Sommario
Parte I
Limiti
e prospettive della repressione anti-anarchica
Come si fabbrica un'inchiesta giudiziaria
Come ci si procura un "pentito" e lo si istruisce
Come si arriva al processo
Parte II
La
"nota informativa di servizio"
Parte III
Ribalte
e paludi
(note su un documento rivoluzionario)
***
Limiti e prospettive della repressione anti-anarchica
Come si fabbrica un'inchiesta giudiziaria
Come ci si procura un "pentito" e lo si istruisce
Come si arriva al processo
A te, lettore, che hai fatto lo sforzo di procurarti questa pubblicazione
e di aprirne le pagine, cercheremo di appagare l'interesse e la curiosità.
Ciò che stai per leggere molto probabilmente non ti lascerà
per diverso tempo. Verrà a turbare i tuoi sonni, come ha già
fatto con quelli di molte altre persone. Sappi che la magistratura romana
ha proibito la divulgazione del "rapporto di servizio" qui pubblicato.
I suoi autori - i carabinieri - ne hanno sconfessato la paternità.
Ma la loro responsabilità è talmente evidente, e la rabbia per
essere stati smascherati così forte, che hanno deciso di prendersela
con chi ha avuto il coraggio di parlarne per primo. Il Re si è adirato
col bambino che ne ha additato le vergognose nudità. Il bambino in
questione è Radio Black Out, una "radio libera" di
Torino che il 10 luglio scorso si è vista recapitare questo "rapporto
di servizio" del Ros (Raggruppamento Operativo Speciale)
di Roma. In esso vengono spiegati per filo e per segno il come e il perché
di una inchiesta giudiziaria contro decine e decine di anarchici, avviata
grazie all'utilizzo di una collaboratrice di giustizia. Inchiesta effettivamente
in corso e che proprio nei giorni in cui è venuto alla luce quel fascicolo
era giunta alle udienze preliminari davanti al gip. Ma non si tratta di un
resoconto fatto a posteriori, come si potrebbe pensare. Si tratta della programmazione
di un'inchiesta giudiziaria, essendo questo documento datato dicembre 1994.
In poche parole, questa incursione contro gli anarchici è stata decisa,
studiata e programmata a tavolino dai carabinieri del Ros di Roma tre
anni or sono. I fogli che riproduciamo fedelmente (in scala ridotta) ne sono
la dimostrazione, e costituiscono una clamorosa conferma a posteriori di ciò
che gli anarchici avevano paventato e denunciato a più riprese per
mezzo di manifesti, volantini, giornali, e nelle iniziative pubbliche organizzate
nel corso degli ultimi due anni.
Constatata l'importanza di quel fascicolo, i redattori della radio torinese
lo hanno reso pubblico, naturalmente dopo averne consegnato una copia in Questura
come richiesto dalla legge. E lo hanno consegnato anche agli avvocati degli
anarchici, impegnati in quei giorni nelle udienze preliminari il procedimento
vero e proprio. Appena presentato in aula, questo documento è esploso
come una bomba. Un imbarazzatissimo giudice per le indagini preliminari, dopo
essersi chiuso in camera di consiglio con un pubblico ministero sostituto
del titolare dell'inchiesta, ha deciso di non prenderlo in considerazione,
ipotizzando che si trattasse di un "maldestro" tentativo di far
rinviare il processo. Gli avvocati difensori hanno convocato presso il Tribunale
di Roma una conferenza stampa dove hanno avuto il coraggio di presentarsi
soltanto due giornalisti. Altri giornalisti interpellati, benché consapevoli
della gravità dell'episodio, hanno risposto di non essere interessati
alla questione giacché gli anarchici "non fanno notizia",
non aiutano a vendere! Nei giorni successivi gli stessi carabinieri del Ros
hanno perquisito per ben due volte la sede della radio torinese "in cerca"
di prove che potessero convalidare la tesi di un falso - unica strada di salvezza
per i carabinieri e per la Procura romana. Pochi giorni dopo mani molto esperte
hanno tranciato con un seghetto il cavo del trasmettitore della radio.
Ma la tesi che questo documento sia un "falso" non regge e non convince
nessuno. Valutiamo assieme i fatti. Il pubblico ministero presente in aula
il giorno in cui gli avvocati della difesa hanno presentato il documento del
Ros, dopo averne presa visione ha per prima cosa ipotizzato il reato
di "violazione di segreto d'ufficio". Ciò significa, in poche
parole, riconoscere esplicitamente l'autenticità del fascicolo riservato.
Un abbaglio? Passiamo oltre.
Questa relazione contiene numerosi dati e riferimenti a vecchi rapporti di
polizia che si sono rivelati esatti. Così come i nomi dei militari
che l'hanno realizzata corrispondono a persone effettivamente esistenti. Ma
a corrispondere sono soprattutto i gradi ricoperti nel mese di dicembre 1994
da questi carabinieri, che da allora ad oggi sono cambiati (avendo nel frattempo
ottenuto un meritato avanzamento di carriera sulla pelle degli anarchici inquisiti).
Il linguaggio usato è quello tipico di questi signori, e la lunghezza
del testo è tale da rendere ardua una imitazione. Indicativa è
poi la reazione del giudice delle indagini preliminari e del pubblico ministero
di fronte all'improvvisa comparsa di questo documento. Anziché dare
immediato ordine di sequestrare tutti gli incartamenti del Ros relativi
a questa vicenda - cosa che non poteva intimorire nessuno se davvero i carabinieri
fossero stati estranei alla stesura del fascicolo - il gip ha preferito prendere
tempo per poi decidere di affidare le indagini del caso a imprecisati organi
di polizia giudiziaria. Le successive perquisizioni nella sede della radio
torinese ad opera degli stessi Ros, oltre al misterioso sabotaggio
che ha messo fuori uso la stessa radio per circa tre settimane, dimostrano
fino a che punto il gioco venga condotto ormai a carte scoperte. La magistratura
romana ha incaricato di indagare sul conto di questo documento i suoi stessi
autori. Ancora più incredibile, a comandare le due perquisizioni era
addirittura uno dei curatori della relazione "riservata".
Ma l'elemento a nostro avviso più importante per giudicare la veridicità di
questo documento è un altro, cioè la data della sua spedizione. Vediamo perché.
La "nota informativa" sugli anarchici è stata recapitata
a Radio Black Out il 10 luglio scorso. Esattamente due giorni prima
su tutti i quotidiani campeggiava la notizia di uno scandalo che coinvolgeva
il "Reparto Operazioni Sporche" di Genova. Un pentito aveva vuotato
il sacco facendo arrestare il tenente colonnello Michele Riccio che guidava
il Ros di quella città più altri sottufficiali accusati
di aver falsificato prove, inventato inchieste, indottrinato pentiti. Chi
è Michele Riccio? È l'ex capo della Dia genovese medaglia
d'argento al valor militare per meriti "antiterrorismo" (fu lui
a comandare la squadra che crivellò i brigatisti di via Fracchia),
ma soprattutto ex braccio destro del generale Dalla Chiesa in quella "mitica"
squadra che, ora lo dicono tutti senza giri di parole, non andava certo per
il sottile pur di ottenere qualche risultato.
Nel corso dell'inchiesta sul Ros di Genova, da un dossier spunta fuori
una lettera inviata il 21 marzo scorso da un anonimo carabiniere al Consiglio
Superiore della Magistratura, alla Procura di Genova, al comando generale
dei CC, eccetera, col risultato di venire occultata. Il carabiniere senza
nome ha rivelato i metodi usati dai sottufficiali del Ros genovese,
risaputi dai vertici dell'Arma che hanno sempre taciuto e anche da alcuni
magistrati, e ha aggiunto che si tratta di metodi ancora in vigore presso
diverse sezioni dei carabinieri. Ma, essendo stata questa lettera di denuncia
accuratamente insabbiata, lo scandalo è esploso solo in seguito alle
dichiarazioni di un pentito. C'è da stupirsi che l'anonimo mittente
del testo che qui pubblichiamo abbia deciso di inviarlo a una "radio
libera"? E non possiamo fare a meno di chiederci a quanti altri destinatari
l'avrà inviato.
Interpellati da un giornalista sul caso Riccio, alcuni ufficiali dei carabinieri
del Ros di Roma si esprimevano con queste illuminanti parole: "A
volte esiste nel giudice, soprattutto nella polizia giudiziaria, una forzatura
delle regole perché si vuole incastrare qualcuno che rompe le scatole.
Ma non si ha la pazienza di attendere, di ottenere le prove che confermano
i sospetti". Ebbene, adesso appare chiaramente quali siano i metodi adottati
dal Ros nella gestione disinvolta dei "pentiti", nella falsificazione
dei verbali di deposito dei corpi di reato e nelle relazioni di servizio,
nella costruzione delle prove necessarie per incastrare qualcuno che, appunto,
"rompe le scatole". Adesso nessuno potrà fingere di ignorare
come si costruiscono testimoni e pentiti ad hoc per fabbricare inchieste giudiziarie.
Ma, come qualcuno ha giustamente fatto notare, non si può scaricare
tutto il marcio su un singolo funzionario. È sbagliato parlare di "metodo
Riccio", perché ora sappiamo che si tratta del metodo Ros,
Dia, Eccetera Eccetera. I disperati tentativi di circoscrivere la vicenda
alla sola città di Genova, fatti dal colonnello Mario Mori, capo del
Ros dei carabinieri, secondo cui i metodi investigativi utilizzati
dal suo sottoposto ligure "non appartengono comunque al Ros",
vengono vanificati anche dal documento che qui presentiamo.
Torniamo alla questione del "falso". Ebbene, è plausibile
pensare che qualcuno fra gli avvocati, i giornalisti "compiacenti",
gli imputati, o i loro amici, approfittando del clamore sollevato dallo scandalo
Riccio, abbia potuto confezionare nel giro di pochissime ore, un paio di giorni
al massimo, un documento simile? Che qualcuno si sia cioè procurato
tutte le informazioni necessarie, reperibili solo da un'attenta lettura delle
oltre 80.000 pagine che compongono i fascicoli dell'inchiesta, e le abbia
rielaborate con una tale precisione, rapidità, tempestività?
La risposta non può essere che negativa. E ci sembra di poter tranquillamente
affermare che nemmeno un carabiniere dei Ros, con tutte le facilitazioni
garantite dal suo ruolo, avrebbe potuto realizzare una simile impresa da solo.
Rimane un'unica possibilità, seria e concreta: la nota riservata dei
Ros è autentica. Qualche carabiniere, proprio in seguito allo
scandalo scoppiato a Genova ma le cui ripercussioni sono arrivate immediatamente
a Roma, ha spedito questo documento a radio Black Out di Torino, come
probabilmente ad altri mezzi di informazione. Ignoriamo quali siano stati
i motivi che l'hanno spinto a compiere un simile gesto. Ignoriamo se l'abbia
fatto per scatenare una faida interna ai Ros, o per smentire il colonnello
Mori, o perché convinto che anche gli organi repressivi dello Stato
debbano seguire le regole democratiche.
Francamente, non ci interessa nemmeno saperlo.
Ciò che ci interessa è fare in modo che nessuno possa fingere di non sapere
come e perché decine e decine di anarchici sono finiti sotto processo in Italia,
alcuni dei quali continuano a rimanere chiusi in galera in stato di "custodia
cautelare". Una storia da tutti trascurata e che vogliamo ricordare.
Martedì 17 settembre 1996
Sono le prime luci dell'alba. Centinaia di carabinieri appartenenti ai
R.O.S. fanno irruzione armati di tutto punto, e anche di più,
nelle case di una settantina di anarchici in tutta Italia. È lo spettacolare
punto di partenza della seconda fase di una operazione giudiziaria cominciata
ufficialmente il 16 novembre 1995 con l'apertura di una inchiesta contro 68
persone. Su richiesta di due procuratori di Roma, Antonio Marini e Franco
Ionta, il giudice istruttore Claudio D'Angelo firma i mandati di "custodia
cautelare" nei confronti di 29 anarchici accusati di "partecipazione
a banda armata, associazione sovversiva, detenzione di armi e esplosivi".
Alcune ore più tardi, il magistrato Marini tiene una conferenza stampa
per illustrare gli esiti dell'operazione. La "banda armata" si chiama
"O.R.A.I." (Organizzazione rivoluzionaria anarchica insurrezionalista),
nome esotico di cui nessuno ha mai sentito parlare, organizzazione fantasma
giacché non ha mai rivendicato alcunché. Questa "banda"
si sarebbe autofinanziata con i proventi di rapine e di sequestri organizzati
in collaborazione con "criminali di diritto comune". Il denaro sarebbe
servito alla pubblicazione di alcuni giornali anarchici (Anarchismo,
ProvocAzione, Gas, Canenero). Per fugare in anticipo
ogni probabile dubbio, Marini ci tiene a precisare che non si tratta di un
attacco alle idee: "In una vera democrazia, chiunque può esprimere
le opinioni che vuole, comprese quelle più critiche. Anche gli anarchici,
se fanno politica onestamente, possono apportare il loro contributo a un potere
rispettoso dei diritti individuali". Del resto, molti anarchici in Italia
e nel mondo intero sono persone oneste - ma non questi. Questi non sono altro
che pericolosi criminali, con una inspiegabile tendenza alla sovversione dell'ordine
democratico. Come ogni "banda" che si rispetti, anche questa deve
avere un capo: si tratterebbe di Alfredo Bonanno, anarchico molto noto. La
stampa di ogni colore rispolvera i titoli degli anni '70 per far risorgere
lo spettro del "terrorismo".
Il come e il perché di una inchiesta giudiziaria
Ci sono molte ragioni che giustificano l'operato della magistratura romana,
e chi volesse conoscerle non ha che da leggere le pagine che seguono. Tuttavia
queste ragioni, pur arrovellando da molti anni il cervello di alcuni magistrati
nostrani, avevano comunque bisogno per venire allo scoperto di un fatto concreto
che servisse da pretesto. Cominciamo da questo.
Il 19 settembre 1994 cinque anarchici vengono arrestati a Serravalle di Trento,
in seguito a una rapina in una banca. Una di loro viene assolta in primo grado.
Ma dopo nove mesi la Corte d'appello di Trento condanna tutti gli imputati
a 3 anni e 4 mesi e a 4 anni di detenzione. Fin dal primo momento, una grande
solidarietà nei confronti dei detenuti si manifesta in tutta Italia attraverso
le più disparate iniziative.
Ma, seguendo una usanza assai comune fra i magistrati, fin dall'aprile del
1995 il giudice Carlo Ancona cerca di addebitare ai quattro detenuti altre
due rapine a mano armata commesse nella stessa zona e rimaste senza colpevoli.
Il processo per questi nuovi fatti viene fissato per il 13 ottobre successivo
a Trento. Il giudizio viene rinviato in modo incomprensibile fino al giorno
in cui una ondata di perquisizioni effettuate in tutta Italia mette alla luce
l'inchiesta Marini. Quando il 9 gennaio 1996 si riapre il processo a Trento,
il pubblico ministero Bruno Giardina annuncia che Mojdeh Namsetchi, ex ragazza
di uno degli anarchici arrestati, sta collaborando da qualche mese con le
Procure di Roma e di Trento. Durante l'udienza del 16 gennaio 1996, la ragazza
- che anarchica non è mai stata e che non ha mai preso parte alle iniziative
dei movimento - dichiara di aver commesso le rapine con gli imputati e con
altri tre anarchici. Tuttavia l'amnesia di cui è preda nel descrivere i fatti
è rivelatrice delle sue menzogne. Questa ragazza infatti non ricorda proprio
nulla di quanto accadde quel giorno all'interno e all'esterno della banca:
non ricorda i vestiti indossati dai rapinatori, non ricorda il nome della
banca, non ricorda se le sia caduta la pistola o se le sia partito un colpo,
non ricorda quando e dove è scesa dal treno. La sola cosa che ricorda bene
sono i nomi dei partecipanti alla rapina e vagamente il mezzo di fuga, cioè
un'auto su cui sarebbero saliti in sei. Tanto basta al tribunale di Trento
per condannare gli anarchici imputati. Dopo questo verdetto Mojdeh Namsetchi
diventa a tutti gli effetti una collaboratrice di giustizia credibile, mentre
la Procura di Roma riceve il via libera per la sua inchiesta.
Adesso sappiamo che Mojdeh Namsetchi ha cominciato a collaborare con i magistrati
già parecchi mesi prima dell'inizio del processo. Ma come mai le sue dichiarazioni
sono state usate quasi un anno dopo? Per il semplice fatto che i magistrati
avevano bisogno di tempo per costruire il loro teorema accusatorio. Messa
alla prova, alquanto maldestramente, sul piccolo palcoscenico di Trento, la
falsa pentita è ora pronta per il grande spettacolo romano. Così, anche se
nessun fatto nuovo è sopraggiunto, gli arresti sono stati resi possibili grazie
alle sue "rivelazioni". E che rivelazioni! Sequestri di persona organizzati
in luoghi dove tutti andavano e venivano, omicidi commentati durante riunioni
pubbliche con i nomi di chi li avrebbe commessi - cose che sconfinano nel
delirio. Attraverso la credibilità accordatale dal tribunale di Trento, si
passa naturalmente alla creazione di una organizzazione, cui Mojdeh Namsetchi
avrebbe partecipato. In effetti, quale migliore modo per avallare la tesi
di una "banda armata" che non esiste, che quello di dotarsi di un personaggio
che giura di averne fatto parte? Nel frattempo la corte di Cassazione ha già
annullato per intero il verdetto di un processo (quello sul sequestro di Mirella
Silocchi, dove erano stati condannati anche alcuni anarchici) e in parte quello
del processo di Trento, almeno per quanto riguarda un'imputata. Ma per i giudici
la collaboratrice Namsetchi conserva ancora la sua credibilità.
Per quali ragioni
Ciò che spaventa di più il potere è, da un lato, l'esistenza di donne e uomini
che di fronte alla glaciazione sociale e alla fine apparente di ogni critica
allo Stato e al capitale, continuano a parlare di insurrezione come possibile
inizio di una rivoluzione che metta fine alla tirannia dell'autorità e della
merce; e dall'altro, tutti gli anonimi che hanno compiuto migliaia e migliaia
di azioni di attacco contro le strutture del dominio e dello sfruttamento.
Il problema è evidente. Lo Stato non riesce a individuare i responsabili
materiali delle azioni di attacco avvenute in passato, così come non
riesce a individuare i responsabili materiali dell'attentato del 25 aprile
contro palazzo Marino a Milano, così come non gli sarà facile
individuare i responsabili materiali delle azioni di attacco che subirà
in futuro. Viceversa gli è estremamente facile conoscere chi le sostiene
apertamente. Nell'impossibilità di fermare l'Azione, allo Stato
non rimane che provare a immobilizzare l'Idea nella vana speranza che
in tal modo anche la prima si esaurisca. Ma l'ideologia democratica, la musica
d'ambiente che culla i sonni dei sudditi, si fonda sulla promessa che si è
liberi di esprimere qualsiasi idea, foss'anche la più estremista. La
democrazia si fa un vanto di proclamare che non si può reprimere un'Idea.
Come fare per aggirare l'ostacolo senza mettere in mostra la menzogna di cui
si nutre l'ideologia democratica? È presto detto. Le autorità
dello Stato inventano l'esistenza di una organizzazione militare strutturata
su due livelli - uno pubblico e legale cui apparterrebbero numerosi anarchici
conosciuti per le loro attività, l'altro occulto e illegale cui apparterrebbero
tutti gli anarchici già detenuti per altri motivi - a cui poter attribuire
quei gesti di rivolta che, per la semplicità dei mezzi usati, possono
essere stati commessi da chiunque. In questo modo si colpiscono una seconda
volta gli anarchici detenuti, ritenuti rei di aver commesso l'Azione,
e allo stesso tempo si può reprimere anche chi diffonde apertamente
l'Idea. Ecco spiegata la premura del pubblico ministero Marini nello
specificare che non si tratta di un processo alle idee, laddove è proprio
di questo che si tratta. La sola cosa condivisa dagli anarchici imputati in
questa inchiesta è l'Idea anarchica, non certo la militanza
in una organizzazione armata specifica peraltro mai esistita. Anche se oggi
non esistono espressioni sovversive capaci di scuotere autenticamente l'ordine
stabilito, il potere teme comunque che tutti i piccoli segni di insoddisfazione,
di cui non si può negare l'esistenza, possano riconoscersi in un progetto
insurrezionale (e viceversa). Cosa c'è di più semplice ed efficace
che inventarsi una "banda armata"?
Così facendo ottiene contemporaneamente:
Ecco perché il dominio si presenta come eterno. La democrazia è la libertà. Una rivolta contro la libertà è inconcepibile, dunque non esiste. Tutti devono credere che, contro il presente democratico, nulla accade. Nulla può accadere. Ciò che accade è opera di "terroristi", quindi è come se fosse nulla. Agli sfruttati che non intendono arruolarsi nelle truppe di una organizzazione armata specifica, o contemplare le sue gesta, non rimane che la protesta legale - ecco cosa suggerisce il potere. 0 riformismo, o barbarie. La conclusione di questa logica totalitaria, è che nessun cambiamento è possibile.
La chiusura del cerchio
Il 20 ottobre 1997 è fissata a Roma, nell'aula bunker del carcere di Rebibbia,
la prima udienza del processo contro una sessantina di persone accusate di
"banda armata" e di "associazione sovversiva". Molti degli imputati sono anarchici,
nemici dichiarati di ogni autorità. A questa vicenda, che come detto si protrae
da qualche anno, i mass media nazionali hanno concesso pochissimo spazio,
e solo quando sono stati "invitati" a farlo (a modo loro, s'intende) dagli
inquirenti. Strano, verrebbe da pensare. Fino a qualche anno fa processi del
genere occupavano regolarmente le prime pagine dei giornali. Erano però altri
tempi, ricchi di fermenti sociali. Lo Stato godeva di poco consenso e la tanto
sbandierata "lotta contro il terrorismo" gli serviva per riguadagnare un po'
del prestigio perduto. Ben presto il "terrorismo" avrebbe lasciato posto alla
"droga", poi alla "mafia". Tanti draghi immaginari, creati appositamente per
permettere ai cavalieri dello Stato di vincerli e di ottenere così il favore
popolare. Oggi, il consenso attorno allo Stato è solido. Nulla sembra scalfirlo.
Le mani di chi ci governa non saranno forse pulite, ma sono libere di amministrare
l'esistente a loro piacimento. Ecco perché non è più il caso di far sapere
in giro che, alle soglie dell'anno duemila, esiste ancora qualche scriteriato
che non ha smesso di desiderare la distruzione di ogni potere. Una ventina
di anni fa il modo migliore per esorcizzare l'ipotesi di una rivoluzione sociale
era quello di parlarne continuamente, annegarne l'idea in un mare di chiacchiere.
Oggi si segue il procedimento inverso. Nessuno deve fare quel nome, nessuno
se ne deve interessare. E se c'è ancora qualcuno persuaso della necessità
e della possibilità di una trasformazione sociale globale, meglio sbatterlo
in prigione. Ma, per carità, con discrezione. Siamo pur sempre in democrazia.
Ribalte e paludi
(Note su un documento rivoluzionario)
Quello che precede è un documento rivoluzionario. Pur tenuto conto dei
modesti mezzi culturali di cui dispongono i suoi estensori, esso appartiene
alla schiera dei grandi testi politici sulla reale natura del potere. Rivoluzionario,
ovviamente, in un senso particolare.
Nel corso delle epoche è accaduto talvolta che la loro personale intelligenza,
unita alle particolari circostanze storiche, abbia spinto alcuni potenti o
difensori dei potenti a parlar troppo. Nell'arte di governare si parla troppo
quando le menzogne di una strategia di dominio vengono descritte in modo non
menzognero, quando l'ideologia viene spiegata in modo non ideologico. Il tiranno
Crizia parlava troppo quando diceva che gli dèi non esistono e che
la religione è un instrumentum regni. In quanto uomo di Stato
egli aveva bisogno della religione come tecnica politica (realtà) e
di un discorso religioso sulla religione (menzogna). Dicendo che i padroni
hanno bisogno di Dio, il padrone Crizia faceva gli interessi dei propri servi.
In questo senso le sue tesi sulla religione erano rivoluzionarie. Ma non solo
in questo senso. La giustificazione morale del potere non è soltanto
un'arma contro i sudditi, ma è anche una necessità per così
dire esistenziale degli stessi potenti. Uno sguardo lucido sul mondo, quando
si sfruttano e si dominano gli uomini per il proprio profitto, è un
peso non facile da sopportare. Ecco allora che i padroni hanno bisogno di
crearsi un sistema di sante cause per giustificare a se stessi quello che
fanno. La religione ha sempre soddisfatto questa esigenza. La sua difesa del
lavoro come mezzo di riscatto per l'uomo, ad esempio, è indirizzata
sia agli sfruttati sia agli sfruttatori. Il privilegiato riceve i propri valori
da una tradizione consolidata, esattamente come l'escluso. L'ideologia cerca
poi di unire in un'unica morale ciò che nella vita è opposto.
Un'istituzione di potere formata solo di Crizia è impensabile.
Allo stesso modo, però, è impensabile un dominio di soli Socrate (disposti
a portare la difesa etica della legge fino al sacrificio e alla cicuta). I
potenti devono saper distinguere la realtà dalle menzogne che raccontano per
nasconderla. Quando finiscono per credere all'ideologia che hanno creato per
i dominati, nessuna strategia di dominio è possibile. Se si finisce per credere
che le leggi servono al bene dell'umanità, non si può certo durare a lungo
come uomini di Stato e d'affari. Quando la confusione si fa eccessiva, spesso
succede che qualcuno - per chiarire qual è la realtà e qual è l'ideologia,
o semplicemente per personale tornaconto - parli troppo. Gorgia parlava troppo
quando diceva che la retorica, "che il discorso falso fa diventar vero", è
la base della politica. Tito Livio parlava troppo quando diceva - spiegando
con un anticipo di secoli il gioco dell'opposizione parlamentare - che l'istituzione
del tribunato della plebe doveva servire a controbilanciare lo sforzo bellico
con l'illusione della partecipazione politica popolare. Machiavelli parlava
troppo quando diceva, mettendo da parte ogni spirito socratico, che per governare
"gli uomini si debbano o vezzeggiare o spegnere". Hobbes parlava troppo quando
diceva che le leggi, senza spada, non sono che vuoti nomi; che l'obbedienza
dei sudditi si ottiene e con le garanzie di sicurezza e con la paura. Bacone
parlava troppo quando, per controllare i cittadini, proponeva di riempire
le strade di spie governative opportunamente mimetizzate. Baltasar Gracián
parlava troppo quando, inaugurando la grande scuola gesuitica degli allevatori
di tiranni, consigliava ai regnanti l'arte di prudenza e di simulazione. Hanno
parlato troppo Mazzarino e Clausewitz, Tocqueville (a modo suo) e De Maistre.
Quello di Hegel è stato, a un orecchio attento, un lungo parlar troppo. Ha
parlato troppo Spengler, che voleva togliere alla borghesia ogni idea di progresso
e di ipocrita pacifismo. E così Giuseppe Rensi, che si spingeva, in piena
sbornia di universalismo neo-idealista, fino a dire che il potere andava difeso
sostenendo la sua assoluta arbitrarietà. In che misura tutti costoro abbiano
servito i loro padroni, oppure, indirettamente, gli sfruttati, è dipeso da
molti fattori, non ultimo la pubblicità delle loro idee. Accanto a questa
strada minoritaria, si è sviluppata quella dei Socrate (per fare qualche nome:
Platone, Aristotele, Kant, Rousseau), sempre all'opera per nascondere, in
ossequio a ragioni morali, la vera natura del potere. Non che anche in questi
ultimi non si possano trovare idee spaventosamente repressive (anzi, la difesa
virtuosa dell'autorità raggiunge talvolta vette inarrivabili per qualsiasi
machiavellismo). Ma la loro preoccupazione è di camuffare dietro i valori
etici la reale tecnologia del potere. Malauguratamente, la cultura di sinistra,
che di valori se ne intende, ha bollato con le proprie scomuniche tutta la
linea dei Gorgia (salvo là dove è potuta intervenire con le proprie interpretazioni
falsificanti - come con Machiavelli, il quale, in nome della "duplicità" dei
Principe, sarebbe un autore ironico!). Le anime belle, infatti, si scandalizzano
meno per l'oppressione, che per la parola che la chiama per nome. Gli esempi
storici che si potrebbero fare sono fin troppo numerosi. Si prenda la difesa
che quella canaglia di Bernstein fece dell'opportunismo socialdemocratico.
In realtà, abbandonando ogni idea rivoluzionaria in quanto "antiscientifica";
difendendo la sola strategia parlamentare come strumento di emancipazione;
auspicando la progressiva conquista del potere attraverso il controllo completo
dei sindacati; Bernstein non faceva che portare nella sfera del concetto la
pratica reale del partito socialdemocratico, la netta collaborazione dei suoi
dirigenti con la borghesia. Ma Lenin e Rosa Luxembourg non attaccarono la
realtà della socialdemocrazia, bensì il "revisionismo anti-marxista" di Bernstein,
che ne era espressione. Preferivano, cioè, che la fraseologia rivoluzionaria
continuasse a coprire il concreto e affaristico riformismo del partito. Il
dibattito dell'epoca spiega in anticipo la menzogna bolscevica, la versione
estremista del riformismo socialdemocratico. Il movimento rivoluzionario continuò
purtroppo a non capire che Bernstein andava attaccato proprio perché aveva
ragione - e il risultato fu il nazismo.
Gracián o Spengler vanno studiati perché difendono chiaramente il Principe,
da cui pretendono uno sguardo lucido e un polso fermo. Invece le anime pie
hanno un modo del tutto particolare di servire il popolo: passargli informazioni
false. Socrate non capiva che a dire la verità sul potere nell'assemblea cittadina
era Gorgia, non lui. Il guaio dei Socrate è che finiscono per credere alla
moralità del manganello. La sinistra al potere non è meno imbecille. Lo stalinismo
è un perfetto esempio di ideologia che entra in cortocircuito.
La capacità di distinguere tra realtà e ideologia è fornita dalla cultura.
Per assolvere questa funzione la cultura si espone però al rischio di essere
usata dai nemici, cioè dagli sfruttati. Certo, la divisione tra lavoro intellettuale
e lavoro manuale si occupa di ripartire la conoscenza in modo socialmente
adeguato, cioè gerarchico. Però le trasformazioni economiche e sociali, e
la conseguente democratizzazione delle strutture di potere, hanno fatto sì
che non si possano ridurre all'infinito gli strumenti culturali degli sfruttati,
senza ridurre allo stesso tempo la cultura nella sua globalità. Le conoscenze
tecnologiche specializzate su cui si basa la nuova separazione di classe non
sono sufficienti a formare una cultura, e quindi - come si è detto - una strategia
di dominio. L'ignoranza storica, ad esempio, è fatale nell'uso della repressione:
anche il sacrificio, il controllo e il recupero hanno bisogno di coerenza.
Ma una società lanciata a kamikaze verso il Niente, può occuparsi del passato?
Tutto questo per dire che il potere non è mai stato così potente e allo stesso
tempo così stupido. Non essendo preparati alla menzogna strategica, e non
volendo allo stesso tempo essere colti in flagrante delitto di ignoranza,
sempre più spesso i padroni raccontano qualsiasi idiozia. Fortunatamente per
loro, possono ancora contare sull'obbedienza di un popolo di stoici.
Questo dei Ros è un documento teorico rivoluzionario. Certo,
gli estensori non sono particolarmente dotati. Chissà cosa vorrà
mai dire, ad esempio, "concorso psichico" in un attentato (p. 12).
Ciò di cui non mancano, però, è uno sbirresco realismo.
Le persone da trasformare in "pentiti", ci dicono fra l'altro, devono
essere psichicamente duttili (p. 12), proprio come i metalli, che si lavorano
a piacimento e soprattutto senza lasciar traccia. Insomma, per quanto nelle
loro possibilità, i signori Pagliccia, Costantini, Finotti, Brizzi,
Miserendino, Sorrenti e Guida (curioso, costui si chiama come uno dei poliziotti
che ammazzarono Pinelli) hanno fornito al Principe il loro contributo - parlando
chiaramente.
Rivoluzionario, si diceva. Prima di tutto perché conferma esattamente
quello che stiamo dicendo da mesi a proposito dell'inchiesta giudiziaria fabbricata
dal giudice Marini. Leggendo le pagine che precedono si capisce chi sono i
veri teorici della "banda armata" che gli inquirenti stanno mettendo
sul dosso di decine di anarchici. I carabinieri spiegano a chiare lettere
che ogni metodo è lecito per sbarazzarsi di individui scomodi e per
impedire ogni diffusione delle idee sovversive. Si vede così come le
montature vengono costruite a tavolino, come la realtà viene opportunamente
falsificata, come si individuano e si addestrano le persone a cui far recitare
la parte dei "pentiti" quando le prove fabbricate non bastano. Cose
da voltastomaco, degne di funzionari tanto servili quanto privi di dignità.
Certo, per gli anarchici non è cosa nuova né sbalorditiva. La
Giustizia è uno dei fondamenti dello Stato, della società del
denaro e delle classi. Le leggi servono all'autorità e ai padroni per
imporre e difendere il loro potere. Quando queste sono insufficienti, se ne
sbarazzano bellamente. Il codice penale, a differenza di un listino dei prezzi,
non può essere aggiornato continuamente. La vita mai definitivamente
doma degli sfruttati non può essere imprigionata, una volta per tutte,
nei divieti e nelle permissioni legali. Le stesse norme disciplinari della
società oltrepassano il quadro delle leggi. Così come ci sono
attività economiche illegali totalmente normalizzate e necessarie al
mercato (traffico di droga, ricettazione, riciclo del denaro detto sporco,
eccetera), ugualmente lo Stato fa di mille illegalità politiche una
norma. Anche la repressione si comporta allo stesso modo. Tutto questo sorprenderà
le anime pie che credono allo spettacolo di giudici incorrotti che ci difendono
da potenti e lestofanti, non di certo coloro che vogliono sbarazzarsi di ogni
uniforme e toga. Con tutto ciò, fa un certo effetto vedere come gli
estensori della nota informativa "si permettono di suggerire", per
usare il loro linguaggio, le più farabutte falsificazioni. Ecco l'inchiesta
Marini riassunta in poche righe: "Come previsto, la NAMSETCHI [la "pentita"]
ha palesato non avere alcuna propensione per le ideologie anarchiche ed ha
ammesso di attraversare un periodo difficile, dichiarandosi disponibile a
fornire qualsivoglia contributo alle acquisizioni dell'A. C. Si apre a questo
punto la possibilità di cristallizzare infine tutte le indagini condotte
sul conto dell'eversione anarchica negli ultimi dieci/quindici anni, che fino
ad oggi non avevano dato risultati soddisfacenti in sede penale [ ... ]. In
particolare si delinea la probabilità di agevolmente operare pressioni
sulla Namsetchi, riconosciuta elemento vulnerabile e psichicamente duttile
[ ... ]. Se la testimonianza a carico non dovesse assumere sufficiente carattere
probatorio, si può ipotizzare una chiamata di correità [ ...
]. Si permette di suggerire l'ambientazione di attività criminali come
rapine nella zona di Trento [ ... ]. Il successivo riconoscimento del tribunale
giudicante la legittimità della NAMSETCHI permetterebbe di ipotizzare
il reato di banda armata o anche solo di associazione sovversiva per tutti
gli anarchici [ ... ] portando come elementi a carico determinanti le dichiarazioni
rese dalla NAMSETCHI" (pp. 11-12). Le conferme, contenute in questi passi,
di tutto quello che abbiamo detto nei giornali, nei volantini, nei manifesti,
nei dossier, nelle conferenze, negli interventi in piazza, sono talmente inconfutabili;
le menzogne dell'inchiesta sono talmente vere - che si potrebbe quasi dubitare
dell'autenticità del testo. Invece è autentico, come dimostrano
anche i ripetuti tentativi dei carabinieri di farlo sparire (rimarchevole
il fatto che delle indagini sulla sua autenticità siano stati incaricati
gli stessi Ros!). Le anime belle, ancora una volta, saranno più
scandalizzate dallo scandalo della "nota", che dalla reale natura
del potere che questa disvela. I Socrate vedono tutto, tranne l'evidenza.
I carabinieri parlano troppo, quindi rendono un servizio agli anarchici. Ovviamente
parlano troppo, in questo caso, perché noi non avremmo mai dovuto leggere
la loro "nota informativa". Ma la Fortuna (sotto forma di qualche
rivalità e bega di Corte) ancora una volta viene in aiuto ai ribelli.
Trattandosi di carabinieri, i Ros riescono a mentire persino nelle
loro informazioni riservate. Ad esempio, quando dicono che le pubblicazioni
anarchiche sono "a circolazione interna" (p. 8), mentre si sa benissimo
che sono diffuse ovunque possibile. Ma per lo più si tratta di ignoranza
e di ottusità. Nel complesso il documento è sufficientemente
lucido e assolutamente veridico. Del tutto particolare, quindi, il valore
rivoluzionario delle parole dei birri.
Ma non solo perché dimostrano che Marini mente. Il loro interesse risiede
soprattutto nel fatto che rivelano, in negativo, quello che il potere teme.
Cos'è che "non può assolutamente venir ulteriormente tollerato"
secondo i Ros? La pubblica diffusione delle idee insurrezionaliste,
contro la quale il codice democratico non fornisce adeguate misure repressive;
le centinaia di azioni di attacco, per lo più prive di rivendicazione,
realizzate contro le strutture del dominio negli ultimi dieci anni; un insieme
di rapporti e di lotte sociali non direttamente criminalizzabili; la solidarietà
fra anarchici.
Il quadro delineato dai carabinieri chiarisce meglio il discorso su insurrezione,
sigle e organizzazione anarchica specifica, di quanto non abbia fatto il dibattito
fra compagni. Gli estensori del documento dicono chiaro e tondo che hanno
bisogno di un'organizzazione armata a cui attribuire tutti quegli atti di
rivolta che non riescono a reprimere, perché "collocati nella palude dell'anonimità"
(p. 5). La questione oltrepassa il campo penale, e coinvolge la capacità stessa
dello Stato di comprendere la progettualità rivoluzionaria. Ciò che il dominio
teme è la rivolta diffusa, impossibile da ricondurre sul terreno politico
o militare. L'esistenza di strutture organizzative non legate alla temporaneità
delle lotte e che rivendicano con le proprie sigle le azioni di attacco offre
maggiori elementi di "decodificazione", e di separazione degli anarchici dalle
reali pratiche sovversive degli sfruttati.
Il rivoluzionario a volte cerca di superare la distanza che lo separa dai
conflitti sociali attraverso la magia delle parole. Se scrive un libro, dirà
che le sue tesi sono già nella testa di tutti gli sfruttati; se passa
all'attacco di qualche struttura dello Stato e del capitale, dirà di
partecipare al "processo generale d'autorganizzazione sovversiva insurrezionale
che i proletarizzati in rivolta si danno". Ma dov'è questo processo?
Se ne accorge davvero, il nostro rivoluzionario, quando qualcosa si muove?
Quando la rivolta sociale non sembra dietro l'angolo (ma magari solo un po'
più in là, come dimostrano fatti recenti), si dovrebbe attendere, oppure limitarsi
a diffondere, non si sa bene come, le idee? Chi scrive pensa di no. L'attacco
è sempre un fatto positivo e costituisce esso stesso un contributo teorico
e metodologico. Ma se si agisce da soli o assieme ai compagni che ci sono
affini, non c'è alcun bisogno di considerarsi gli ultimi mohicani della rivolta,
né di nascondere l'isolamento con l'illusione di essere già dentro una pratica
insurrezionale diffusa. Per agire non occorre pretendere di essere né un'avanguardia
né l'oltrepassamento reale dei limiti delle lotte sociali. È sufficiente considerarsi
sfruttati accanto agli sfruttati; sfruttati che vogliono farla finita con
il potere e lo sfruttamento. La rivolta non ha bisogno di altre giustificazioni.
Così il discorso di classe diventa tutt'uno, nei suoi limiti e nelle sue prospettive,
con i propri individuali progetti sovversivi. Niente di più, niente di meno.
Sempre che, ben inteso, non si pensi che gli anarchici possono distruggere
lo Stato e il capitale da soli.
Chissà perché, invece, quando un'organizzazione rivendica delle azioni distruttive
del tutto simili ad altre mai uscite dalla "palude dell'anonimità", oppure
mai uscite con un programma organizzativo, subito, come per magia, gli attacchi
diventano dei salti di qualità nella "lotta armata", l'incontro già avvenuto
con le "lotte proletarie". Perché? Potere delle sigle?
A un certo punto della nota informativa (p. 9), si parla di "una organizzazione
rivoluzionaria anarchica oltranzista-insurrezionalista che, per quanto attenuata
dall'iniziativa lasciata ai singoli, si pone tuttavia in una inevitabile posizione
di contrasto con la dottrina anarchica classica". Certo, per chi pensa
che tutti gli individui debbano per forza organizzarsi come i carabinieri,
la libera iniziativa non può che essere lasciata ai singoli, col rischio
inevitabile di "attenuare" ogni efficacia organizzativa. Ma per
gli anarchici, che fedeli nei secoli non sono, la libera iniziativa dei singoli
è la base di ogni rapporto. La stupidità autoritaria in questo
caso è rivelatrice. Il potere democratico ha capito, persino attraverso
i funzionari dell'Arma, che alla repressione serve tutto, anche le idee anarchiche.
I Ros scomodano addirittura la "dottrina anarchica classica"
per squalificare ogni ipotesi insurrezionalista. Chi è per l'insurrezione,
deve per forza essere per l'organizzazione autoritaria, per le gerarchie "almeno
di fatto" (p. 1). Ancora una volta, il problema dei repressori non è
solo quello di inventarsi una bella "banda armata" per comodità
giudiziarie (anni e anni di galera senza accuse specifiche - potere dei reati
associativi), ma quello, teorico e strategico, di portare i sovversivi sul
terreno che lo Stato conosce e sul quale ha già vinto. La pratica dei
sovversivi e le rivolte degli sfruttati in collera, il potere vuole vederle.
Come Dante e i teologi medievali temevano la selva (luogo di perdizione, immagine
di passioni e di strane corrispondenze, groviglio in cui la Ragione si muove
a fatica), così lo Stato teme le paludi: non si sa mai cosa può
uscirne. Le possibilità insurrezionali lo Stato vuole conoscerle prima
che si realizzino. Ha bisogno di un'organizzazione insurrezionalista che sia
un riferimento quantitativo e formale. In assenza di ciò, le lotte
diffuse (occupazione degli spazi, iniziative scandalose, dibattiti, manifestazioni
di solidarietà, eccetera) sono un "coacervo" (p. 7), un'immensa
palude. Le idee possono diventare azioni, e viceversa, in uno scambio continuo
e inesauribile. Come arrestare tutti quanti?
Si è fatta, soprattutto nell'ultimo periodo, non poca confusione sul concetto
di organizzazione. Senza voler affrontare il problema in tutta la sua portata,
ciò che importa qui è distinguere tra l'organizzazione come fatto e l'organizzazione
come struttura specifica, e ancora tra l'organizzazione "insurrezionale" e
l'organizzazione "insurrezionalista".
Quando, pur sostenendo la necessità dell'insurrezione, si critica la
"organizzazione armata", non si critica l'organizzazione del fatto
armato nel corso dello scontro insurrezionale, e nemmeno l'uso delle armi
nei periodi non insurrezionali. Ciò che si critica è l'esistenza
di una struttura specifica che, all'infuori delle temporanee esigenze di una
lotta, rivendica se stessa in quanto struttura.
Ci si risponderà che l'organizzazione è una necessità permanente della pratica
sovversiva. Giustissimo. Ma perché caricare di una sigla, cioè in fondo formalizzare,
un fatto? Perché trasformare un'occasione di discussione e di contatti - quale
può essere un'organizzazione informale insurrezionalista - in una struttura
decisionale?
Per "organizzazione insurrezionale" si può intendere sia la risoluzione pratica
generale dei problemi posti dall'insurrezione (scontro armato, approvvigionamento,
comunicazione, eccetera); sia le strutture organizzative, formate da rivoluzionari
e sfruttati, che nascono nel corso delle lotte, "secondo la situazione" (p.
3). Ma in entrambi i casi, si parla di qualcosa di legato a un tentativo materiale
di insurrezione. Al di fuori di ciò, che farsene di un'organizzazione armata
specifica? Molto meglio, ce lo dicono i carabinieri, la palude della rivolta
diffusa.
Questa "nota informativa" è un testo prezioso, da diffondere il più possibile.
Giudici e carabinieri vi troveranno lo scandaloso smascheramento delle loro
pratiche terroriste - e cercheranno quindi di proibirne la lettura. Le donne
e gli uomini di cuore e di coraggio vi troveranno elementi sufficienti per
pretendere, assieme a noi, la liberazione di tutti gli anarchici sequestrati
dal mentitore Marini; inoltre, potranno trovarvi - ciò che più importa - l'occasione
per riflettere sulla reale natura delle leggi, della Giustizia, del potere.
I compagni vi troveranno utili informazioni per affilare armi e desideri,
e continuare nella lotta. Senza "il ben che minimo accenno al dialogo con
le Istituzioni" (p. 8).