disagio mentale. Un
così forte interesse per le radici è forse più facilmente spiegabile con
l'interesse e l'importanza assunti negli ultimi tempi da termini come tradizioni
e origini. Il polarizzarsi del dibattito interno alle scienze sociali intorno a
tali categorie tende, sovente, a eludere gli aspetti empirici e concreti in cui
interagiscono gli attori sociali. Come abbiamo visto nel caso della "questione
insetti" forse i problemi sono meno filosofici, culturali, religiosi e più
pragmatici. Allo stesso modo i numerosi casi di autolesionismo, tentati suicidi
e suicidi o gli episodi di violenza apparentemente gratuita verso cose e persone
hanno origini più "banali" e contingenti. (56)
Gli attori sociali
Con l'aiuto degli operatori siamo riusciti a entrate in contatto con alcuni
detenuti/e trattati dal servizio. Prima di riportare alcuni brani delle loro
interviste, abbiamo ritenuto interessante, farci raccontare da un ex-detenuto,
che ha scontato lunghe pene detentive, la storia della follia all'interno
dell'ambito carcerario. L'autolesionismo in carcere non rappresenta una novità.
Per certi versi può considerarsi un tratto peculiare della "cultura carceraria".
Tuttavia, a un certo punto, e per un periodo di tempo abbastanza lungo, si
eclissa. La nostra impressione era che, la scomparsa della follia, fosse
fortemente collegata all'apparire di una figura di detenuto fortemente
socializzato e con solidi legami col tessuto sociale urbano. L'intervistato
appartiene a una delle gang metropolitane formatesi negli anni '70 .
Nell'intervista abbiamo cercato di mettere a fuoco sostanzialmente tre cose:
1.. L'esistenza di una tradizione autolesionista in carcere
2.. Attraverso quali meccanismi questa sembra sparire
3.. Continuità e differenze nel suo riapparire oggi
Lei ha trascorso una parte considerevole della sua vita in carcere. Attualmente
tra i detenuti si ricorre spesso a forme di violenza su se stessi, o a forme di
violenza "ingiustificata" su cose o altri detenuti, queste forme sono sempre
state presenti all'interno della cultura carceraria?
Si e no. Agli inizi degli anni '70, quando io ho iniziato a entrare in
carcere, era una pratica abbastanza diffusa. A dire il vero non era un uso
legato solamente all'ambito carcerario. Molti, specialmente i più anziani, ai
tempi, avevano l'abitudine di girare anche fuori con una lametta in bocca. Se
venivano arrestati e picchiati, prendevano la lametta si tagliavano per farsi
portare all'ospedale e far finire l'interrogatorio. In carcere comunque era
molto più usato.
Per quale motivo?
Per tanti motivi. Solitamente o per protesta o per cercare di evitare certe
conseguenze da parte delle guardie. Molti si tagliavano per evitare di finire
alle celle di isolamento o di essere legati al letto di contenzione. C'erano
anche i casi di chi si tagliava per poter andare in infermeria. Infine c'era chi
aveva preso il vizio di tagliarsi. Lo faceva per sentirsi importante o per
interrompere la monotonia del carcere.
Cos'è, secondo lei, che a un certo punto fa sparire certe usanze tra i
detenuti?
Sicuramente c'è stato, per un certo periodo, un cambiamento della mentalità.
A un certo punto c'erano più detenuti che la pensavano come noi. Noi dicevamo:
va bene tu mi tieni dentro, ma io voglio delle cose. Io ho dei diritti se non me
li dai ti sfascio tutto. Se un carcere è unito è difficile che la direzione e le
guardie non trattino. Poi c'era anche un'altra questione, molto importante. A
differenza dei vecchi detenuti che fuori erano isolati noi no. Qualcuno entrava,
ma altri uscivano, e tra noi c'era un legame fraterno. I vecchi detenuti invece
erano abituati a piegare la testa, a fare i confidenti e a rubare quattro
soldi.
Vuol dire che anche se dentro il detenuto continuava a far parte di un ambito
sociale?
Si, sostanzialmente si. Non si ci sentiva mai abbandonati. Poi tenga presente
che in quegli anni c'erano anche i politici. Loro sapevano parlare, anche loro
non erano isolati dall'esterno, in carcere non potevano più fare come una volta.
Le notizie filtravano.
In questo periodo quindi la pratica dell'autolesionismo o di comportamenti
simili scompare?
In linea di massima si. Per molti anni non ho visto più gente che si apriva
le budella.
C'era un uso abituale di farmaci. Mi riferisco a sedativi, calmanti e
sonniferi?
Poco, molto poco. Forse qualche sonnifero, ma niente di più. Quando però sono
cominciati ad arrivare i drogati le cose sono cambiate.
In che senso?
Loro vivevano solo per quello. Ne sapevano più dei dottori. Cercavano sempre
di impasticcarsi.
Lei ha terminato la sua detenzione nei primi anni '90. Di nuovo si parla, con
insistenza, di pratiche auto-lesive, di uso massiccio di farmaci. Cos'è
cambiato in questi anni?
Per certi versi è come se si fosse tornati indietro di trent'anni. In carcere
ci sono per lo più dei fuori di testa. La maggior parte sono stranieri, gente
che non sa nemmeno perché si trova dentro. Con l'eroina è cambiato tutto. Gli
stranieri non valgono molto di più dei tossici. Per cui è normale che il carcere
sia ritornato a essere così.
I brani riportati mettono a confronto due contesti culturali che hanno abitato
lo stesso luogo senza mai incontrarsi. Se mettiamo tra parentesi l'aspetto
illegale questi discorsi potrebbero benissimo essere fatti da un qualunque
vecchio operaio della grande industria.
Essere interni a un tessuto sociale,
andare fieri del proprio lavoro, enfatizzare il legame di profonda solidarietà
"militante" tra gli appartenenti alla categoria.
Il sentirsi in dovere di
rivendicare dei diritti.
Organizzarsi per ottenerli.
La presenza, simile al
crumiro, di chi si tira indietro.
Oggi si sente completamente estraneo alle
logiche del carcere. Le interviste che seguono confermano, per molti versi, le
impressioni riportate. Tramite gli operatori del servizio psichiatrico è stato
possibile incontrare ex detenuti sottoposti a osservazione psichiatrica. Gli
intervistati sono tutti giovani stranieri, tossicodipendenti e non. L'intervista
è stata condotta alla presenza di uno degli operatori che si era guadagnato una
certa fiducia verso i detenuti. Tutti mostrano sulle braccia segni evidenti
delle pratiche autolesioniste. Uno alzando il maglione mostra ulteriori segni di
ferite all'addome.
Vi era mai capitato, prima di entrare in carcere, di provocarvi, volontariamente
delle ferite?
No.
Mai.
Una volta. Ero in astinenza, disperata, a un certo punto, mi sono graffiata
tutta la faccia.
Mi sono tagliata solo in carcere.
Non l'avevo mai fatto prima.
No.
Qualche volta l'avevo fatto anche fuori. Mi sono tagliato per non essere portato
in caserma e andare all'ospedale.
Perché si ci taglia?
Io lo facevo quando mi sentivo disperato. Non riuscivo più a stare lì dentro.
Mi tagliavo, sentivo il dolore e mi calmavo.
A volte lo facevo per sentire che esistevo. Quando ti senti come se non
esistessi, il dolore fisico, ti fa sentire di nuovo una persona viva.
A volte mi sono tagliata per non essere picchiata, altre perché ero depressa. È
difficile da spiegare. Anche se potrà sembrare strano, tagliarsi è un modo per
continuare a esistere.
Qualche volta l'ho fatto per reazione. Un gesto di protesta, dopo essere stato
umiliato o picchiato.
Mah, entri in un meccanismo che si riproduce da solo. Sai che se ti tagli dai
dei problemi e lo fai.
Sembrerà strano ma è un modo per sentirti viva. Il dolore il sangue, le urla,
l'infermeria, per un po' sei al centro dell'attenzione.
Per disperazione, perché non la reggi più.
Facevate uso di farmaci? Continuate a farlo?
Si. All'inizio avevo un po' paura. Poi gli altri mi dicevano che con quelli
stavi bene. Non ti accorgevi neanche più dove eri. Poi ce li davano con molta
facilità. Ho iniziato a prenderli, mi facevano stare bene. Fuori non ne ho più
presi
Li ho presi qualche volta. Poi anche quando me li davano facevo finta di
prenderli, me li mettevo sotto la lingua e poi li sputavo. Una volta che
prendevi le pastiglie diventavi completamente stupido. Potevano farti qualunque
cosa. Avevo paura a prenderle, mi dicevo questi poi mi possono anche ammazzare e
io non me ne accorgo neanche.
Si, ne prendevo molti. Io ero abituata anche fuori. Quando non hai i soldi per
la roba butti giù di tutto. Pastiglie e alcol. Dentro poi ti serve per reggere.
Più pastiglie prende, se poi ci bevi sopra, più sei fatto. Il tempo passa e non
te ne accorgi. Inoltre dentro ti serve anche per estraniarti per non vedere e
sentire nulla. Adesso è già un po' che non ne uso.
È l'unica cosa che ti danno volentieri. Tu li prendi così almeno per un po' stai
bene. Fuori non li uso.
Ho iniziato a prenderli dentro. Ti servono per tirare avanti. Ogni tanto li uso
anche adesso, quando sono giù le pastiglie mi fanno stare meglio.
Fuori li prendevo qualche volta e poi ci bevevo sopra. In carcere ho continuato.
È facile procurarseli, ne girano parecchi.
Vediamo come percepiscono gli operatori le forme in cui si manifesta il disagio
psichico:
Come si viene presi in cura dal servizio?
Nell'ordine ci sono le pratiche auto-lesive, gli scoppi improvvisi di
violenza sia contro cose e persone. Violenze che non hanno, apparentemente,
nessuna giustificazione. Per lo più sono detenuti stranieri. Per molti, i più
giovani, c'è una totale incompatibilità col carcere. Tenga conto che molti sono
finiti dentro se non per caso, sicuramente senza averlo messo in conto. Per cui
si ritrovano in una situazione che sostanzialmente considerano ingiusta.
Nei confronti delle donne poi esiste una forma di violenza psicologica e a volte
fisica che genera facilmente disagio. Spesso, non bisogna dimenticarlo, la
follia è un mondo del tutto simile alla favola. Per le donne il ricorso alla
follia, spesso, è l'unica via di uscita possibile. Sottoposte a un regime di
violenza psicologica e fisica trovano nella follia un luogo sacro e
inviolabile.
Le testimonianze degli operatori tendono a confermare le dichiarazioni degli
attori sociali. Tornare a svolgere una funzione di esclusione sociale vuol dire
intervenire sugli effetti e non sulle cause. In altre parole trattare,
prevalentemente, il paziente con i farmaci, renderlo tranquillo, isolarlo dal
mondo. Dopo di ché, se il trattamento farmacologico ha avuto un qualche effetto,
guidarlo in un percorso di socializzazione, costruito appositamente per lui.
Metterlo in relazione a soggetti simili a lui, persone costantemente seguite da
un programma psichiatrico apposito e inserirlo in un contesto lavorativo
specifico.
Noi per anni abbiamo lavorato con la speranza di rimanere disoccupati. Sembra
un paradosso ma è così. La nostra utopia era quella di lavorare affinché sempre
meno persone fossero obbligate a ricorrere a noi. Adesso lavoriamo al pari di un
industria: produciamo continuamente malattia.
È ovvio che, se si parte dal disagio come questione individuale e organica, la
sfera dell'utenza può crescere in modo esponenziale. Tutti diventano possibili
pazienti. Diventarlo o meno dipende unicamente o da circostanze fortuite o dalla
posizione che si occupa nella sfera sociale. Meno si è protetti e garantiti più
aumentano le possibilità di finire nel circuito della follia.
Bisogna tenere conto che la persona socialmente esclusa vive situazioni che
esasperano e amplificano il disagio. È chiaro che se il servizio prende in esame
gli effetti e non tiene conto della condizione in cui si produce per molti il
trattamento psichiatrico un destino.
Una situazione di disagio si amplifica e si accelera a seconda del contesto. In
carcere, tutto tende a precipitare.
Il malato, il deviante, l'anziano, lo straniero ecc. finiscono con l'essere
socializzati solo tra loro. In questo modo si crea un circuito speciale dove una
quota di popolazione è destinata a vivere. A questo punto la malattia si
auto-riproduce con estrema facilità .
Gli attori istituzionali intervistati lavorando sia all'interno del carcere che
sul territorio hanno potuto fornire un quadro abbastanza completo delle attuali
procedure di esclusione sociale Come ci è spiegato dagli attori istituzionali
competenti, il disagio mentale è sostanzialmente una costruzione arbitraria
legata alla dimensione della microfisica del potere. (57) È il modo
in cui una società decide di rapportarsi a certe sintomatologie che rinchiude o
libera gli individui. (58)
Servus non habet personam
Il discorso che sembra unire parte degli attori istituzionali e sociali si
concretizza intorno al termine cultura. L'idea che tra noi e loro esista uno
scarto culturale incolmabile è diventato un truismo. Che, empiricamente, alla
fine si riesca a dire poco su cosa siano le loro culture e, spesso ancora meno,
sulle nostre non sembra avere grande importanza. Con la scomparsa dal lessico
scientifico e comune di termini come classe, imperialismo, patria, borghesia
ecc., si è venuto a determinare un vuoto e un diffuso senso di incertezza. (59) Le retoriche che enfatizzano oltre misura l'idea di "cultura"
sembrano essere le sole a ridare un minimo di sicurezza sia al popolo comune sia
a numerose schiere di studiosi. La cultura, apparentemente, diventa l'unico
luogo dove possiamo dire qualcosa di certo sulla nostra identità. Palesemente a
farne le spese sono gli uomini e le donne in carne e ossa. Paradossalmente
questa operazione, costruita dal dibattito dominante dei paesi occidentali,
nasce su una rimozione della teoria sociale occidentale; come è facile vedere a
essere rimosso, in prima persona, è l'individuo. Attraverso una sorta di
determinismo culturale i destini individuali si annullano. Una ben strana
rimozione visto che la scoperta e produzione dell'individuo (60) è
sempre stata considerata e rivendicata come la decisiva operazione culturale
prodotta dal pensiero occidentale. In realtà la contraddizione, a ben vedere,
non è poi tale. A emergere è una riscoperta dell'individuo liberale (61)che,
nella teoria politica classica, è il solo a meritare il titolo di individuo e
cittadino. Alla cultura dell'individuo, così inteso, si contrappongono le
culture dei molti. Culture infime, di second'ordine che possono caratterizzare
un'etnia ma non il singolo. Unico, irripetibile, nella sua piena e totale
individualità rimane il cittadino incluso del mondo occidentale. A fronte di
questo assunto si forma in contrapposizione alla cultura dell'individuo e alle
culture dei molti la riscoperta della cultura, locale, del popolo. Anche in
questo caso la cultura agisce come elemento decisivo dei meccanismi di
inclusione e esclusione sociale e politica. Le culture locali diventano il
collante per ridefinire un criterio di cittadinanza a partire dalle tradizioni
locali. Poco importa che di dette tradizioni nessuno sia, in concreto, in grado
di dire qualcosa. Un dialetto, una leggenda o la semplice sorgente di un fiume
(62) possono, a seconda dei casi, diventare il veicolo di un ramo
particolare del sapere: l'archeologia delle culture. È sempre possibile, in
qualunque momento, scavare in una qualche direzione e trovare l'humus fondativo
di una cultura.
Razzismo e assoggettamento
Paura e solitudine finiscono per essere le coordinate sulle quali si organizzano
le vite degli individui contemporanei. (63) Rinchiuso nelle propria
fortezza il cittadino moderno osserva con terrore il muoversi disordinato degli
individui senza volto ai margini della sua cittadella. Quando per necessità li
deve incontrare chiede per lo meno di essere continuamente protetto. La nuova
utopia urbana, come è stata recentemente evidenziata(64), è la
costruzione di percorsi sicuri e obbligati. Il nuovo cittadino a ben vedere non
vuole disporre liberamente della città, vuole che la città sia rigidamente
organizzata e ordinata. Non ama gli imprevisti e il caso. Ogni cosa al suo posto
e un posto per ogni cosa.
La possibilità di diventare oggetto delle paure urbane è una condizione che non
riguarda esclusivamente gli eroinomani o gli attori sociali maggiormente esposti
allo sguardo del passante. A ben vedere la gamma di possibili corpi
indesiderabili abbraccia quote di popolazione non riducibili alla tradizionale
emarginazione sociale. A fronte di una libertà, per pochi, sempre più ampia e
priva di controlli statuali, si determina, per i molti, una più rigida forma
disciplinare. Libertà e disciplina sono gli et-et che sembrano caratterizzare le
dinamiche sociali contemporanee. Se un'epoca, come una felice linea di ricerca
aveva evidenziato, si era distinta per l'interesse nutrito verso il "governo dei
viventi" (65) il contesto attuale sembra riproporre come categoria
fondativa dei rapporti sociali il dominio (66). Gli esclusi non
sono più unicamente i non lavoratori, i marginali e i devianti. Di volta in
volta devianti possono diventare quote di popolazione e ambiti sociali diversi
Nel corso delle interviste presentate, si evidenzia in maniera abbastanza
precisa, come, almeno da parte di alcune quote di popolazione, le relazioni
sociali siano ridefinite su criteri di puro e semplice assoggettamento. Per chi
è collocato fuori dalla comunità di appartenenza, in sostanza, esiste solo un
modo per sopravvivere e essere tollerato: il rigido e ossequioso rispetto delle
gerarchie. Più volte infatti è stato ribadito, nel corso delle interviste, che
gli stranieri per prima cosa devono assoggettarsi a noi e poi, semmai, potranno
avanzare dei diritti. Chi proviene da fuori può, al massimo, aspirare a una
spazio sociale "neutro", né dentro, né fuori, un ospite insomma, tollerato ma
non assimilato o reso uguale. (67) Il prezzo da pagare per questa
benevola neutralità non è basso. Lo straniero, in ogni caso, viene sempre dopo,
non è mai cittadino. Più che eliminato lo straniero deve essere assoggettato.
Reso servo. Questa è la sostanziale differenza che separa i razzismi di oggi da
ieri. Lo straniero non è innalzato al rango di hostis (68) ma a
quello più modesto di servus. Può vivere purché rimanga moltitudine
invisibile. (69) Non a caso nelle retoriche di senso comune allo
straniero cattivo è sempre contrapposto il buono. Al clandestino il regolare. Il
migrante accettabile e tollerato, in definitiva, è colui che accetta fino in
fondo l'assoggettamento o, per dirla con parole maggiormente legate al lessico
comune, la sua utilità. Utile ma invisibile.
Significativi a riguardo sono i dibattiti attuali sulla prostituzione. La
riapertura delle "case chiuse", o il confinamento della prostituzione in
determinate aree urbane sono temi entrati da tempo nel dibattito politico e
culturale. Curiosamente della condizione lavorativa del/la prostituta/o nei vari
dibattiti non si parla. Il problema non è legittimare una professione; sottrarla
alle numerose insidie, da parte di sfruttatori, clienti ecc. in cui la
condizione di lavoratori/lavoratrici informali obiettivamente colloca le/gli
operatori del sesso. Delle loro vite sembra non importare nulla a nessuno.
Importante diventa "liberare" le strade. La popolazione degli inclusi, è noto,
in gran parte di genere maschile, ma anche ampie quote di popolazione femminile,
frequenta con una certa assiduità l'ambito della prostituzione. A infastidirli è
semplicemente la loro presenza e visibilità. Anche se può sembrare grottesco
animatori delle ronde anti-prostituzione e anti-viados risultano esserne i più
assidui e convinti frequentatori. (70) Non si tratta di ipocrisia.
Rinchiudere e rendere invisibile la prostituzione, al pari di tutte le altre
recinzioni, è questione di sicurezza e non di morale.
Ordine pubblico e sicurezza individuale
In molte delle interviste riportate la "questione immigrazione" non è mai posta
in chiave politica. Lo straniero non è colui che minaccia l'ordine pubblico,
piuttosto attenta alla sicurezza individuale e/o della comunità. In sostanza lo
straniero è "questione di polizia". Questa riduzione merita qualche
riflessione.
Sfogliando un qualunque quotidiano, ascoltando un notiziario o il discorso di un
qualsiasi politico il tema maggiormente ricorrente sarà l'insicurezza urbana,
l'eccessiva tolleranza e permissività delle leggi e la poca attenzione delle
forze dell'ordine alla sicurezza privata dei cittadini. Tra il discorso pubblico
e le pratiche private sembra aprirsi una frattura incommensurabile. Eppure la
richiesta di Law and Order non è la sovradeterminazione di un maligno Leviathan
ma la richiesta ossessiva di quote considerevoli di popolazione. Gli
imprenditori politici e morali elaborano strategie politiche e campagne
mediatiche su un background culturale elaborato e sedimentato all'interno di
parte degli ambiti sociali. Amplificano e enfatizzano, finendo per alimentarlo,
(71) un discorso di senso comune.
Le forze dell'ordine sono sicuramente l'ambito istituzionale maggiormente
coinvolto, almeno in prima battuta, nel passaggio dalla gestione dell'Ordine
Pubblico al mantenimento della sicurezza individuale. Un passaggio che
sicuramente ha prodotto e continua a produrre non pochi malintesi tra le forze
dell'ordine. È banale, ma vale la pena di ricordarlo, come le forze dell'ordine,
storicamente, nascano come forza armata statuale. Lo Stato moderno si
costituisce proprio avocando a sé la forza militare. (72) Solo lo
Stato è legittimato a portare le armi, nessun altro ceto o classe può, se non in
casi del tutto eccezionali, legittimamente portare le armi e ricorrere alla
forza. Se questo avviene lo Stato si sta disgregando e la guerra civile
imperversa. In prima istanza lo Stato deve garantire l'Ordine Pubblico. La
sicurezza privata, semmai, è una conseguenza dell'ordine collettivo, si è
individualmente sicuri all'interno di uno spazio pubblico legittimamente
controllato. Le forze di polizia intervengono contro il nemico pubblico, colui
che, con il suo operare incrina l'ordine statuale. Questo compito originario,
risalente a un epoca in cui i confini tra stato e società erano considerati
netti, non si modifica neppure quando la società è portata dentro lo stato. (73) Nel contesto l'ordine pubblico diventa l'equilibrio dei rapporti
di forza delle classi sociali legittimamente rappresentate. Certo lo stato
continua a mantenere un suo ruolo autonomo, agisce seguendo anche logiche di
potenza proprie, ma quello che interessa sottolineare è come a essere unico
oggetto di interesse sia l'ordine pubblico. Lo spostamento di attenzione verso
la sicurezza privata finisce col mettere in crisi lo statuto stesso delle forze
dell'ordine, come sostiene un funzionario di polizia:
Fare un servizio di Ordine Pubblico vuol dire relazionarsi a gruppi,
organizzazioni, soggetti sociali concreti. Significa contrastare, mediare,
reprimere comportamenti accertabili. Fare un servizio di Sicurezza Urbana, vuol
dire relazionarsi a fantasmi. Le richieste di sicurezza urbana sono dettate
unicamente dalla paura. Come si fa a intervenire concretamente sulla
paura?
Qualche cosa comincia a chiarirsi le paure individuali diventano il fulcro
attorno al quale dovrebbero focalizzarsi le azioni delle forze
dell'ordine:
Riceviamo un'infinità di segnalazioni e di richieste di intervento. Raramente
ci chiamano per informarci di un reato in corso. Il più delle volte il tenore
delle richieste è: "Ho un gruppo di negri sotto casa", "Ci sono dei ragazzi,
poco rassicuranti, nei giardini di...", "C'è gente con delle brutte facce" ecc.,
buona parte degli interventi richiesti hanno queste motivazioni.
In che cosa consista la sicurezza urbana è espresso molto bene da un leader dei
Comitati Cittadini genovesi (74):
Vogliamo che le forze dell'ordine non si limitino ad intervenire solo in
presenza di reati. Vogliamo che le nostre vie, le nostre città siano liberate
dalla paura. In casa nostra non vogliamo vedere facce indesiderate.
Poche righe sono sufficienti per dare il senso delle mutazioni attuali. La paura
sembra essere il vero collante della vita sociale contemporanea. Non è certo la
prima volta che questa svolge un ruolo decisivo nella costituzione di modelli
politici e sociali. Proprio sulla paura, Thomas Hobbes, ha potuto edificare la
più potente macchina umanamente concepita: lo Stato. Certo come una critica non
banale (75) ha sottolineato uno dei possibili intenti del filosofo inglese era
sottrarre la carne e il sangue nella determinazione dei destini umani e nella
costituzione della legittimità sovrana. Attraverso l'artificio dello Stato la
guerra e la paura potevano essere eliminate dal normale vivere civile. Ciò non
toglie che la paura di cui parla Hobbes non è una condizione astratta, ma la
concreta condizione dell'epoca segnata dalle guerre di religione. Sullo sfondo
della paura non c'è la precaria, e in fondo metaforica, condizione umana
all'interno dello stato di natura, ma la guerra. E' la guerra a generare la
paura. Sembra lecito ipotizzare che dietro la paura odierna si staglino
altrettanti scenari bellici. Di questa guerra bisognerà provare a descriverne la
semantica.
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Note
1. L'etnografia è una metodologia di ricerca qualitativa interessata
principalmente a descrivere gli stili di vita di un determinato ambito sociale
raccogliendo e selezionando materiali di senso comune. Per una buona e
esauriente rivisitazione della metodologia di ricerca etnografica, in ambiti
disciplinari diversi, si vedano: U. Hannerz, Esplorare la città. Antropologia
della vita urbana, Bologna, 1992 e dello stesso autore La complessità culturale.
L'organizzazione sociale del significato, Bologna, 1998; C. Geertz,
Interpretazioni di culture, Bologna, 1987 e, sempre dello stesso autore, la
raccolta di saggi, Antropologia interpretativa, Bologna1994; J. Clifford,
Strade, Torino,1999. Inoltre per una discussione sull'uso e il trattamento delle
interviste nell'ambito della ricerca sociologica si veda D. Demazier, C., Dubar,
Analyser les entretiens biographiques., Parigi, 1997. Torna
2. L'importanza che assume, in ambiti disciplinari diversi, il termine
"cittadinanza" è molto ben sintetizzato, all'inizio della sua monumentale opera,
da Pietro Costa: "Cittadinanza" è una parola che da qualche tempo gode di una
crescente fortuna non solo nel lessico filosofico e sociologico, ma anche nel
dibattito politico e nella stampa quotidiana. Il successo della parola coincide
con un processo di più o meno consapevole estensione del suo campo semantico: da
espressione impiegata semplicemente per descrivere la posizione di un soggetto
di fronte ad un determinato Stato, cittadinanza tende a divenire un crocevia di
suggestioni variegate e complesse che coinvolgono l'identità politico-culturale
del soggetto, le modalità della sua partecipazione politica, l'intero corredo
dei suoi diritti e dei suoi doveri. "Cittadinanza"...si propone come una delle
parole-chiave del lessico filosofico-politico (e della teoria politica e
sociale) contemporaneo." P. Costa,., Storia della cittadinanza in Europa Vol. I
e II, Roma-Bari, 1999. Inoltre come osserva S. Mezzadra in Cittadini della
frontiera e confini della cittadinanza. Per una lettura politica delle
migrazioni contemporanee, saggio in corso di pubblicazione "Questo concetto di
cittadinanza ha molto a che fare con la storia specifica della cultura politica
italiana nel secondo dopoguerra. Nelle stesse discipline giuridiche europee
continentali esiste una consolidata tradizione di studi attenta a sottolineare
la ricchezza semantica e il carattere dinamico della cittadinanza, basti
ricordare Georg Jellinek sulla circostanza che la personalità (la matrice
giuridica della cittadinanza) non può essere considerata una grandezza
invariabile, rappresentando "innanzi tutto qualcosa di potenziale", uno status a
cui possono essere connessi "diritti soggettivi" differentemente qualificati.
"Tutte le lotte sociali e politiche dei tempi moderni", aggiungeva Jellinek,
"hanno avuto sostanzialmente l'effetto di allargare il concetto di personalità .
In tal modo il giurista tedesco anticipava una modalità destinata a essere
ripresa e sviluppata dal sociologo inglese T.H. Marshall la cui prolusione del
1949 su Cittadinanza e classe sociale ha esercitato una straordinaria influenza
sul dibattito dei decenni successivi. L'intera vicenda politica moderna veniva
riletta in quel testo dal punto di vista della progressiva inclusione
all'interno della cittadinanza di soggetti originariamente esclusi da essa e del
continuo arricchimento intensivo delle determinazioni dei diritti dei cittadini,
culminato nel secolo XX con il riconoscimento di alcuni fondamentali diritti
sociali." Infine, tra la molta pubblicistica legata alla discussione e alla
riflessione che il concetto di "cittadinanza", ha assunto nella teoria politica
e sociale contemporanea, rimanendo in ambito italiano, va certamente ricordato
Danilo Zolo, (a cura di), La cittadinanza. Appartenenza, identità, diritti,
Roma-Bari, 1994.Torna
3. Il dibattito intorno alla crisi del sistema del Welfare occupa, da qualche
tempo, un ruolo centrale nel dibattito delle scienze sociali. Per una sintetica,
ma significativa, panoramica vanno tenuti presenti: Z. Bauman, Dentro la
globalizzazione. Le conseguenze sulle persone., Bari - Roma 1999; sempre dello
stesso autore: La società dell'incertezza, Bologna 1999; U. Beck, Che cos'è la
globalizzazione, Roma, 1998; R. Dahrendorf, Quadrare il cerchio. Benessere
economico, coesione sociale e libertà politica, Bari-Roma, 1995;A. Giddens, La
terza via, Milano 1999; D. Harvey, La crisi della modernità, Milano, 1993. Per
una buona ricostruzione politica del Welfare si veda: G. A. Ritter, Storia dello
stato sociale, Bari-Roma, 1995; sulle dinamiche economiche e sociali che hanno
caratterizzato il modello del Welfare può essere utile vedere J.P. Thomas, Le
politiche economiche del Novecento, Bologna, 1998.Torna
4. Per una discussione su questi temi si veda, in particolare: E. Santoro,
Carcere e società liberale, Torino, 1997.Torna
5. Questo aspetto è stato molto ben evidenziato da V. Stolcke. In particolare si
può vedere Le nuove frontiere e le nuove retoriche culturali dell'esclusione in
Europa, in S. Mezzadra, A. Petrillo, (a cura di) I confini della
globalizzazione, Roma, 2000. Sul ruolo delle pratiche razziste, come elemento
consustanziale e non anomalo, del capitalismo liberale si veda, dell'autrice
medesima Is Sex to Gender as Race is to Ethnicity? In T. Della Valle, Gendred
Anthropology, London 1993.Torna
6. Sul ruolo giocato dal razzismo, dalla xenofobia e dal sessismo nella
definizione e nel controllo delle situazioni sociali si veda: P. Berger, Invito
alla sociologia, Padova, 1967; sul ruolo giocato dalle logiche di senso comune,
nella definizione delle situazioni sociali e la loro ripresa in ambito
scientifici rimane importante: P.L. Berger, T. Luckmann, La realtà come
costruzione sociale, Bologna, 1969. Per una esauriente discussione del rapporto
tra società civile e razzismo si veda: F. Baroncelli, Il razzismo è una gaffe.
Eccessi e virtù del "politically correct", Roma, 1996.Torna
7. L'uso di simboli di destra all'interno degli stadi e dei palazzetti dello
sport non autorizza, comunque, a identificare immediatamente i vari gruppi di
tifosi in militanti di estrema destra. Per una discussione su questi temi, dove
vengono decostruite gran parte delle logiche di senso comune, in merito alle
logiche delle tifoserie informali si veda: A. Dal Lago, Descrizione di una
battaglia. I rituali del calcio, Bologna, 1990.Torna
8. Non è casuale che a riguardo siano state dedicate molte ricerche, mentre poco
o nulla si dice intorno agli ambiti così detti rispettabili. In particolare si
possono vedere i numerosi studi su alcuni quartieri periferici romani,
tradizionalmente di sinistra che, negli anni '70 vedono costituirsi gruppi di
giovani politicamente schierati con la destra radicale. Si veda ad es. il volume
di F. Ferraresi, La destra radicale, Milano 1984.Torna
9. Tra le poche voci di intellettuali che non accettarono una così facile e
rassicurante ricostruzione degli eventi precipitati nel secondo conflitto
mondiale, vanno sicuramente ricordati gli esponenti della cosiddetta Scuola di
Francoforte. In particolare vale ancora la pena di rileggere di T. W. Adorno e
M. Horkheimer, Dialettica dell'illuminismo, Torino, 1966, specialmente per
quanto riguarda la critica dei presupposti filosofici della moderna cultura
occidentale e, per un'incisiva messa a nudo delle logiche della "ragione
strumentale", M. Horkheimer, Eclissi della ragione, Torino 1969. In epoca più
recente molte delle intuizioni e delle argomentazioni degli autori sono state
sviluppate e ulteriormente argomentate nel saggio di Z. Bauman in Modernità e
Olocausto, Bologna, 1992. In maniera molto convincente l'autore dimostra come
l'olocausto e lo sterminio furono possibili proprio utilizzando e amplificando i
processi di razionalizzazione delle società moderne; come paradossalmente la
ragione fosse costantemente presente nell'opera di spoliazione, deportazione e
sterminio. Le argomentazioni teoriche di Bauman hanno trovato una corposa
verifica nei lavori dello storico che maggiormente ha studiato l'olocausto R.
Hilberg, La distruzione degli ebrei d'Europa, Torino, 1995 . Infine sul ruolo
svolto dalla scienza nei processi di purificazione e razionalizzazione della
specie umana va ricordata l'importante ricerca di H. Friedlander, Le origini del
genocidio nazista, Roma, 1997.Torna
10. La non estraneità del razzismo alle culture illuministe e liberali è stata
molto ben evidenziata, di recente, da A. Burgio, L'invenzione delle razze. Studi
su razzismo e revisionismo storico. Roma, 1998. Non è comunque inutile ricordare
come il dibattito intorno a umano e non umano rappresenti uno degli aspetti
decisivi della cultura umanista. Storicamente una prima "sistematizzazione" del
pensiero razzista la possiamo rintracciare all'interno della polemica tra lo
scolastico Francisco de Vitoria e l'umanista Juan Gines Sepulveda, intorno alla
metà del '500. Gli umanisti ponendo al centro delle loro riflessioni l'idea di
uomo posero, in maniera del tutto simmetrica, il suo contrario il non- uomo. Le
popolazioni del nuovo continente vennero immediatamente relegate al rango del
non-uomo, la civiltà e non la fede diventava l'elemento paradigmatico che
definiva l'appartenenza o meno al genere umano. Ma gli umanisti apportarono un
ulteriore e decisiva vittoria contro la tradizione cristiana: rovesciarono il
giudizio di valore tradizionale Caino e non Abele divenne il modello ideale di
riferimento. Mentre, come ricorda Agostino, Caino costruisce la città, come
dimora, Abele è pellegrino nel mondo perché unica sua città e la Città di Dio.
Gli umanisti, al contrario, proprio all'interno delle mura fortificate della
città elaborano e sperimentano il nuovo modello umano. L'Uomo abita la città, il
Non-Uomo, ne è escluso è tenuto forzatamente lontano. La ricostruzione di questo
dibattito, e la messa in rilievo delle logiche di esclusione implicite
nell'umanesimo, è stato felicemente reso da C. Schmitt, Il nomos della terra,
Milano, 1991.Torna
11. Il riferimento è agli scontri avvenuti tra popolazione locale e cittadini
stranieri nel centro storico genovese. Per una ricostruzione e una dettagliata
analisi degli eventi si veda: A. Petrillo, Insicurezza, migrazioni,
cittadinanza. Le relazioni immigrati-autoctoni nella rappresentazione dei
"Comitati di cittadini": il caso genovese, tesi di dottorato di ricerca i
Sociologia e politiche sociali, Dipartimento di Sociologia, Università di
Bologna 1995.Torna
12. Il "Primo Levi" è un circolo culturale senza specifici legami religiosi e
politici con la "comunità ebraica". La sua attività è unicamente di tipo
culturale senza caratterizzazioni particolari.Torna
13. A seguito di un atteggiamento considerato troppo morbido o addirittura
consenziente nei confronti di alcune famiglie Rom, in sostanza per non verle
cacciate dalla città, il sindaco Sansa è stato oggetto di minacce e di un
attentato. La ricostruzione e il senso di questi avvenimenti, all'interno di
quella che è possibile definire come la macchina della paura della società
contemporanea, è stata descritta da A. Dal Lago, Non-Persone. L'esclusione dei
migranti in una società globale, Milano, 1999.Torna
14. L'adesione non "forzata" alle ideologie razziste è stata ampiamente discussa
e documentata da un autore non sospetto come G.L Mosse. A riguardo, tra le sue
molte opere ricordiamo: G.L. Mosse, Le origini culturali del Terzo Reich, Milano
1968; La nazionalizzazione delle masse, Bologna, 1975; Sessualità e
nazionalismo, Roma-Bari 1984; Le guerre mondiali. Dalla tragedia al mito dei
caduti, Roma-Bari 1990. Per quanto riguarda l'adesione alle ideologie razziste
nel nostro paese, è sufficiente ricordare i lavori di uno storico come A. Del
Boca. In particolare si vedano: A. Del Boca, Gli italiani in Africa orientale,
vol. I, Milano 1992; Gli italiani in Libia. Tripoli bel suol d'amore 1860-1922,
Milano, 1993.Torna
15. Un tipico esempio di sovrapposizione dello "spazio domestico" sullo "spazio
pubblico" è rappresentato dalle argomentazioni contenute in: A. Heller, Oltre la
giustizia, Bologna, 1990; sempre della stessa autrice: Dieci tesi sul diritto
d'asilo, in Luogo Comune n. 4, 1992. Per una critica di questa impostazione si
veda, in particolare: A. Dal Lago, Non Persone, op. cit.Torna
16. Per una descrizione, ancorché datata, della cultura della Polizia
Penitenziaria, è ancora utile: A. Ricci e G. Salierno, Il carcere in Italia,
Torino, 1971.Torna
17. Per la sociologia il senso comune è dato da "ciò che tutti pensano" Per una
discussione del senso comune come costruzione e giustificazione da parte degli
attori sociali del loro modello sociale si vedano, in particolare: Garfinkel H.,
Studies in Ethnomethodology, Prentice Hall, Englewood Cliffs (N.J.) 1967; Schutz
A., Saggi sociologici, (trad. it.) Torino,1979.Torna
18. Per una parziale discussione intorno al concetto di popolo si veda: E.
Quadrelli, L'enigma del popolo, in A. Dal Lago (a cura di) Lo straniero e il
nemico. Materiali per l'etnografia contemporanea, Genova,1997.Torna
19. Sul carattere anti-politico dei movimenti di tipo razzista, xenofobo e
nazionalista rimangono decisive le pagine di H. Arendt, Le origini del
totalitarismo, Milano, 1967.Torna
20. Ci riferiamo all'utilizzo che ne fa la Arendt nell'analizzare il caso
Eichmann in: H. Arendt, La banalità del male, Milano, 1992.Torna
21. Sono le retoriche che in qualche modo fecero da sfondo alla propaganda
nazionalsocialista. Per una discussione e una puntuale critica di tali
argomentazioni rimangono fondamentali Löwith K, in Il decisionismo occasionale
di Carl Schmitt, in Critica dell'esistenza storica,Napoli 1967 e dello stesso
autore La mia vita in Germania, Milano, 1988.Torna
22. Per una lettura attuale e originale della classica contrapposizione tra
"comunità" e "società" si veda: M. Ricciardi, Ferdinando Tönnies sociologo
hobbesiano. Concetti politici e scienza sociale in Germania tra Otto e
Novecento, Bologna 1997.Torna
23. Per una ricostruzione dell'uso e dell'invenzione delle tradizioni come mito
fondativo si vedano, in particolare: B. Anderson, Comunità immaginate, Roma,
1996; G. Hermet, Nazioni e nazionalismi in Europa, Bologna, 1997;E. Hobsbawm,
Nazioni e nazionalismi dal 1780, Torino, 1991.Torna
24. Sul ruolo che l'immaginario gioca in questi processi fondamentale è il
lavoro di B. Anderson, Comunità immaginate, op. cit.Torna
25. Il riferimento è al noto testo di M. Heidegger, Perché restiamo in
provincia, in Scritti politici (1933-1966), Casale Monferrato, 1998, dove il
filosofo tedesco ritrova nel silenzio del contadino e nel suo volgere lo sguardo
al suolo le forme di resistenza all'intellettualismo e all'inautenticità della
metropoli.Torna
26. Su questo aspetto si vedano: l'importante lavoro di Y. Moulier-Boutang, De
l'esclavage au salariat. Économie historique du salariat bridé, Paris, 1998;
l'Introduzione di S. Mezzadra a I confini della globalizzazione, op. cit., e,
all'interno dello stesso volume il saggio di M. Ricciardi, Modelli capitali.
Note su alcune ricostruzioni storico-concettuali del capitalismo.Torna
27. È il termine coniato da Z. Bauman per definire la condizione degli attori
sociali che, travolti dalle logiche e dalle conseguenze della cosiddetta
globalizzazione, riscoprono l'appartenenza a un improbabile ambito locale. Su
questo aspetto si veda in particolare: Dentro la globalizzazione, op.
cit.Torna
28. La crisi dello Stato-Nazione non va confusa con una generale e irreversibile
crisi dello Stato. Piuttosto a venir meno è quella particolare forma di
omogeneità sociale e territoriale molto ben descritta e analizzata da M.
Foucault in Bisogna difendere la società, Milano, 1996. Sullo stato e la sua
ridefinizione nell'epoca attuale, contro le facili e ingenue tesi di un suo
presunto venir meno, si vedano le argomentazioni di P.P. Portinaro in Il futuro
dello stato nell'età della globalizzazione. Un bilancio di fine secolo., in
"teoria politica", XIII, 1997 e la parte introduttiva e le conclusioni in Stato,
Bologna, 2000.Torna
29. I due argomenti diventano complementari non solo perché rimandano a un'idea
dell'altro incompatibile con la nostra, in quanto di grado inferiore, ma fissano
l'altro all'interno di confini culturali che lo definiscono come etnia negandolo
come individuo. Il dibattito intorno a queste tematiche ha prodotto una
pubblicistica ormai infinita. Può essere utile segnalare a proposito il testo di
J. Clifford e g. E. Marcus, ( a cura di), Scrivere le culture. Poetiche e
politiche in etnografia, Roma, 1997. In questa raccolta di saggi viene,
sostanzialmente, evidenziato il rapporto di potere che le culture dominanti
instaurano nei confronti dell'altro, riconoscendolo e accettandolo solo
all'interno degli stereotipi da queste stesse confezionati. A conferma vale la
pena di riportare un esempio estremamente significativo ricordato da J. Clifford
in Sull'allegoria etnografica, saggio raccolto all'interno di Scrivere le
culture, pagg. 155-156 op. cit. "Uno studente di etno-storia africana sta
conducendo in Gabon una ricerca sul campo sui Mpongwé, popolazione costiera che
nell'ottocento aveva frequenti contatti con i mercanti europei...Per prepararsi
all'intervista il ricercatore consulta un compendio dei costumi locali stilato
all'inizio del secolo da un gabonese cristiano e pioniere dell'etnografia,
l'abate Raponda-Walker. Per l'incontro con il capo Mpongwé l'etnografo prepara
un elenco di termini religiosi, di istituzioni e concetti raccolti e definiti da
Raponda-Walker. L'elenco serve da scaletta per l'intervista, e dovrà consentire
la verifica delle tradizioni ancora vitali e delle eventuali innovazioni...Ma
alla domanda u un termine su un termine particolare il capo appare incerto e
perplesso. Solo un momento, si scusa conciliante, sparisce dentro la sua casa e
ritorna con una copia del compendio di Raponda-Walker. E per il resto
dell'intervista se lo tiene aperto sulle ginocchia."Torna
30. I tipi di attività illegali in cui sono inseriti gli immigrati, nell'ambito
genovese, sarà oggetto di un successivo rapporto di ricerca. Tra i pochi lavori
che hanno studiato empiricamente la presenza degli immigrati nei circuiti
illegali vanno tenuti presente: A. Colombo, Etnografia di un'economia
clandestina, Bologna, 1999; A. Dal Lago Migrant deviant behaviour in Italy, in
Migrant insertion in the informal economy, deviant behaviour and the impact on
receiving societies, Bruxelles, CE-DGXII-TSER 1998, La tautologia della paura,
in Rassegna Italiana di Sociologia /a.xxxx, n. 1, Bologna, 1999, S. Palidda,
Irregolarità e delittuosità degli immigrati in Italia, in Fondazione
Cariplo-ISMU, Secondo rapporto sulle migrazioni, Milano 1996, dello stesso
autore Polizia postmoderna, Milano, 2000 e F. Quassoli, Immigrazione uguale
criminalità. Rappresentazioni di senso comune e pratiche organizzative degli
operatori del diritto, Rassegna Italiana di Sociologia, a. xxxx n. 1., Bologna
1999.Torna
31. Può essere utile a riguardo vedere: N. Marvulli, Procuratore generale della
Repubblica presso la Corte d'Appello di Genova, Relazione sull'amministrazione
della giustizia nel distretto della corte d'Appello di Genova, Genova,
2000Torna.
32. Nel gergo carcerario il "santantonio" è una forma di pestaggio particolare.
A detenuti, nel sonno, vengono gettate addosso delle coperte e quindi
manganellati. Le coperte servono per rendere meno facile una qualche forma di
difesa e irriconoscibili gli autori del pestaggio.Torna
33. Si tratta del particolare regime penitenziario a cui sono sottoposti i
detenuti imputati di reati associativi legati alla cosiddetta "criminalità
organizzata". Nell'intervista il fatto viene sottolineato per rafforzare il
proprio ruolo di "prestigio" rispetto all'amministrazione penitenziaria e agli
altri detenuti.Torna
34. Tra i numerosi lavori che hanno descritto esaurientemente la fine del
cosiddetto "terzo mondo" a seguito dei processi comunemente definiti di
globalizzazione è sufficiente ricordare E. J. Hobsbawm, Il secolo breve, Milano,
1995. Per una significativa lettura maggiormente incentrata sugli aspetti
economici e sociali si possono vedere: Luttwak E. N., La dittatura del
capitalismo. Dove ci porteranno il liberalismo selvaggio e gli eccessi della
globalizzazione, Milano, 1999.; Thurow L. C., Il futuro del capitalismo, Milano,
1997; per una visione più critica e meno apologetica tra gli altri: Gray J.,
Alba Bugiarda, Firenze, 1998 e Soros G., La crisi del capitalismo
globale,Firenze, 1999.Torna
35.Il terzo mondo nelle retoriche degli imprenditori politici, morali e
mediatici se è possibile tende a essere continuamente enfatizzato. In realtà con
terzo mondo, più o meno velatamente, si indicano persone provenienti da paesi
economicamente, politicamente e militarmente meno potenti dei paesi occidentali.
A incidere più che le differenze culturali sembrano essere le differenze di
potenza. È indicativo il lapsus a proposito delle popolazioni provenienti
dall'ex blocco comunista. Indipendentemente dai giudizi dati rispetto ai regimi
comunisti, nessuno si sarebbe sognato di relegarli nel "terzo mondo". Questo non
tanto per una sorta di rispetto verso la "cultura socialista" ma, molto più
pragmaticamente per rispetto verso il "Patto di Varsavia". Per una discussione
sul ruolo che la forza ha all'interno delle relazioni internazionali
contemporanee si può vedere "aut aut", n. 293-294, 1999.Torna
36. All'interno di questa linea di ricerca va sicuramente ricordato l'importante
lavoro di S. Bordo, Il peso del corpo, Milano, 1997Torna
37. Su questa ipotesi si vedano le convincenti argomentazioni di Bell Hooks in
Elogio del margine, Milano, 1998.Torna
38. A riguardo rimane fondamentale J. Clifford, I frutti puri impazziscono,
Torino, 1993.Torna
39. Molto convincenti a riguardo sono le argomentazioni proposte da S. Mezzadra
in Cittadini della frontiera e confini della cittadinanza. Per una lettura delle
immigrazioni contemporanee. op. cit.Torna
40. Il testo che meglio rappresenta questa tendenza e che ipotizza il riemergere
di culture primeve e originarie sullo sfondo della crisi delle ideologie
moderne, culture naturalmente ascritte ai popoli di appartenenza e
irrimediabilmente in conflitto tra loro è S. P. Huntington, Lo scontro delle
civiltà, Milano, 1995.Torna
41. Ordine discorsivo è una tipica espressione foucaultiana. Si intende la rete
di saperi, poteri e strategie in cui il soggetto è avvolto e costruito. Il tema
è ricorrente in molti lavori di Foucault, forse i saggi che meglio lo
esplicitano sono oltre allo specifico M. Foucault, L'ordine del discorso,
Torino, 1972, quelli raccolti nel volume di P. Dalla Vigna, (a cura di), Michel
Foucault, Poteri e strategie. L'assoggettamento dei corpi e l'elemento
sfuggente, Milano, 1994.Torna
42. Uso il termine debolmente in riferimento ai processi di ibridazione
culturale per sottolinearne il carattere fluido, permanente e quindi infinito e
indefinito.Torna
43. Per una discussione su questi temi e in particolare sulla nuda vita, a
partire dall'aristotelica zoé, ma con grande attenzione alla contemporaneità si
veda: G. Agamben, Homo sacer, Torino, 1995.Torna
44. Sul potere psichiatrico e sulla sua epistemologia positivista si veda in
particolare M. Foucault, Le pouvoir psychiatrique, Annuaire du Collège de France
année 1973-1974, e Gli anormali Milano, 2000.Torna
45. La "scuola basagliana" è stata determinante per la chiusura dei Manicomi
come luoghi chiusi e totalmente separati dal resto della società. Per una buona
discussione intorno a queste tematiche si veda "aut aut", n. 285-286, 1998.
Importanti rimangono le parti dedicate a Basaglia da M. Foucault in Le pouvoir
psychiatrique, op. cit.Torna
46. Nel contesto i due termini rimandano al tipo di argomentazioni utilizzate
da: M. Foucault, Le parole e le cose, Milano, 1967.Torna
47. A riguardo si veda in particolare M. Foucault, Nascita della clinica,
Torino, 1969.Torna
48. Tra i tanti saggi e discorsi in cui Basaglia individua la lotta come
strumento terapeutico si possono ricordare in particolar modo: F. Basaglia,
Conferenze brasiliane, Milano, 2000.Torna
49. Il concetto è ripreso da K. Marx, Il capitale, vol. I, Roma 1964. Secondo
Marx, infatti, il lavoro salariato, annullando ogni forma di particolarismo,
costituisce la premessa per la costituzione dei lavoratori in una classe
omogenea e mossa da obiettivi comuni.Torna
50. Uso il termine alienazione seguendo le argomentazioni proposte da G. Lukács
in La reificazione e la coscienza del proletariato, saggio raccolto in Storia e
coscienza di classe, Milano, 1978.Torna
51. Tutta la storia del '900 può essere letta in questo senso. Non è casuale,
infatti, che l'esperienza della Repubblica di Weimar sia stata comunemente
considerata come il punto di svolta da un punto di vista dell'inclusione formale
delle classi subalterne. Su questo punto si possono vedere in particolare le
parti centrali del saggio di S. Mezzadra, La Costituzione del Sociale. Il
pensiero politico e giuridico di Hugo Preuss, Bologna, 1999.Torna
52. Sulla fine del lavoro come veicolo di certezze, nella società contemporanea,
e il conseguente venir meno di alcune categorie fondamentali della modernità, si
veda: R. Sennett, L'uomo flessibile, Milano, 1999.Torna
53.In un epoca in cui persino il menisco di un calciatore non può essere reso
pubblico, senza l'autorizzazione del medesimo, diventare un malato pubblico
significa essere, di fatto, privato di una quota di diritti e di individualità.
Neppure troppo celatamente, il diritto di privacy, sembra essere concepito in
maniera non universalistica. Per alcuni (gli individui) la sfera privata diventa
sacra, per gli altri (i molti) non esistono barriere all'interferenza degli
apparati pubblici.Torna
54. Il riferimento è a C. Schmitt: Cattolicesimo romano e forma politica,
Milano, 1986. Sul dibattito sorto intorno a questo testo si veda: C. Galli,
Presentazione, Milano 1986; Genealogia della politica. Carl Schmitt e la crisi
del pensiero politico moderno, Bologna 1996; A. Dal Lago: Gloria e disperazione,
in Il paradosso dell'agire, Napoli 1990; L'ordine infranto. Max Weber e i limiti
del razionalismo, Milano 1983; G. Schwab, Carl Schmitt. La sfida dell'eccezione,
Bari, 1986.Torna
55. Il tema è felicemente ripreso da Z. Bauman nel saggio Da pellegrino a
turista, in la società dell'incertezza, Bologna, 1999.Torna
56. Significativamente in tutte le interviste fatte a ex detenuti stranieri il
"disagio mentale" non è mai associato a questioni "culturali" o simili. A essere
evidenziate sono invece le condizioni concrete in cui gli attori si trovano ad
agire.Torna
57. Il riferimento è al modello di potere analizzato da M. Foucault, in
particolare nella raccolta di saggi Microfisica del potere, Torino,
1977.Torna
58. A riguardo rimangono fondamentali i lavori di M. Foucault, in particolare si
vedano: Storia della follia nell'età classica, Milano, 1963; Le parole e le
cose, Milano, 1967 e Sorvegliare e punire, Torino, 1976.Torna
59. Sulla fine delle "certezze" categoriali e le loro conseguenze pragmatiche
sulla vita individuale si veda: Z. Bauman, La società dell'incertezza, op. cit.,
Dentro la globalizzazione, op. cit.Torna
60. Sul significato della scoperta dell'individuo si veda oltre al suo
"inventore": T. Hobbes, Il Leviatano, Roma-Bari, 1989, le importanti riflessioni
di C. Schmitt raccolte in: Scritti su Thomas Hobbes, Milano, 1986.Torna
61. Va ricordato infatti come, classicamente, il diritto all'individualità era
riferito al cittadino proprietario, mentre la gran massa dei non-proprietari
apparteneva genericamente all'indistinta multitudo. Per una abbondante e
esauriente discussione di queste tematiche si veda P. Costa, Storia della
cittadinanza in Europa, Vol. I, II, op. cit. Per una critica dell'individuo
liberale, in particolare, E. Santoro, Autonomia individuale, libertà e diritti,
Pisa. 1999.Torna
62. Significativo a riguardo è l'atto simbolico compiuto dal leader della Lega
Nord U. Bossi. Simbolicamente recarsi alla fonte del Po ha significato
recuperare le "origini" primeve della cultura del popolo padano.
Significativamente, proprio per dare maggiore "forza storica" all'evento si è
collegato il ritorno alla sorgente del fiume con la riscoperta delle origini
celtiche. Sulla rivalutazione del mito fondativo in epoca contemporanea si veda
in particolare B. Anderson, Comunità immaginate, op. cit. Sulla funzione
politica del mito rimane importante: G. Sorel, Riflessioni sulla violenza,
Milano, 1997.Torna
63. Mi riferisco alle argomentazioni sostenute nelle ultime produzioni di Z.
Bauman,Torna
64. Mi riferisco ai numerosi lavori di Mike Davis su Los Angeles, tra i quali va
sicuramente ricordato il più recente Ecology of Fear, Los Angeles 1998.Torna
65. Il riferimento è al concetto di biopolitica utilizzato da Foucault per
indicare l'interesse che il potere, in epoca moderna, inizia a nutrire nei
confronti della vita in quanto principale fonte di ricchezza. Foucault chiama
questo passaggio dallo "stato territoriale" allo "stato di popolazione".
Possiamo ritrovare questa nozione già in Sorvegliare e punire, l'approfondimento
della nozione di biopolitica accompagna gran parte delle lezioni tenute negli
anni '70 al Collège de France.Torna
66. Sull'accettazione realistica della categoria della forza, in epoca
contemporanea, specialmente all'interno delle relazioni internazionali, con la
conseguente "riscoperta" del Tucidide di La guerra del Peloponneso si vedano gli
articoli raccolti in "aut aut" n. 293-294.Torna
67. A proposito rimane una lettura fondamentale G. Simmel, Excursus sullo
straniero, in Sociologia, Milano, 1989.Torna
68. In questo senso hostis è il nemico in senso esistenziale. Fondamentale per
questo tipo di argomentazioni rimane C. Schmitt, Le categorie del "politico",
Bologna, 1972.Torna
69. Per una rivisitazione contemporanea di multitudo si veda M. Hardt, A. Negri,
Empire, Massachusetts, 2000.Torna
70. Alcuni esempi significativi sono riportati in Dal Lago A. Non Persone (op.
cit.)Torna
71. Sul ruolo svolto dagli imprenditori politici e morali nel concretizzare,
individuando specifici attori sociali come responsabili fattuali, le paure
urbana si veda in particolare Dal Lago A. Non-Persone. L'esclusione dei migranti
in una società globale, op. cit.; importanti sono anche i lavori di D. Bigo,
Sécurité et immigration: vers une gouvernementalité par l'inquiétude? in
"Cultures et conflits" Dicembre 1998; e S. Palidda, Polizia e immigrati:
un'analisi etnografica, op. cit.Torna
72. Il processo di monopolizzazione dell'uso della forza come tratto decisivo
della costruzione dello Stato moderno è stato ampiamente analizzato da Max Weber
nella Sezione VIII, L'istituzione razionale dello stato e i partiti politici e i
parlamenti moderni (Sociologia dello stato), in Economia e società, Milano,
1986.Torna
73. A proposito può risultare ancora importante vedere Schmitt C., Der Hüter der
Verfassung, Berlino, 1969.Torna
74. In A. Petrillo, Insicurezza, migrazioni, cittadinanza. Le relazioni
immigrati-autoctoni nella rappresentazione dei "Comitati di cittadini": il caso
genovese, op. cit.Torna
75. Mi riferisco alle argomentazioni esposte da M. Foucault in Bisogna difendere
la società, op. cit.Torna
Copyright © 1999 Emilio Quadrelli