Salvatore Rudilosso. Il trentesimo giorno
di AA.VV.

Nota introduttiva
Nota biografica: Infanzia e adolescenza di un proletario
Cittadino dello Stato a «pieni diritti»
La rieducazione
Il carcere diffuso
Alcune lettere di Salvatore Rudilosso

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Nota introduttiva
Quando, nel settembre del '79, un compagno del Collettivo di Palermo venne nel mio studio, qui in Catania, e mi affidò la difesa di Salvatore Rudilosso, condannato dal Tribunale di Siracusa a sette anni di carcere per concorso in rapina, capii subito che il gioco era fatto. Quella prima parte della partita chiusa e perduta.
Il fascicolo processuale, voluminoso perché erano stati celebrati quattro giudizi, stava per essere trasmesso, per la seconda volta, alla Corte di Cassazione che, un anno prima, aveva annullato la sentenza della Corte d'Appello di Catania e rinviato gli atti per il riesame ad altra sezione di Appello limitatamente, però, a due soltanto dei coimputati, i quali, disponendo di sufficiente denaro, avevano potuto dare l'incarico ai loro legali di presentare nei termini gli indispensabili motivi di ricorso. Per Salvatore Rudilosso, che non possedeva il becco di un solo quattrino, i motivi di ricorso non erano stati presentati e la sentenza era diventata definitiva.
Altra sezione della Corte di Appello di Catania, cui era stato demandato il riesame del fatto, aveva ridotto la pena nei limiti di una accettabile severità, e conseguentemente, condannato i due suoi compagni, non meno responsabili di Rudilosso, a tre anni e sei mesi. Nel concreto, la mancata disponibilità di un centinaio di migliaia di lire costò a Salvatore Rudilosso ben due anni e diciannove giorni in più di carcere rispetto a quell'altro inflitto ai suoi due più fortunati, solo perché meno poveri, compagni di avventura. Sbaglierebbe il lettore se ritenesse un fatto eccezionale ciò che accadde a Salvatore Rudilosso. Casi simili sono, purtroppo, frequenti nella pratica giudiziaria. Tristemente noti a magistrati e ad avvocati che in bella mostra ne parlicchiano nei congressi e nelle tavole rotonde, così, i più per diporto.
Quasi tutti con la piena e sperimentata consapevolezza della esistenza di due giustizie: una per i poveri e un'altra per i ricchi. E poiché esse, tutte e due, sono congeniali al potere e al portafoglio, si guardano bene dal parlarne fuori della ristretta cerchia degli addetti ai lavori. Perché la gente non sappia, non conosca la realtà.
Quello fu il mio impatto con il caso Rudilosso. Una storia di miseria come tante altre .Lette le carte processuali, conoscevo i fatti ma non l'uomo. Di lui sapevo soltanto che era intelligente e politicamente impegnato. "E' un giovane che in carcere si é politicizzato, al quale abbiamo potuto soltanto spedire qualche libro e un modestissimo contributo" aggiunse il compagno del Collettivo di Palermo. Assunsi l'impegno di iniziare e portare a termine una richiesta di liberazione condizionale. E poiché, per scrivere la domanda, mi era indispensabile sapere qualche cosa di più preciso sulla vita di quel giovane, chiesi notizie. Mi rispose con una lunga lettera che oggi conservo tra i miei ricordi professionali più cari e che, insieme ad altre due, offro alla tua lettura.
Una bella, e perché no, istruttiva lettera che ogni magistrato dovrebbe leggere.
Fra le tante notizie, in particolare mi colpirono la maturità di un impegno politico che non consentiva compromessi o baratti neppure con un solo giorno di detenzione; l'amore per lo studio; le numerose e varie attività lavorative che aveva intrapreso prima e durante la carcerazione; e le lotte che, sin dall'infanzia, aveva dovuto ingaggiare nell'inutile tentativo di tirarsi fuori dalla miseria. Mi chiedeva anche un colloquio; ed io lo andai a trovare.
Ero curioso di verificare quanto di vero e quanto, invece, di strumentale vi fosse in quello scritto. Ben sapevo, per una qualcerta esperienza, che, a richieste come la mia, i clienti quasi sempre nascondono la verità, riducono le proprie responsabilità, cercano giustificazioni al loro operato perché ritengono che più l'avvocato li crederà innocenti, meglio li difenderà. Per me, quindi, quella era una lettera tutta da verificare. Mi trovai di fronte un giovane di media statura, magro, inquieto, con due occhi luminosi e mobilissimi che sembravano non avere pace dietro la lente da vista. Discutemmo a lungo quella mattina e verificai che niente vi era di falso, di strumentale, in quella lettera. Anzi, forse per pudore, aveva minimizzato alcuni particolari, come nel caso di un incidente sul lavoro patito nel carcere di Pianosa che gli aveva lasciato postumi ben più gravi di quelli descritti nella lettera.
L'uomo, ne ebbi in seguito più conferme, non amava i sotterfugi, non agiva per calcolo, detestava i secondi fini. Impaziente, dinamico e combattivo, ma anche instabile, testardo e impulsivo, poi che fu rinchiuso in carcere, bisognoso com'era di vivere una vita piena di emozioni e senza compromessi, aveva trovato negli scritti di Lenin, Marx, Engels (ed altri), nello studio della rivoluzione industriale russa e di quella francese (che conosceva benissimo) una valvola di sfogo al suo inesauribile desiderio di movimento e di azione, alla sua voglia di vivere e di agire. E con quelle letture, attraverso quegli studi (annotava, riassumeva, appuntava ogni cosa) aveva non soltanto acquisito piena coscienza della classe cui apparteneva ma, da solo e partendo da zero, si era costruito un ideale politico che propagandava con impegno quotidiano.
Propaganda a caro prezzo; tant'é che, quando lo conobbi, aveva subito segregazioni e trasferimenti e successivamente, sempre per quel tale impegno, gli fu negato il beneficio della riduzione di giorni venti di carcere che, di norma, viene concesso anche ai violentatori di bambini solo che abbiano, durante il periodo di detenzione, tenuto un comportamento anonimo, evitato problemi all'autorità carceraria. In quel primo colloquio in carcere Rudilosso mi confidò di avere scritto molte poesie che volentieri mi avrebbe fatto leggere. Il ricordo di quella confidenza é nitido nella mia memoria perché mi sembrò una bizzarria: una nota stonata, disarmonica per il carattere di quell'uomo che cominciavo a conoscere. Poi lo andai a trovare altre volte ma non si parlò di poesie. Di esse, invece, parlammo e a lungo, nel febbraio dell'80 quando erano state sequestrate insieme a quaderni di appunti, a studi, a riassunti che pochi mesi prima mi aveva mostrato con orgoglio. Era indispettito per quella violenta ingerenza dell'autorità nella più intima sfera del privato; ma non ne faceva un dramma.
Non si dava, invece, pace per il sequestro dei quaderni, dei suoi studi, di quegli appunti, che a me parvero caotici e disordinati, ai quali dava grande importanza. Alle poesie teneva, ma solo sino ad un certo punto: "In fin dei conti non erano altro che poesie",mi disse. Quella volta, però io fui curioso; e Rudilosso me ne recitò una dozzina. Rimasi sorpreso per la loro bellezza. Rudilosso se ne accorse, e capì che mi doveva dare una spiegazione. Lui "era fatto così" mi disse, "ventinove giorni su trenta, avrebbe voluto cambiare il mondo, voltarlo sottosopra, lottare per sottrarre sé e gli altri alle ingiustizie e alla miseria, eliminare tutti gli sfruttatori di questo mondo e disperderne le ceneri nell'oceano; ma vi era anche un trentesimo giorno nel quale si sentiva stanco, spossato, e avvertiva che nulla avrebbe potuto fare, che i suoi erano sogni, nient'altro che sogni".
Le sue poesie erano tutte figlie di quel trentesimo giorno. E aggiunse: "sono state per me medicine che mi hanno impedito di impazzire".Mi confessò anche che, a volte, lo assaliva una improvvisa timidezza che lo bloccava; ma solo per poco, perché, e per lui era motivo di orgoglio, era sempre riuscito a vincere questo aspetto del suo carattere che riteneva detestabile. Caro lettore, come ti ho detto, quelle poesie mi piacquero subito. Così tanto che ne trascrissi tre sul retro di una carpetta ch'io tenevo con me. Purtroppo, ed oggi me ne do carico, non annotai, forse perché molto più lunga delle altre, una poesia bellissima che Rudilosso aveva dedicato alla madre; e che non trovo fra quelle consegnatemi per questa prefazione. Delle tre poesie da me ritrovate solo "Terra, Terra mia" é stata scritta in carcere. Le altre due, mi disse, le aveva composte a sedici anni per una tal Mariella, sua vicina di casa, della quale era stato innamorato non corrisposto. Nell'ottobre dell'80, pochi giorni dopo che gli era stata concessa la liberazione condizionale, venne a trovarmi in studio per ringraziarmi; e mi disse che nulla gli era stato ancora restituito delle cose sequestrate. Aveva trovato lavoro ad Avola. E un altro, meglio retribuito, gli era stato promesso per la raccolta delle mandorle. Lavoro nero, ovviamente; comunque era sempre un lavoro, "meglio che niente". Quello fu un vero colloquio anche perché prometteva di ritornare. Trovai il tempo di regalargli un bel pò di libri che portò via con gli occhi lucenti e preoccupati del bambino cui é stato comprato il gelato e ha fretta di mangiarlo perché teme gli possa essere portato via. Successivamente telefonò ma io non ero in studio.
Lasciò un messaggio nella segreteria telefonica; non ricordo quale. Poi seppi che era partito per il Nord, e che pochi grammi di piombo lo avevano steso bocconi sul selciato. Di quel giovane ti ho detto tutto quello che sapevo: ciò che di lui ho capito, o soltanto creduto di capire.
Ma, per una migliore comprensione, e una più penetrante lettura delle poesie, devi anche sapere che Salvatore Rudilosso non rivendicò politicamente l'azione delittuosa commessa, né si dichiarò prigioniero politico. "Io, qui dentro" mi disse "sono diventato un comunista ortodosso". E aggiunse: "Gli altri compagni, quelli dei partito armato per intenderci, sono compagni che sbagliano. 0 forse sono io che sbaglio? lo che ho potuto studiare così poco; che ho cominciato così tardi. Vorrei tanto leggere, capire, leggere".
Aveva problemi. Il Rudilosso da me conosciuto, che é poi quello delle poesie, era consapevole di avere infranto le regole del gioco e accettava di pagarne la posta; ma per quel tanto che gli spettava. Pretendeva il giusto: che i magistrati, nel giudicarlo, andassero "al di là delle focose apparenze". Come, peraltro, é preciso dovere di ogni saggio giudice .
Ebbene, nonostante il trattamento riservatogli dagli uomini e dalla malasorte con l'inflizione di una pena sproporzionata che fu dimezzata ai suoi due compagni ma non a lui, solo perché privo di poche migliaia di lire; nonostante tutto ciò (e se ben rifletti non é poco ma tantissimo) le poesie di Salvatore Rudilosso sono poesie senza odio.
Poesie ove circola soltanto una sofferta amarezza, che a volte si fa dolore totale, non solo per il proprio stato di recluso ma perché il poeta avverte l'insensibilità degli altri. Poesie scritte in un linguaggio semplice, essenziale, a volte scarno, mai astruso o tecnico, sebbene Rudilossso si fosse culturalmente formato sulle letture e sullo studio di storici, politici, filosofi; prevalentemente su scritti di Marx, Engels, Lenin, con la loro concettuosità, col loro rigore scientifico, ma anche con il loro linguaggio asettico, rigoroso, tecnico, tutt'altro che poetico. Aveva letto Evtuscenko, non Levi, Neruda e neppure Prevert, le cui opere mi aveva inutilmente richiesto. Scritte per non essere pubblicate ma, come mi disse "per fare piacere a me stesso" sono poesie in bilico tra ricordo e realtà, tra passato e presente, pervase da una malinconia mai languida e sdolcinata, sempre controllata, che nasce dalla piena consapevolezza del tempo non vissuto e, quindi, perduto per sempre.
Scrive: «Una parte di me va via, una parte di me non torna più». Né sollievo a quella malinconia, o al dolore, poteva trovare nel ricordo del passato, col suo "lungo serpente di fame", perché anch'esso era segnato dalla sofferenza, dallo sfruttamento suo e della vecchia madre che amò tenerissimamente. Probabilmente, molto probabilmente, queste poche poesie recuperate, pubblicate con grande sacrificio economico, lasceranno indifferenti i critici con la C maiuscola; le troveranno sciatte, incolte, politicizzate, filosofeggianti. Per mio conto, per la mia sensibilità, e per quel poco di esperienza che ho accumulato, presumo che lasceranno indifferenti i politici e tanti Magistrati e Colleghi (se mai le dovessero leggere).
Per molti, invece: per gli umili, i semplici, i vinti, i reclusi, per i sottoproletari come Rudilosso, per, quelli che portano marchiate sulla pelle l'esistenza e il peso di due ben differenti giustizie; per quegli altri ancora che le due giustizie combattono nella democrazia, o contro la democrazia, queste poesie saranno lette e sentite come un ristoro dello spirito e, al tempo stesso, come sprone all'azione: perché si realizzi un nuovo umanesimo.
Da ultimo, lettore, consentimi una confidenza. Ieri, oggi, sempre più spesso, mi accade di pensare a Rudilosso: quando, fra l'interessata complice indifferenza dei cosiddetti operatori del diritto, assisto alla veloce privatizzazione del processo penale; quando vedo Tribunali, Corti di Assise o di Appello infliggere anni e anni di reclusione senza un minimo di indagine psicologica sull'autore del fatto reato, senza un minimo di sforzo per capire quanta miseria materiale e culturale vi sia a monte di esso; quando leggo su quotidiani o riviste, o qualcuno mi dice in faccia con impudenza, che il carcere é un luogo di riposo, una vera pacchia per i reclusi; quando fisso gli occhi ebeti o furbastri di qualche scatenato delinquente, figlio legittimo di questa società, che si é dato allo sbando per vivere non nel possesso del necessario ma nello spreco di beni di consurno assolutamente inutili, e leggo, in quegli occhi, che morirà senza capire (come milioni di altri) quanto lui sia stato docile strumento di pochi burattinai, senza comprendere con quale sofisticato meccanismo, e soprattutto, chi, solo per un maggiore profitto, gli ha succhiato il cervello e strappato il cuore; quando nello studio mi siedono innanzi certi giovani, semianalfabeti nonostante i loro diplomi, certi infrolliti, che pretendono tutto, e ai quali troppo é stato dato dai loro genitori, e che hanno cominciato a fumare marijuana e presto si bucheranno; allora, per un istante, mi accade di pensare a Rudilosso. E mi sembra di rivederlo, con la sua gran voglia di sapere, di fare, di venire fuori dalla miseria; mentre, con sotto le braccia due fasci di libri legati con lo spago, si allontana, quasi di corsa, per non perdere la corriera.
Così, come l'ultima volta.

P. V.


Nota biografica

Infanzia e adolescenza di un proletario

La storia di Salvatore Rudilosso non é una storia eccezionale ma una banale storia di proletari, una delle tante migliaia di storie di predestinati (segnati da Dio?) come se ne possono trovare alla periferia di Catania o di Palermo, a Roma come a Cinisiello Balsamo, a Londra come nel Bronx di New York. Una delle innumerevoli "historie" di futuri emarginati, disoccupati e criminalizzati che ad un certo punto della loro vita sceglieranno dal menù che questo Stato offre loro l'una o l'altra delle seguenti, entusiasmanti, alternative "precotte": lavoro nero a vita o galera, carabiniere o operaio inquinato/inquinante, emigrante o apprendista di un apprendista qualcosa, subalternità o ribellione ecc. ecc. Similmente alle Parche della mitologia greca che filavano, tessevano e infine tagliavano i destini degli esseri umani, é lo Stato ai giorni nostri che programma, gestisce e infine spezza, a suo arbitrio, vite, speranze e morti di quanti hanno avuto la colpevole disavventura di non domiciliare in nessun angolo, nemmeno nella cuccia dei cane (e c'è anche quella) dei vari Palazzi del Potere. Il filo e la trama di Salvatore Rudilosso cominciano ad essere intessute il 7 aprile del 1956 a Floridia, una cittadina di cultura prevalentemente "modernista-emergente" in provincia di Siracusa o, indifferentemente, di Zurigo, se consideriamo gli impetuosi flussi di capitali da usura e altro che l'attraversano come un fiume. Salvatore Rudilosso frequenta sino alla quinta elementare la locale scuola "E. De Amicis" (neanche in queste storie - anzi soprattutto - in queste può mancare l'angolo del Cuore con i suoi Garrone e i suoi muratorini o piccoli trombettieri sardi che offrono allo Stato moncherini e buoni sentimenti) e di lui, sul libretto scolastico, verrà tracciato questo profilo:

«L'alunno Salvatore Rudilosso é un ragazzo molto intelligente, ma poco attaccato alla disciplina scolastica. Il suo sviluppo intellettuale dimostra spiccate qualità di apprendimento e di assimilazione, che non sfrutta e il suo rendimento non va oltre la sufficienza. Avrei voluto fare di questo allievo un alunno modello, conoscendo le sue doti intellettuali, ma non ho trovato collaborazione nella famiglia che poco si é interessata del figlio nelle attività scolastiche. Agli esami finali di licenza elementare ha superato le prove in tutte le materie dando un saggio della sua intelligenza».

Dopo che Salvatore Rudilosso consegue la licenza elementare la sua famiglia si trasferisce a Catania, sperando di trovare nella città quell'agiatezza economica che non aveva trovato a Floridia. Per potere continuare gli studi, il piccolo Salvatore viene messo in un collegio gestito, con i soliti metodi "pedagogici", dai preti. Di questo periodo, che durò tre anni, ce ne parlerà in seguito lo stesso Salvatore, in una delle tante testimonianze scritte, in equilibrio tra la poesie e la narrazione, che ci ha lasciato:

«Sono stato nella prigione dell'infanzia in cameroni freddi e chiusi. Ho studiato con la minaccia degli schiaffi ed ho mangiato nei refettori affamati sotto l'occhio dei guardiani che alzavano le mani sui bambini cattivi. In collegio ho pregato con la minaccia degli schiaffi ma non ho amato nemmeno Gesù perché con lui giustificavano la sofferenza di noi piccoli ribelli». E ancora: «Dal collegio fuggii alcune volte ma solo una volta riuscii ad arrivare a casa, dalla nonna che mi voleva bene tantissimo, dopo avere fatto 30 km a piedi e il resto col passaggio di una macchina. Sempre mi hanno riportato in collegio e quando vi rientravo avevo il nodo alla gola e la nostalgia mi piangeva nel cuore perché mi ricordavo quand'ero felice a Floridia, quando correvo fino a tarda sera per Piazza Marconi, per le strade, quando marinavo la scuola, insieme ai miei compagni, e andavamo ad esplorare le grotte con la paura dell'ignoto... Dal collegio uscii con la licenza media. Uscii da un deserto per entrare in un altro dove si impara a vivere con l'odio nel cuore per la propria esistenza».

Il giudizio finale su Salvatore Rudilosso, al conseguimento del diploma di terza media, fu così formulato:

«II candidato ha mostrato, durante il colloquio, di aver raggiunto un grado di preparazione culturale molto soddisfacente. Si é espresso con proprietà di linguaggio ed ha dimostrato buone capacità intuitive e di ragionamento. Durante le prove ha messo in evidenza un buon grado di maturità e di giudizio critico. Si consiglia il proseguimento degli studi».


Cittadino dello Stato a «pieni diritti»

Uscito dalla scuola media, Salvatore decide di iscriversi all'Istituto Commerciale "Olivetti" di Piazza Cutelli a Catania ma, con la famiglia in condizioni economiche disagiate, decide di trovarsi un lavoro che gli permettesse di continuare a studiare. Inizia l'impatto con il mondo del lavoro e le gioie del lavoro nero. Usciva da scuola alle 14 e alle 21 di sera lavorava come commesso presso una farmacia, il tutto per 4000 lire settimanali (era il 1972). Al quindicesimo anno di età, a cospetto di quel ritmo di vita, Salvatore Rudilosso fa la scelta che tutti i proletari, posti nelle medesime condizioni, alla fine compiono: abbandona la scuola per un lavoro più remunerativo, per gestirsi quegli spazi di libertà che per troppi anni gli erano stati negati dalle rigide e repressive regole del collegio e per aiutare la famiglia in difficoltà, nel cui ambito Salvatore sempre più assumeva il ruolo e le funzioni di capo-famiglia. Si impegna in tutta una serie di vari lavori: aiuto-camionista presso una fabbrica di materassi, poi alla "Meeter" di Piano Tavola come apprendista saldatore e infine cameriere in un albergo nel 1974. Di questo periodo in particolare della sua attività di apprendista saldatore, Salvatore ci lascia questo brano, in una delle sue poesie di vita vissuta:

«Ho conosciuto il mattino
arrabbiato dal sonno lasciato
l'acqua gelida sul viso stupito
caffè caldo provocante risveglio
col sacchetto di plastica passavo stanco
gonfio di miseria passeggera - pensavo
e la macchine veloci che spruzzavano fango
sulla strada addormentata
vestito nel blu di una divisa scolorita
macchiata di calce, polvere di ferro
inzuppata di odori, gas, gasolio
bruciacchiata da scintille di saldatura.
Ho conosciuto gli orari festosi
le trepide attese dei ventisette del mese
le buste numerate con entrate e uscite
biglietti di banca sciupati, pesati tra le mani sudate
era una gioia quel sudore creativo
eppure ero infelice
costruivo, costruivo
con sincero amore ma i frutti, i frutti che con trepida attesa aspettavo
tardavano a venire».


l'insicurezza e l'angoscia del lavorò nero senza futuro, della pura sopravvivenza senza sbocchi. La paura di vivere all'infinito una vita disagiata, come nel Settembre del '74 allorché Salvatore si troverà senza lavoro, disoccupato e nell'inerzia forzata. Sogni e progetti di una vita migliore, per sé e per la sua famiglia, azzerati! Dalla paura e dall'angoscia Salvatore Rudilosso passerà alla rabbia. Rabbia e ribellione verso una società che non permette agli ultimi di avanzare di un solo gradino. Il 28 febbraio 1975, a 19 anni, verrà arrestato per una rapina ad una banca e condannato a sette anni e sei mesi di carcere.

La rieducazione

Del primo periodo carcerario, e delle sensazioni immediate che il sistema carcerario dà alle sue vittime é sempre Salvatore Rudilosso che ce ne parla:

«I primi tempi il carcere mi incuriosiva più che impaurirmi, mi sembrava tutto così strano, buffo, a volte divertente ma questo accadeva perché non capivo niente. Quando si vive in uno stato d'incoscienza e spensieratezza non si riesce a percepire a fondo il reale di ciò che ci circonda. Ma é proprio la spensieratezza la prima cosa a scomparire dalla tua mente quando sei in galera e quando te ne accorgi scopri che la galera non é bella, non ti piace, é luogo che non si fa amare e di cui non si vuole nemmeno parlare. Ma la cosa bella dei primi tempi della mia prigionia era che mi divertivo a pensare a ciò che avrei fatto quando sarei uscito e così stavo bene coi miei sogni del futuro. Adesso, dopo aver passato tutti questi anni, mi sembra che questa cella sia sempre stata la mia casa e che la mia vita si fermerà per sempre qui dentro.
«E pensare che nei primi mesi quasi non pensavo a quella vita esterna che avevo lasciato e che era diventata un mondo (a me) separato e incomprensibile, non riuscivo a capire cosa avevo lasciato. Ci pensavo al mare, alle strade con le vetrine dei negozi e tutte quelle persone che sembravano formiche che andavano e venivano, ci pensavo alle ragazze cui andavo dietro per parlare un pò (con loro) e fare all'amore, ci pensavo alle discoteche, ai bar, al lavoro vecchio, alle persone che conoscevo, a mia madre, a mio fratello. pensavo a tante altre cose ancora ma erano pensieri sporadici che mi sfioravano solamente per un minuto».
«Poi man mano che il tempo e gli anni passavano incominciava a bussare la nostalgia alla mia memoria ma proprio allora i ricordi di uomo libero erano diventati sfocati, le immagini circondate di una nebbia, di una nebbia fotografica. Però erano sempre pensieri di uomo libero, di uomo che voleva avere ciò che aveva perduto. Ma ci si abitua a tutto ed il peggio é quando pensi troppo spesso alla libertà, é come un coltello nel petto, é come se ti tirassero i capelli; fa male la testa, gli occhi, ti assale la stanchezza e ti viene voglia di dormire, dormire per ore e ore in modo dà sfuggire alla galera. Ma la galera ti assorbe, ti risucchia nella sua realtà anche mentale per cui sarai prigioniero in tutto e per tutto.»
«Scompariranno i pensieri liberi e al loro posto ci saranno i pensieri della prigione; l'ora dell'aria, l'attesa della posta, l'orario della minestra; ti interessi a tutte le vicende interne al carcere e alle notizie di tutti gli altri carceri; ma malgrado questa sostituzione di pensieri qualche residuo di ricordi resta sempre, sarebbe difficile vivere senza ricordare e finché si ricorda qualcosa vuol dire che si vive (o meglio si vivacchia)».
«Quando mia madre veniva a colloquio non parlavo mai di carcere ma cercavo di farla sorridere con qualche battuta su qualcuno o qualche buffa storiella. Lei rideva ma dentro piangeva, io ridevo e dentro piangevo. Nei parlatoi delle carceri quando i detenuti fanno i colloqui si sentono molte risate ma io so che si piange più di quanto si ride. Ridere dà coraggio, fa dimenticare anche per un attimo la propria esistenza così soffocante dentro questo puzzolente cimitero dei vivi.»
«Malgrado tutto sono riuscito a regolare la mia vita dentro il piccolo spazio della cella in modo così perfetto, con orari di lavoro da scrittore, da pensatore, da cuoco, da lavandaio, da uomo delle pulizie. Vorrei anche fare il muratore ma non posso perché ho chiesto un piccone per abbattere questi muri, scavare fossi per poi riempirli nuovamente e poi nuovamente scavarli per passare il tempo con meno noia, ma appena il brigadiere ha sentito la mia richiesta mi ha risposto: "Ma lei é pazzo! Mi vorrebbe distruggere il carcere' ' lo gli ho risposto: "Mi scusi, non ci avevo pensato. Lei ragiona bene e ha ragione a lamentarsi per la mia richiesta del piccone". Adesso del brigadiere sono amico, é molto intelligente e buono ed io cerco di non farlo arrabbiare mai. Andiamo molto d'accordo».

Salvatore Rudilosso, immediatamente dopo la condanna per direttissima, erogata dal Tribunale di Siracusa, viene trasferito nel carcere penale di Noto, un edificio vetusto e cadente con bui sotterranei scavati nel tufò; un tetro luogo di detenzione la cui triste fama era seconda solo a quello di Volterra. E' qui, nel carcere di Noto, che Salvatore fa la conoscenza di Alberto Franceschini, del gruppo storico delle Brigate Rosse, e di altri militanti comunisti. Erano gli anni antecedenti al sequestro Moro, quando ancora non esistevano le carceri di "massima sicurezza" voluti dal gen. Dalla Chiesa per separare i detenuti politici da quelli comuni. Si credeva allora, da parte dei gestori del sistema carcerario, che inviando i vari Ognibene, Notarnicola, Franceschini ecc. ecc. nelle prigioni della Sicilia, sradicati dal loro ambiente, si sarebbero venuti a trovare, a contatto con i detenuti comuni siciliani, nel più stretto isolamento. Invece avvenne il contrario: il carcere divenne una sorta di università dei detenuti politici e i cosiddetti "comuni" finirono con il politicizzarsi. A Salvatore Rudilosso succede la stessa cosa. Dal contatto con i detenuti comunisti inizia a chiarirsi tante cose, comincia a leggere e a politicizzarsi. Perviene alla conclusione che in fondo la sua colpa non é tale poiché egli ha cercato semplicemente di vivere, di unirsi agli altri proletari e di non essere disposto a subire soprusi. Della sua avvenuta politicizzazione nel carcere di Noto fa fede il seguente brano:

«È il dovere di dover essere che mi insegna a vivere
senza la quiete nel cuore;
saluterò i mille e i mille Lenin con la mano della partecipazione
della non rassegnazione,
saluterò i miei compagni imprigionati
finalmente liberati.
A voi che non volete capire
spiegheremo tutto con la forza della nostra ragione.
Non vi preoccupate le giornate saranno dialettizzate;
noi non vogliamo fermare il tempo
in serate appassite
vogliamo camminare su strade sempre più chiare
e cambiare sempre cambiare».


Era inoltre fornito, e per sua fortuna, di un notevole senso dell'altruismo che gli recherà un mare di guai. A Noto, per essersi intromesso a difendere un detenuto nei confronti delle guardie carcerarie, subisce - nel buio della notte ed insaccato in una coperta gettatagli addosso per nascondere il volto degli assalitori - un pestaggio a sangue. Da Noto verrà trasferito prima a Termini Imerese ed infine, subito dopo, alla Pianosa. E a partire da quest'ultimo trasferimento che Salvatore Rudilosso sente l'esigenza di parlare di sé attraverso l'annotazione dei suoi ricordi ed il linguaggio della poesia, allorché: «Ormai era in carcere senza il coraggio e la spavalderia dei vent'anni, quando c'erano momenti in cui si sentiva morto senza essere morto, quando a volte pensava al suicidio come al modo migliore di finire la prigione, quando nessuno lo ascoltava perché lui era nessuno, quando l'angoscia lo assaliva all'improvviso».

Il carcere diffuso

Salvatore Rudilosso uscì dal carcere e tornò a Floridia, il paese della sua infanzia (dove la famiglia - dopo la parentesi catanese - era andata ad abitare) con l'obbligo di sottoporsi alle rigide prescrizioni della libertà vigilata per un periodo di cinque mesi. Aveva anche l'obbligo, tra l'altro, di doversi presentare al centro di servizio sociale di Siracusa. Vi si recò soltanto due volte perché, l'ultima volta che vi era andato, aveva chiesto ad un assistente sociale di aiutarlo a trovare un lavoro, ricevendone come risposta un secco: "Questo non rientra nelle nostre mansioni".
Il fratello M., legato a Salvatore da affetto e stima profondi, ricorda ancora la reazione e la rabbia di Salvo al ritorno dal centro di servizio sociale:
«Le stirpi condannate a cent'anni di solitudine non avranno mai una seconda opportunità sulla terra». La frase con cui si chiude il libro più noto di G. Garcia Marquez.
Alla fine dei cinque mesi di libertà vigilata Salvatore Rudilosso si ritrova esattamente nelle stesse condizioni di sei anni prima, quella medesima, identica situazione che lo aveva portato a "violare" le regole sociali: senza un lavoro decente, senza alcuna prospettiva di trovarlo e con l'aggravante del "marchio" di ex detenuto. Inizia il suo impatto con il "carcere diffuso". Si sentiva truffato, derubato della sua libertà, deluso nella sua voglia di vivere. Per anni ed anni aveva sognato quei momenti ed ora si trovava nuovamente recluso, prigioniero delle regole sociali. Un tunnel nero piastrellato di frustrazioni quotidiane senza uscita che Salvatore così descrive, sfogandosi:

«E finalmente conosci la
libertà sognata
persa
scordata
ritrovata
afferrata
e scopri quanto sia scivolosa noiosa
assurda feroce
triste
inutile disperata
e così ti aggrappi nuovamente
ai sogni, alle voglie, ai desideri

.......

Più tardi sarà l'ora del rientro
dentro pareti domestiche costruirai
il tuo angolino prigioniero
perché lo vuole il senso comune
così vuole la legge scritta per te
da altri che non hanno nulla di te
ma che della tua vita
hanno fatto ciò che non piace a te».

Era anche deluso della lotta politica e i motivi non sono ben chiari.
Dopo il periodo della libertà vigilata Salvatore andò nel Nord Italia per incontrarsi con una delle sue amiche e conoscenti. In primavera s'incontrò, a Torino, con Marcello Ghiringhelli che faceva parte del gruppo militarista delle Brigate Rosse, per un suo ingresso nell'organizzazione. Non si conosce il contenuto dei loro discorsi, di sicuro si sa soltanto che Ghiringhelli aveva invitato Salvatore a pazientare ancora per un pò di tempo. L'unica supposizione che si può dedurre é che, proprio in quel periodo, la brigata, dal punto di vista logistico e forse strategico, era in pieno marasma.
Correva infatti il 1980, l'anno in cui era stato arrestato il capo colonna Patrizio Peci che, con le sue dichiarazioni, permetterà ai nuclei antiguerriglia del gen. Dalla Chiesa di arrestare decine di brigatisti, molti dei quali saranno massacrati a colpi di mitra durante il blitz nel covo di Via Fracchia a Genova (furono uccisi Roberto Dura, Cecilia Ludman, Pasquale Panciarelli e Antonio Betassa). Di questa strage, dei dubbi che sollevò nella coscienza democratica dell'opinione pubblica e dell'atmosfera da anni di piombo, Leonardo Sciascia dirà sul settimanale "L'Espresso"del 20 febbraio 1983:

« ... Molti sono i punti della vicenda Peci che non mi convincono; e non ultimo quello dell'uccisione dei brigatisti in Via Fracchia, a Genova. Non sono per nulla convinto, voglio dire, che quelle persone non potessero essere catturate vive e senza rischi per quei carabinieri che partecipavano all'azione. Né posso ammettere che un corpo di polizia bene addestrato, quale il gen. Dalla Chiesa diceva fosse il suo, si fosse fatto sfuggire Peci una prima volta semplicemente perché la casa in cui Peci abitava aveva due porte. "Elementare" direbbe non Sherlock Holmes ma qualsiasi sottufficiale dell'arma, "quasi tutte le case hanno due porte".


È proprio in tale momento di disorientamento e di confusione per le B.R. che Salvatore Rudilosso avrebbe forse voluto entrare a far parte della colonna di Torino. Questo molto probabilmente il motivo dell'incontro di Salvatore con Ghiringhelli e la successiva delusione. In seguito, qualche anno dopo, M. Rudilosso, il fratello minore di Salvatore - nel tentativo di ricostruire un aspetto della vita del fratello morto che presentava lati ancora oscuri - ha chiesto a Marcello Ghiringhelli cosa, in effetti, si siano detti in quell'incontro con Salvatore. Ghiringhelli risponderà dal carcere in cui e' detenuto attualmente:

«Salvo era un comunista, anche se le circostanze in cui é caduto (a morte) non sono lampanti di questo suo essere. Con Salvo ci siamo incontrati e abbiamo parlato a lungo, era pieno di vita e di voglia di combattere per il comunismo. Ma purtroppo una serie di fattori non hanno permesso che questa sua aspirazione si realizzasse ... ».


Quali siano stati questi "fattori" probabilmente, come già abbiamo detto, non lo sapremo mai. Di certo si sa che Salvatore Rudilosso non accetta di «dover attendere la maturazione delle cose» (sono, anche queste, parole di Ghiringhelli nella sua lettera al fratello di Salvatore) e si ritrova sfiduciato e amareggiato, come se fosse venuto a mancare un punto di riferimento essenziale nella sua vita.
Non ritornerà in Sicilia che saltuariamente. Nel contempo aveva trovato ospitalità presso una sua amica di Padova. In questo periodo lavora come lavapiatti in un villaggio turistico di Jesolo, ci lavora tutta l'estate per poi ritrovarsi, come al solito, senza lavoro e disoccupato. A questo punto della sua vita Salvatore Rudilosso ha 25 anni, non ha un mestiere, non sa che fare, nessuna speranza di un futuro migliore perché chi esce dal carcere non può partecipare neanche a un concorso pubblico come spazzino. Tuttavia non si arrende, non si lascia andare alla deriva.
«Meglio vivere un solo giorno di vita intensa, di libertà, d'allegria, d'amore, che tutta una vita vissuta a metà, sfiancata giorno dopo giorno dai problemi economici. I soldi non devono essere lo scopo della mia vita, bensì il mezzo per non vivere una vita grigia». Sono parole sue.
Ma é anche consapevole che la società finisce col reprimere chi non sta al suo posto e prevedendo lucidamente il suo futuro - forse ha già fatto la sua "scelta" scriverà alla sua ragazza:

«Ho camminato sulla morbida terra, solcato il terreno straniero del
mio sogno
Ho guardato,
aspirato
ad un giorno incantato
ben sapendo che me ne andrò
un mattino con il viso bagnato».

E poi ancora queste brevi frasi che aveva iniziato a scrivere ma poi aveva cancellate:

«In silenzio guarderò un sole che non vedrò»
« ... Già mia madre
mi aspetta
nel silenzio dell'attesa
ma quel giorno non avrà».


Salvatore Rudilosso muore alle 18.45 del 3 novembre 1981 a Ponte S. Pietro (Bergamo) in una rapina ad una gioielleria mentre cerca di soccorrere un suo compagno ferito a morte.
Viene raggiunto da quattro proiettili blindati, sparati da una 38 Colt, tra cui alcuni alle spalle.

Antonio Mangiafico


Alcune lettere di Salvatore Rudilosso

Caltanissetta 7/11/1979 Caro Avvocato,
rispondo alla tua lettera del 31 ottobre. Noto con piacere il modo schietto e onesto nell'esporre le cose e questo mi da fiducia nei risultati che otterrò con il tuo aiuto. Te ne sono grato. Dunque vengo ai punti della lettera. Si, è vero che ho fatto male nel fare ricorso il 21-22 maggio ma ciò è stato dietro consiglio di... (di cui ho già parlato nella lettera precedente). Mi è stato già notificato il mandato di esecuzione della sentenza giorno 26 ottobre, ed ho già fatto l'istanza dei 40 giorni. Però dato che la notifica non è avvenuta contemporaneamente anche per l'ufficio matricola del carcere (per cui per loro risulto non definitivo), io ho inviato l'istanza per posta, alla corte di appello di Caltanissetta inviando pure il foglio a me notificato. (Credi che l'accetteranno?)
Riguardo alla mia condotta in carcere, non c'è niente di eccezionale dal punto di vista giuridico (che, a mio avviso, dovrebbe essere quello che interessa alla magistratura). Cioè non ho mai avuto rapporti per oltraggio ad agenti o per altro. Solamente sono rapporti di natura politica in quanto ho fatto parte di delegazioni rappresentanze di tutti i detenuti) in occasione di pacifiche proteste avvenute nel carcere di Noto, e sono schedato come militante Comunista (che d'altronde non ho mai rinnegato di essere e che non ho intenzione di rinnegare anche a costo di non usufruire dei 40 gg: d'altronde pretendere ciò sarebbe troppo); non so se condividi questo mio atteggiamento. Quando sono arrivato qui ho affermato subito al maresciallo del carcere il mio impegno politico dicendogli chiaramente che se mi impediva di avere i miei libri portati e quelli eventualmente in arrivo, poteva mandarmi subito anche in uno speciale in quanto non avrei accettato nessun sequestro di materiale che serve per il mio studio. Lui mi ha fatto un discorso che suona pressappoco così: "Non mi interessa ciò che leggi o ciò che pensi; mi interessa il tuo comportamento quindi potrai tenere tutti i libri che vuoi e riceverne: l'importante è non creare fastidi". A me così sta bene. Per quel poco che mi resta preferisco approfondire la mia preparazione teorica e lo studio, piuttosto che ritardare la mia uscita: i compagni servono fuori non dentro. Per cui se giudizio negativo ci sarà da parte dei giudici di Caltanissetta sarà esclusivamente un giudizio politico cioè un processo alle idee perché non c'è nessun motivo valido per rifiutare l'accettazione dei 40 giorni. L'immensa intelligenza della nostra magistratura è applicata contro la classe oppressa e sfruttata in quanto essi sono i difensori degli interessi della classe dominante. Nella democrazia borghese è stato e sarà sempre così. Per quanto riguarda la semi-libertà tutto è inutile in quanto il mio reato ne è escluso e poi non ci sono i presupposti per farla. Importante è la questione del condono in quanto pochi giorni fa ho letto la gazzetta ufficiale in merito ed ho notato che per rapina aggravata non si applica qualora ci sono l'aggravanti del comma 2 e 3 ma nel caso del comma 1 se ne applica un anno. Tu mi dici che mi spetta sicuro un anno per la continuazione (art. 8 1) ma allora se così fosse mi spetterebbero due anni. Ti prego di studiare attentamente la possibilità di fare l'istanza per 2 anni di condono. Se ti è possibile farla prima della fine di novembre così potrei ottenere il condono prima delle feste natalizie, altrimenti se ne parla dopo. Per la condizionale vuoi informazioni sulla mia vita. Sai, mi metti in imbarazzo perché la mia memoria si è un pò annebbiata. Sono giovane, ho vissuto poco ma quel poco è stato ed è così intenso e doloroso che non riesco a ricordare determinati anni della mia vita. A parole riesco ad esprimermi meglio.
Comunque tenterò qui di fartene un sunto, che cercherò di approfondire nella mia prossima lettera. Preferirei avere però un colloquio. Per le spese ti farò avere alla prossima settimana qualcosa da mio fratello Cesare con vaglia. Sai anche lui da un anno è in carcere però lavora e può disporre qualcosa. Ritornando al discorso sulla mia vita. La mia famiglia ha sempre vissuto in condizioni di miseria, formalmente ho un padre ma praticamente non l'ho mai avuto, ho subito la triste esperienza del collegio (che è stato un carcere per certi versi peggiore di quello attuale) nel quale ho preso la licenza media.
Uscito di collegio vado ad abitare a Catania con la mia famiglia in un sottoscala (via Macallè) che era una vera fogna, con topi, uno stanzino con il cesso grande quanto quello del carcere (lo stanzino), mia madre faceva la portinaia e lavava le scale. A quel tempo ho fatto l'esperienza di studente lavoratore, andavo all'istituto Tecnico Commerciale Olivetti a piazza Cutelli. Figurati che uscivo di scuola alle 14 e alle 16 andavo a lavorare in una farmacia fino alle 9 di sera (guadagnavo 4 mila lire a settimana) Quindi tornavo a casa e dovevo studiare, credimi un ritmo infernale; non ce la facevo. Lasciai la scuola prima che finisse l'anno (mi pare 1972) e pensa che fui soltanto rimandato in alcune materie benché gli ultimi tre mesi non frequentai la scuola. Andai a lavorare in una fabbrica di materassi (3 Zeta, 40 mila al mese) e facevo anche l'aiutante camionista, cioè si trasportava la merce nei rivenditori in tutta la Sicilia.
Il ritmo era questo: alle 8 andavo in fabbrica (un vasto scantinato con l'aria irrespirabile) all'una si smetteva per ricominciare alle due fino alle cinque questo in teoria perché ci facevano fare sempre straordinario a 200 lire l'ora. Poi tre volte la settimana a mezzanotte partivo con il camion (1000 a notte) per una provincia (Palermo o Trapani). Cioè si partiva per la località più lontana (a quel periodo non esisteva l'autostrada Catania-Palermo) in modo d'arrivare prima dell'apertura dei negozi, così al mattino si incominciava da lì e poi negli altri paesi o città, si ritornava sempre verso le cinque o le sei del pomeriggio. Quelle famose 1000 lire servivano per i caffè la colazione ed il pranzo. Che pacchia! L'indomani mattina ritornavo al lavoro.
Mi trovai un altro lavoro in una piccola ditta di impianti di riscaldamento. Il padrone era un gran figlio di puttana, un geometra che girava in Alfa 2000 e pelliccia. Mi alzavo la mattina alle cinque (si andava in cantieri di Siracusa) e tornavo a casa alle otto di sera. La mattina prima di andare a lavorare aiutavo mia madre a lavare le scale. Pensa che gli automezzi della ditta camminavano a spinta (scene pittoresche: spingere un camion sotto una pioggia torrenziale, a volte per mezz'ora); non ricordo quanto guadagnavo (mi pare 12.000 a settimana). Poi trovai lavoro alla Meeter di Piano Tavola, qui era una cosa più seria ma la solita sostanza, lavoravo come un mulo per 75.000 mila lire al mese (però ero felice quando prendevo la busta paga con tutti quei numeri e trattenute). Ero orgoglioso di questo lavoro (mi alzavo la mattina alle sei e tornavo alle sette di sera) e mi piaceva, avevo la tuta mi dava una certa soddisfazione vedere il mio lavoro concretizzarsi in grossi complessi industriali e in grandi palazzi. Ma a casa la vita era dura (davo a mia madre 40.000 al mese) avevamo cambiato casa, uno scantinato in via Lago di Nicito (25.000 di affitto) grande ma molto umido e al solito senza bagno, solo il cesso. Facevo la doccia in quelle pubbliche in Piazza S. Maria del Gesù.
Il lavoro mi ostacolava anche i rapporti sentimentali molto importanti per un giovane di quasi 18 anni e poi dovevo almeno vestirmi in modo decente. Comunque dopo quasi un anno alla Meeter presi la liquidazione e assieme con altri miei amici andai ad Alassio (Liguria) a lavorare in un grande albergo come cameriere; vitto, alloggio e 125.000 lire al mese però lavoravo dalle 7 di mattino fino alle nove di sera, la notte uscivo (lì d'estate la vita inizia di sera) per andare con qualche ragazza nelle discoteche. I soldi mi bastavano perché non avevo molte pretese e me ne andavo a casa. Ma la stagione finì. È stato l'unico periodo bello della mia vita perché lì era un ambiente diverso dal nostro (almeno così mi pareva allora).
Ritornai a Catania (questo fu a settembre del '74). Ad Alassio avevo avuto una cotta per una inglesina di Londra e ci scrivevamo, io volevo farla venire a casa mia ma mi vergognavo a portarla dove abitavo. In più le cose a casa peggiorarono mio padre era disoccupato, mia madre faceva una vita da cani e lavorava in una ditta di poltrone per 40.000 al mese. Mio fratellino M. essendo piccolo aveva bisogno pure di far fronte alle sue esigenze. A casa mia non c'era neppure il televisore. Fu così che rimasi un pò senza far niente e poi mi buttai. Non ho risolto niente, anzi. Una istintiva rivolta individuale dettata dai bisogni. Questa in sintesi la mia vita. Una storia come tante che piace alla demagogia borghese per farci qualche romanzo, strappare qualche lacrima e lavarsi la loro sporca coscienza. Così credono. Senti, quando ho fatto la rapina in banca, avevo preso nel cassetto coi soldi la patente del cassiere. Mi disse che c'era il suo stipendio e glielo diedi. Perché non ho mai pensato di rubare a un lavoratore. Non abbiamo usato nessuna violenza fisica. (Anzi sono stato io che in caserma dei CC di fronte ad un colonnello, un capitano ed il questore di Siracusa in persona ho subito quasi una nottata di pugni, calci, sputi e altre umiliazioni. Questo te lo dico così, a titolo informativo, perché non serve denunciarle queste cose). Ma con tutto ciò hanno fatto di tutto per rovinarmi completamente.
Invece il carcere mi è stato da un lato senz'altro utile: mi ha fatto acquisire (per volontà mia) una coscienza politica ed una maturazione ideologica che mi servirà molto per il futuro. In carcere quando me lo hanno concesso ho lavorato. A Pianosa ho fatto l'imbianchino e mentre lavoravo è caduta l'impalcatura (puoi immaginare com'era) subendo tre fratture al braccio sinistro; questo nell'ottobre del 1978. Ho tenuto il gesso fino al gennaio del '79 (quasi tre mesi) ed adesso che arriva l'inverno ne sentirò di dolori. In più è peggiorata la mia vista e avrei bisogno di una visita specialistica (non la solita con il tabellone a distanza). Questo può essere utile per la condizionale perché provabile. Ma il maggiore ostacolo è la mia politicizzazione. Sebbene i miei libri sono testi di Marx, di Lenin, Gramsci, Engels, trattati di economia, ecc., tutto regolarmente in vendita. Comunque termino questa un pò lunga lettera. Mi auguro che non ti abbia rubato del tempo prezioso. Un cordiale saluto.

Salvatore Rudilosso



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Caltanissetta 29/1/1980 Caro Avvocato,
oggi mi è stata fatta una perquisizione durante la quale mi è stato sequestrato: alcune lettere fra le quali quelle scritte da te; otto quaderni di appunti su argomenti politici, in cui vi è di tutto, filosofia, economia, poesie. Tutti scritti che hanno avuto lo spunto da lettere di libri di Marx, Lenin ecc.; due piccoli blocchi notes in cui vi sono indirizzi di carceri, titoli di libri, insomma roba che non so per quale motivo possa servire alla magistratura; alcune cartoline di gente che conosco in carcere in cui mi inviano i loro saluti. Tutto questo è stato fatto per disposizione della Procura di Siracusa. Ora, per fare questo vuol dire che c'è un procedimento penale nei miei confronti. Ma con quale imputazione?
Visto che a me non è stato comunicato niente.
Se puoi saperne qualcosa te ti sarei grato.
Cordiali saluti

Salvatore Rudilosso



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Caltanissetta 28/4/1980 Caro Avvocato
L'idea di farmi quest'estate ancora di carcere é troppo per me e sono talmente pessimista che non credo che qui a Caltanissetta potrò ottenere un pò di giustizia. Ne ho avuto la prova per la famigerata sentenza sui quaranta giorni. La degradazione di questa tanto declamata "democrazia" non ha limiti. (Magari qualche zelante poliziotto in questa frase troverà la giustificazione del mio trattamento e lo spunto su una indagine "contro un terrorista" ma la dico con la coscienza di non esserlo. E poi non si può vivere con la paura di scrivere qualcosa che si pensa solamente perché a qualcuno non piace. Pensino quello che vogliono, io me ne frego dei loro giudizi). Sto cercando di ottenere il trasferimento per il mandamento di Floridia dove almeno posso fare qualche colloquio ma anche questo mio diritto non so se mi sarà concesso. L'istanza é già arrivata a Palermo il 10 di questo mese.
Da un pò di tempo sto maturando l'intenzione di prepararmi per iscrivermi all'università (sono indeciso su quale facoltà) ma non avendo un programma di studio ben preciso mi riesce difficile farlo. Non ci sarebbe un professore che mi darebbe un aiuto a ciò?
Lo so chiedo sempre troppo, ma non posso passare il tempo ad aspettare la libertà che non arriva e devo pur utilizzare nella maniera migliore ogni mese di carcere che faccio anche perché ritengo necessario lo studio in quanto l'emancipazione sociale dell'uomo deve essere anche emancipazione culturale. Quello che conta é la volontà ma solo con questa non posso riuscirci.
Credo di non aver altro da dire. Chiudo qui.
Un cordiale saluto

Salvatore Rudilosso



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Giugno 1980 (?) Cara N.,
è già il terzo foglio su cui tento di scrivere qualcosa sono a letto (non è che posso stare in qualche altro posto) ed è pomeriggio di sabato 2 3, la tua lettera è qui da ieri, l'ho letta due volte: mi sembra assurda la tua infelicità ' hai passato un mese di vacanze da far invidia anche a un milionario (figurati a me che sono in quattro metri quadrati di spazio).
Certo comprendo la nostalgia che ti assale come anche il fatto che io da qui guardo le cose esterne sotto una dimensione diversa per cui anche una passeggiata in riva al mare per me diventa un avvenimento grandissimo.
Ah! Dimenticavo quasi di dirtelo: mica devi scrivermi controvoglia spezzando l'atmosfera da festa delle tue vacanze; quindi scrivi solo quando lo vuoi veramente d'altronde mi sono accorto che cambia poco la mia giornata ricevere una lettera oppure no. Ci sono momenti in cui non ho voglia di parlare nemmeno con me stesso, vorrei stare solissimo senza sentire niente; né voce, né rumore, nemmeno l'aria. Sto diventando impossibile, sempre a scrivere lamenti a parlare di carcere come se in questa cella il tempo si sia fermato, cristallizzato, in eterno, e che questa sia la vita di tutta l'umanità e al di fuori di qui, non ci sia più nulla. Passo da momenti di grande entusiasmo in cui cerco di fare un sacco di cose. Volevo iniziare uno studio sulla Rivoluzione Francese argomento vecchio ma sempre interessante; avevo fatto l'abbozzo di un saggio sulla Riforma carceraria e sul carcere ma ho scritto in fretta e furia l'equivalente di 20 pagine dattiloscritte e le ho lasciate così come le ho cominciate; volevo ripassarmi un pò di economia politica, di cui non ricordo più niente, per poi studiarmi un trattato sull'argomento in due volumi; volevo continuare a studiarmi Marx; volevo scrivere qualcosa su alcuni romanzi che ho letto recentemente; volevo fare un'analisi sulla situazione politica attuale che stiamo vivendo in Italia ecc; addirittura volevo scrivere anche un libro sulla vita carceraria una specie di romanzo - invece non riesco a fare un cazzo perché ci sono attimi di angoscia in cui brucerei tutto: l'unica cosa che riesco a fare è leggere sempre anche se poi, dopo avere letto cento pagine di un romanzo se mi domandano cosa ho letto non saprei dire il contenuto del libro; poi faccio poesie che scrivo così all'improvviso tanto da non rendermi conto di scriverle se non dopo averle scritte; poi i pornografici stanno diventando un'ossessione. Insomma sto rincoglionendo completamente e con consapevolezza (bella coscienza di essere!) Mi rendo consapevole del fatto che chi legge le mie letture non può fare a meno di pensarmi un pò scoppiato ma anche di sentirsi un pò colpevole se non mi scrivesse come dire: "poveraccio! Soffre molto e non è giusto non scrivergli".
Mi fermo qui - per ora - meglio fumarmi un paio di sigarette e riprendere a scrivere più tardi quando sarò in un momento più felice (una felicità poverella poverella) perché è chiaro che non vivo ma comunque cerco di tirare avanti lo stesso.
Adesso saranno quasi le dieci di sera sono abbastanza calmo e ho riletto la tua lettera ci sono un mucchio di spunti per vari argomenti; a guardare bene (non sono però uno psicologo e quindi posso sbagliarmi) malgrado conosci un sacco di gente sembra che tu sia tremendamente sola ma non so capire il perché. L'infelicità ha mille volti come la solitudine. Sempre in eterna lotta col denaro e quasi vuoi andartene dall'Italia ma non credere che in Africa trovi sempre la pacchia. lo ho enormi problemi di denaro qui dentro che ci vuole molto meno che fuori per vivere (pensa che a volte non ho i soldi per le sigarette e i bolli) figuriamoci quando sarò fuori. Ma fuori il discorso cambia perché è chiaro che se non trovo lavoro, fuori vivere mi autofinanzierò con le banche. Continuando così questa lettera non la finirò mai, oggi domenica 24 e l'inizio del pomeriggio e sono qui a cominciare a riscrivere, fa caldo umido pericoloso con l'aria che rimane immobile e questo da un senso di soffocamento. Meno male che questa schifosa estate sta terminando (ovviamente fuori c'è chi vorrebbe il contrario).
Devi essere un pericolo pubblico quando fai l'amore per ricevere tante proposte matrimoniali (la sessualità ha una importanza enorme malgrado si dica che "è l'intelligenza che conta") quei compagni marocchini si saranno sentiti nell'alto dei cieli con una donna libera come te accanto. Capisco molto i loro problemi con le donne perché ce ne sono di simili anche in Sicilia (seppure in realtà molto differenti) basti pensare che la Sicilia è stata anche sotto la dominazione araba per cui i residui di cultura e costumi arabi si sono diluiti nel tempo ma perdurano sulla loro influenza. Il discorso porta lontano e sarebbe molto interessante studiare a fondo questa particolarità della Sicilia. In Sicilia il pensiero arabo ha molti simpatizzanti (non certo tra le classi sociali più povere) e ci sono contatti molto stretti con alcuni paesi arabi soprattutto la Libia.
A proposito di donne (cazzo quanto si soffre senza di voi!) e di matrimonio: c'è una "ragazzina" (faccio offesa se la metterei senza virgolette, merita di essere chiamata Donna con la D maiuscola) con cui mi scrivo da un paio di mesi, ha 15 anni quasi superati, è di Bologna. Femminista, cristiana praticante, radicaleggiante, ama la filosofia, la poesia, la letteratura; una mente geniale per la sua età. Però... troppo idealismo, soffocante come una piovra. "Sei il mio sole", "io e te felici per l'eternità" ecc. insomma quella già pensa al matrimonio, ai figli (lei vede rose e fiori dappertutto) malgrado le ho detto di non farsi troppe illusioni su di me e che a queste cose, per ora, non ci penso nemmeno. Parlo ai muri; voleva che gli scrivessi ogni giorno ma lo feci per due giorni e basta e lei giù a tempestarmi di cartoline, di "Amore mio perché non scrivi?". Mi sta mettendo in imbarazzo. Certo, le voglio un pò di bene ma di quel bene verso cui si può avere un pò di compagnia nulla di più.
Il fatto è che qui tutto ha un dimensione astratta anche i sentimenti, l'unica cosa concreta è quello che hai davanti agli occhi il resto invece sono cose lontanissime che non trovi nemmeno con la memoria del passato e quindi "voler bene", "amore", ecc. sembrano stati d'animo sconosciuti che magari senti dentro di te ma non riesci neanche a spiegarteli. È come se fossi tornato bambino stupito da ogni piccola (scusa non so continuare il discorso, non trovo le parole adatte meglio cercare di parlare d'altro).Ma cosa devo dire? Le parole servono a ben poco, non danno nulla ed è la ripetizione degli stessi vocaboli che sintetizzano molte cose ma non c'è nessuno che le ascolta attentamente e ne cerca di trarre almeno una riflessione. Ho ricevuto tante lettere, chi grida all'eterna ed autentica amicizia, chi espone le proprie angosce esistenziali, chi mi riempie la testa di proverbi "il tempo è galantuomo"; la coda è dura da scorzare"; "coraggio che tutto passa anche se quando si sta male sembra l'opposto" ecc. ma appena provi a domandare un aiuto concreto: mi dispiace, cazzi tuoi, un conto sono le parole (costano poco e quindi: tutto gratis) un altro i fatti, ed è di per sé sbagliato pretendere di più. Così si scopre che scrivere e "consolare" chi sta peggio di noi in realtà serve a consolare se stessi, a ridimensionare la propria condizione che a paragone dell'altro sembra la più felice della terra, un modo inconscio di dire "V'è chi sta peggio di me".Comunque si impara sempre di più. Ci resta almeno questo di positivo.
Che divertimento! Ma si! si tira avanti e si sta come una corda tesa che cerca di resistere ad un pesante peso fin che può, poi quando non può fare a meno di cedere cede e tutto finisce; non è nulla di straordinario è semplicemente la dimensione umana delle persone che proprio per questo si chiamano persone, altrimenti sarebbero robot meccanici indistruttibili.
Malgrado questo mi consola il fatto di non essere diventato misantropo e credo ancora alle idee morali di una società fatta da uomini e per uomini dove si possa vivere liberi e felici cioè credo ancora nel Comunismo tenendo presente i fallimenti avvenuti dove si è tentato di realizzarlo e che non sono un buon motivo per rinnegare i principi ma anzi una lezione che ci faccia capire dove si è sbagliato e perché evitando così di ripeterne gli errori. Bisogna sapere essere coerenti con se stessi evitando di farsi sopraffare da quei momenti di cupa tristezza e scoraggiamento che ti fanno venire voglia di mollare tutto; è questo che vogliono i porci al potere e se credono che ci riescono con tutti si sbagliano di grosso.
Cosa credono, di tenere impunemente e tranquillamente migliaia di Comunisti nelle carceri per tutta la vita e di farli morire lentamente? Oltre l'ideale, ad alcuni compagni mi lega un profondo legame di amicizia e sarebbe una vigliaccheria lasciarli marcire dentro le galere, proprio da parte mia che conosco cosa significa ciò ma non dai racconti o da astratte teorizzazioni sul vivere in carcere ma da una esperienza che mi ha fatto perdere tutta la mia gioventù qui dentro.
1 giudici, i poliziotti delle varie specie, gli uomini politici la classe dominante tutta non deve poter dormire sonni tranquilli finché uno solo dei compagni resta loro ostaggio.
Sarà dura ma lo sarà per entrambe le parti perché se vittoria ci sarà da parte dei porci questa deve essere vittoria di Pirro. Le stragi fasciste, gli assassinii ai posti di blocco, i blindati, i lager, le condanne di secoli di carcere, il terrore psicologico e fisico sui prigionieri, i licenziamenti per odore di "sovversivo" (per non parlare della disoccupazione dilagante che è strutturale al sistema economico-politico del capitalismo) ecc. possono provocare smarrimenti e riflusso ma fino ad un certo punto. Anzi sono questi effetti che devono spingerci ad aprire di più gli occhi su cosa sia realmente questo stato di merda che da dare non ha più nulla oltre alla repressione più spietata e ai livelli di vita sempre più duri che ci impone con la forza. Riforme? Piombo, cara mia, il linguaggio del fucile è internazionale e lo capiscono anche le più dure "teste di cuoio" e serve a ben poco riempirsi la bocca di parole contro la "violenza". C'è violenza e violenza e le differenze non si possono ignorare.
Senti questo racconto siciliano che un vecchio mi raccontò un poco di tempo fa:"Durante la seconda guerra mondiale in Sicilia (come in tutta l'Europa) c'era la fame più nera e i contadini non riuscivano a vivere nemmeno col lavoro. Il grano veniva imboscato dai latifondisti e grossi proprietari terrieri e così pure l'olio, il sale, ecc. Un contadino aveva due figli e sua moglie da mantenere e pur avendo un piccolo appezzamento di terreno che lavorava per sé non riusciva ad andare avanti (e lui era un privilegiato perché c'era chi non aveva nemmeno quello) quindi faceva altri lavori a giornata e veniva pagato con la lira (cosa non piacevole perché era meglio essere pagati con olio, farina, pasta, zucchero, caffè ecc. in quanto anche ad avere i soldi non si riusciva a comprare il necessario). Come al solito ci fu il periodo in cui finì tutte le scorte da mangiare, quindi con le lire mandò suo figlio più grande (che aveva dieci anni) da un grosso proprietario terriero che viveva in una fattoria in campagna ed aveva grosse provviste di roba. Il ragazzino se ne andò, con i soldi, per questa fattoria che si trovava quasi ad un chilometro di distanza da casa sua. La fattoria era recintata con paletti e filo spinato e l'accesso nello spiazzo era libero in quanto non c'era cancello e l'entrata era sorvegliata da cinque cani che al via del padrone si buttavano addosso a chiunque entrasse, però se il padrone non diceva niente loro (i cani) rimanevano calmi e sdraiati a terra. Quando il ragazzino stava per entrare nella fattoria qualcuno della casa cominciò a gridare ai cani: "pigghialu, pigghialu" (che significa "prendilo, prendilo") i cani si misero a correre verso il ragazzino che cominciò a scappare tutto impaurito e a stento ce la fece perché un cane riuscì a strappargli i calzoni proprio quando lui cominciò ad arrampicarsi ad un albero. Comunque tornò a casa e il padre appena sentì la storia dei cani lo rimproverò: "Scimunitu u patruni autu a chiamari" (scemo, il padrone dovevi chiamare).Ora, il proprietario della fattoria usava quei cani per mandare via chiunque si presentasse al cancello della fattoria e che lui appena vedeva che non era conoscente intuiva che era qualche poveraccio che veniva a chiedere elemosina oppure qualche contadino che voleva comprare roba da mangiare e lui non la dava a nessuno tranne che grossi quantitativi per il mercato nero.
Il contadino decise di andare lui alla fattoria, prese i soldi e ci andò. Quando arrivò davanti al cancello non ebbe il tempo di gridare "Hei, cumpari!" che subito cinque cani gli corsero incontro inferociti. (In Sicilia si dice compare anche a chi non si conosce). Quindi il contadino fece la stessa fine del figlio: scappare e più in fretta possibile con i cani dietro che cercavano di mordergli il culo.'Porca miseria, figghiu di buttana!" (Imprecazione famosa in Sicilia che vuol dire: "figlio di puttana"). Andò a casa e prese la "scupetta" (quella meglio conosciuta col nome di lupara) e ritornò alla fattoria; non appena i cani si avvicinarono di corsa e inferociti, imbracciò il fucile e ne ammazzò subito uno e gli altri cani, a vederlo morire, si misero a guaire e ad andare verso il padrone a chiedere aiuto. Il padrone appena vide che quello ammazzò un cane e veniva tranquillamente verso la casa gli andò incontro dicendogli: "cumpari a sti disgraziati cani l'aia ammazzari quarchi ghiornu pirchì su troppu besti" (come dire che i cani erano troppo feroci per natura e non perché era lui che li aizzava). Il contadino andò subito al dunque dicendogli che voleva comprare qualcosa da mangiare per sé e per la sua famiglia. Il padrone tutto gentile lo fece accomodare a casa, chiamò sua moglie e gli fece preparare un fagotto di generi alimentari, e non vollenemmeno essere pagato. Invitò il contadino a fermarsi a mangiare con loro dato che la tavola era già apparecchiata e tutto era pronto. C'era minestrone di ceci, bello caldo. Il contadino si sedette a tavola e toltosi il fucile, che poco prima aveva messo sulla spalla, lo impugnò per la canna con la mano sinistra e con la destra prese un cucchiaio di minestra e la versò nella canna del fucile.
"Compare ma che state facendo?" disse il padrone.
"Caro compare devo ringraziare a questo se stasera mangio io e la mia famiglia; voi il mangiare lo state offrendo a questo (e accarezzò il fucile) e non a me" disse il contadino.
La storiella finisce qui. La giustizia è dei saggi, la legge di chi ha un mitra in più. A Settembre mi faranno la condizionale (penso che il giorno sarà verso la fine di settembre) ma i giudici non me la concederanno per vari motivi ma soprattutto perché non ci andrò con un avvocato (ci vogliono i soldi) e perché non sono un mafioso. (Di questi tempi la magistratura ha paura dei mafiosi). Ma comunque non mi do per vinto e sto cercando di darmi da fare in vari modi. Alla fine se non me la concedono chi ci perderanno saranno i giudici e non io. PIOMBO, cara mia, piombo al mattino, piombo al pranzo, piombo alla sera: questo il menù preferito dai giudici e sono loro che se lo cercano con la lanterna. Devi vederli come sono sprezzanti e spavaldi quando sei in catene o in una sala da interrogatorio.
Sono, in quel momento, come una pasqua; quando invece gli tiri una fucilata sulle corna "Oh, mamma mia" e quelli che restano ti parlano insieme al buffone Pertini dei complotti internazionali per squilibrare l'Italia; complotti guidati dagli Stati dei Katanga, del Peloponneso, del Tibet, tutto questo per far rincoglionire la gente che ci crede e nascondergli così i veri motivi. Noi siamo gli angioletti cattivi e restiamo in galera, ma i veri assassini sono fuori; quelli delle stragi come Bologna, delle ruberie sul salario della gente che lavora, delle corruzioni, dei licenziamenti, ecc. Questi sono i veri ed unici criminali da spazzare via. Anche se ammazzerei 10 mila giudici e assalterei altrettante banche non mi sentirei mai un criminale. Possibile che non si riesce a capire che questi vivono e comandano proprio per una fatto elementare: la nostra debolezza.
Questa lettera la sto scrivendo con le pause più o meno lunghe. Ora è sera (non ho orologio ma saranno le 9,30 serali) fuori c'è una luna stupenda che riesco a vedere nel pezzo di apertura che c'è in questa specie di finestra quasi murata e con le sbarre. Fuori non si fa attenzione a questi fenomeni della natura ma qui a guardare un pezzo di cielo piccolino con una grande palla biancocenere in mezzo ti da una sensazione di sottile gioia mista a grande tristezza, ti accorgi di quanto ami la vita ma nello stesso tempo di come ti viene negata, strappata a forza. Eppure la natura dà all'uomo la possibilità di servirsi di essa per il benessere di tutti. Parlo di "uomo" non di animali.
Invece enormi mezzi di produzione sono nelle mani di pochi parassiti che se ne servono per il loro esclusivo benessere a svantaggio di milioni di uomini che sono i veri produttori e che invece ne ricevono le briciole. Ma ora non ho più voglia di scrivere, smetto qui così mi distendo un pò nel letto e leggerò qualcosa che mi tenga impegnato il pensiero - tentativi di divagazione carceraria - resta a stento lo spazio per i saluti che tanto sono di carta quindi un semplice ciao!

Salvatore


Fonte: Salvatore Rudilosso. Il trentesimo giorno, AA.VV., Edizioni Anarchismo