A Miami la polizia vigila di nascosto sul mondo dell'hip hop. Scheda gli artisti, perlopiù neri, quando sbarcano all'aeroporto, li pedina negli hotel, passa al setaccio le canzoni. La nuova strategia «di monitoraggio artistico» è stata decisa in un vertice allargato tenutosi a New York. Infuriate le organizzazioni per i diritti civili: «Questo è razzismo».
L'hip hop in Florida fa tremare i polsi, ma è uno stato d'animo che
va allargandosi a macchia d'olio in tutti gli Stati uniti. Da qui la notizia
di queste ultime ore che proprio la polizia di Miami ha cominciato ad attrezzarsi
per benino. Accumulando interi fascicoli su tutti i rapper/hip hopper che si
esibiscono in Florida e che potenzialmente rappresenterebbero un pericolo per
l'ordine pubblico. Insomma tutti schedati, secondo l'abc del pensiero unico
e della teologia del controllo preventivo Usa. A questo si aggiunga che molti
rapper schedati sono neri e musulmani e tutto viene più facile.
Ma Miami in particolare è al cuore di una tenaglia che spesso ha tentato
di piegare il rap. Citando a caso vengono in mente i processi per oscenità
contro i 2 Live Crew che infuocarono le cronache statunitensi e non, anni fa.
Oppure quel litigio furibondo tra Fat Joe e Cuban Link in un club di Miami,
ma anche Slick Rick, ri-arrestato in Florida due anni fa dopo aver passato cinque
anni in carcere per tentato omicidio.
In ultimo la recente quattro giorni a Miami South Beach, mega festa a cui hanno
preso parte 250 mila fan dell'hip hop e che ha portato all'arresto di 211 persone
per comportamenti violenti e ubriachezza. Da qui in poi, la stretta finale.
Ovvero un esercito di poliziotti in incognito, incaricati di fotografare i rapper
- anche locali, ovviamente - al loro arrivo all'aeroporto di Miami, controllare
gli alberghi, fare riprese, analizzare i testi per carpire eventuali segnali
di potenziale antagonismo. Non che l'hip hop Usa sia frequentato da cherubini
ma nessuno poteva immaginare che da tempo P-Diddy, 50 Cent, Dmx o lo stesso
Eminem venissero controllati, spiati, seguiti. Le autorità di Miami hanno
rivelato che i fascicoli sui singoli artisti sono giunti direttamente dalla
polizia di New York dove lo scorso maggio si è tenuto un seminario di
tre giorni sul rap; una specie di «Tempesta nell'hip hop», un corso
di addestramento a cui hanno partecipato anche le polizie di Atlanta e Los Angeles.
Ai poliziotti veniva insegnato come avvicinarsi al rap, come scavare nei testi,
quali stazioni radio e tv guardare. In quei giorni venivano compilate schede
su schede poi raccolte in ampi fascicoli.
Il capo della polizia di Miami ha dichiarato che dopo gli omicidi a metà
anni Novanta di Tupac Shakur e Notorious Big, quello più recente di Jam
Master Jay e dopo i fatti di South Beach si è imposto un nuovo sistema
di attenzione «per evitare che gente innocente ci vada di mezzo».
Via libera, dunque, a una vigilanza artistica senza precedenti. Che nemmeno
a farlo apposta va di pari passo con le recenti restrizioni televisive sollecitate
dal seno al vento di Janet Jackson al Super Bowl e i conseguenti cinque secondi
di differita agli Oscar. L'intento: tagliare parole, sfrondare frasi, controllare.
Come si propongono a Miami e come anelano da anni i detrattori del rap; da quando
Tipper Gore impose gli adesivi sui dischi (di ogni genere, ovviamente) o su
altri media che contenessero testi o immagini a rischio.
A pensarci bene, poi, il Super Bowl è stato quasi un pretesto ideale,
con una nera a scatenare l'inferno; irriverente, insidiosa. Figuriamoci quante
altre Janet - invisibili e dunque ancora più subdole - possono celarsi
dietro la valanga di emittenti e radio hip hop attive negli Usa. L'attenzione
di rapper e fan del genere è dunque rivolta anche alle prossime mosse
della Federal communications commission (Fcc), l'autorità federale sull'emittenza,
che dopo «l'affare Jackson» ha acquisito uno spazio di manovra senza
precedenti facendo leva sul concetto di «dubbio contenuto morale».
Ovvero l'anticamera della censura. Con artisti, testi e video rap continuamente
sotto tiro. Insomma i fatti di Miami - tacciati di razzismo da artisti e organizzazioni
per i diritti civili - e l'ombra lunga della Fcc non lasciano dubbi: irregimentare
il rap - ieri come oggi - è un dovere; imposto da una forza mediatica
che a seconda dei casi può trasformarsi in voce politica antagonista
o in un possibile modello di corruzione/manipolazione di giovani menti bianche
che di quella comunità cannibalizzano mode, modi, parole, stili di vita.
E intanto P Diddy - accusato anni fa di possesso d'armi da fuoco e corruzione
- si fa avanti e dona 2 milioni di dollari a favore dei bambini di New York;
così come l'etichetta Murder Inc. ha deciso di eliminare la parola «murder».
E ora «dormite sorvegliati», che al resto pensiamo noi.