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Usa, metti il rapper sotto sorveglianza

Francesco Adinolfi

il manifesto, 12 marzo 2004

A Miami la polizia vigila di nascosto sul mondo dell'hip hop. Scheda gli artisti, perlopiù neri, quando sbarcano all'aeroporto, li pedina negli hotel, passa al setaccio le canzoni. La nuova strategia «di monitoraggio artistico» è stata decisa in un vertice allargato tenutosi a New York. Infuriate le organizzazioni per i diritti civili: «Questo è razzismo».

L'hip hop in Florida fa tremare i polsi, ma è uno stato d'animo che va allargandosi a macchia d'olio in tutti gli Stati uniti. Da qui la notizia di queste ultime ore che proprio la polizia di Miami ha cominciato ad attrezzarsi per benino. Accumulando interi fascicoli su tutti i rapper/hip hopper che si esibiscono in Florida e che potenzialmente rappresenterebbero un pericolo per l'ordine pubblico. Insomma tutti schedati, secondo l'abc del pensiero unico e della teologia del controllo preventivo Usa. A questo si aggiunga che molti rapper schedati sono neri e musulmani e tutto viene più facile.
Ma Miami in particolare è al cuore di una tenaglia che spesso ha tentato di piegare il rap. Citando a caso vengono in mente i processi per oscenità contro i 2 Live Crew che infuocarono le cronache statunitensi e non, anni fa. Oppure quel litigio furibondo tra Fat Joe e Cuban Link in un club di Miami, ma anche Slick Rick, ri-arrestato in Florida due anni fa dopo aver passato cinque anni in carcere per tentato omicidio.
In ultimo la recente quattro giorni a Miami South Beach, mega festa a cui hanno preso parte 250 mila fan dell'hip hop e che ha portato all'arresto di 211 persone per comportamenti violenti e ubriachezza. Da qui in poi, la stretta finale. Ovvero un esercito di poliziotti in incognito, incaricati di fotografare i rapper - anche locali, ovviamente - al loro arrivo all'aeroporto di Miami, controllare gli alberghi, fare riprese, analizzare i testi per carpire eventuali segnali di potenziale antagonismo. Non che l'hip hop Usa sia frequentato da cherubini ma nessuno poteva immaginare che da tempo P-Diddy, 50 Cent, Dmx o lo stesso Eminem venissero controllati, spiati, seguiti. Le autorità di Miami hanno rivelato che i fascicoli sui singoli artisti sono giunti direttamente dalla polizia di New York dove lo scorso maggio si è tenuto un seminario di tre giorni sul rap; una specie di «Tempesta nell'hip hop», un corso di addestramento a cui hanno partecipato anche le polizie di Atlanta e Los Angeles.
Ai poliziotti veniva insegnato come avvicinarsi al rap, come scavare nei testi, quali stazioni radio e tv guardare. In quei giorni venivano compilate schede su schede poi raccolte in ampi fascicoli.
Il capo della polizia di Miami ha dichiarato che dopo gli omicidi a metà anni Novanta di Tupac Shakur e Notorious Big, quello più recente di Jam Master Jay e dopo i fatti di South Beach si è imposto un nuovo sistema di attenzione «per evitare che gente innocente ci vada di mezzo».
Via libera, dunque, a una vigilanza artistica senza precedenti. Che nemmeno a farlo apposta va di pari passo con le recenti restrizioni televisive sollecitate dal seno al vento di Janet Jackson al Super Bowl e i conseguenti cinque secondi di differita agli Oscar. L'intento: tagliare parole, sfrondare frasi, controllare. Come si propongono a Miami e come anelano da anni i detrattori del rap; da quando Tipper Gore impose gli adesivi sui dischi (di ogni genere, ovviamente) o su altri media che contenessero testi o immagini a rischio.
A pensarci bene, poi, il Super Bowl è stato quasi un pretesto ideale, con una nera a scatenare l'inferno; irriverente, insidiosa. Figuriamoci quante altre Janet - invisibili e dunque ancora più subdole - possono celarsi dietro la valanga di emittenti e radio hip hop attive negli Usa. L'attenzione di rapper e fan del genere è dunque rivolta anche alle prossime mosse della Federal communications commission (Fcc), l'autorità federale sull'emittenza, che dopo «l'affare Jackson» ha acquisito uno spazio di manovra senza precedenti facendo leva sul concetto di «dubbio contenuto morale». Ovvero l'anticamera della censura. Con artisti, testi e video rap continuamente sotto tiro. Insomma i fatti di Miami - tacciati di razzismo da artisti e organizzazioni per i diritti civili - e l'ombra lunga della Fcc non lasciano dubbi: irregimentare il rap - ieri come oggi - è un dovere; imposto da una forza mediatica che a seconda dei casi può trasformarsi in voce politica antagonista o in un possibile modello di corruzione/manipolazione di giovani menti bianche che di quella comunità cannibalizzano mode, modi, parole, stili di vita.
E intanto P Diddy - accusato anni fa di possesso d'armi da fuoco e corruzione - si fa avanti e dona 2 milioni di dollari a favore dei bambini di New York; così come l'etichetta Murder Inc. ha deciso di eliminare la parola «murder». E ora «dormite sorvegliati», che al resto pensiamo noi.