La via dei disperati. Nel Sahara con i clandestini in fuga verso l'Italia
Gatti Fabrizio
Corriere della Sera, dicembre 2003 - gennaio 2004

Fuga dall'Africa: in viaggio con i clandestini. Dal Senegal alla Libia, il tragico business dell'immigrazione. In marcia per un mese e mezzo tra incidenti, violenze e dolore.

Deserto del Sahara
Il più giovane dei passeggeri l'hanno frustato sul piazzale del commissariato, nell'oasi di Dirkou, in Niger. Il capoposto in tuta mimetica si è sfilato il cinturone militare e davanti a tutti ha colpito Elvis Benine, 15 anni, per rapinargli la banconota da 5 mila franchi che stringeva nella mano, sette euro e 70 centesimi. Ernest e Victor Robson, in viaggio verso l'Italia con le foto dei loro bimbi in una tasca dei jeans, si sono dovuti inginocchiare sotto il sole di mezzogiorno: due ore a cuocere nella sabbia rovente, immobili, fino a quando un capitano non si è convinto che loro di soldi non ne avevano più. Adama Traoré e altri 21 ragazzi sotto il sole ci sono da dodici giorni, mangiano topolini, insetti, una manciata di miglio. I soldati li hanno fatti scendere dal camion vicino a un pozzo sperduto nel deserto, perché i 22 immigrati non avevano più niente. Nemmeno un paio di scarpe bucate con cui pagare l'estorsione. E ormai la polvere si è impossessata dei loro capelli, dei vestiti logori, della loro pelle. Quando camminano è perfino difficile distinguerli sullo sfondo arido del paesaggio. Nessuna pietà protegge i clandestini che dall'Africa della costa cercano di raggiungere l'Italia e l'Europa. Partono dal Senegal, dal Mali, dalla Guinea. Scappano da Sierra Leone, Liberia, Costa d'Avorio, Ghana, Benin, Togo, Nigeria e Camerun. E dopo qualche migliaio di chilometri in pullman, camion o su minibus stracolmi, si raccolgono ad Agadez, in Niger. Affrontano il Ténéré, il deserto dei deserti. Poi il Sahara. Un popolo in fuga: ogni mese quindicimila persone attraversano le dune e i grandi plateau in marcia verso Nord. Quasi tutti uomini, poche donne, raramente un bambino. Abbiamo viaggiato con loro. Li abbiamo seguiti nel percorso più lungo, la via che incrocia tutte le altre. Da Dakar, Senegal, alla Libia. Uno zaino, la tanica per bere e un turbante tuareg per nascondere la pelle chiara nei momenti più delicati. Cinquemila chilometri, lasciando alle spalle l'Africa dei fiumi per attraversare erg, pianure e valli dove la sabbia ha preso il posto dell'acqua. Un mese e mezzo di spostamenti e attese, incidenti, violenze e dolore. Non tutti riescono ad arrivare fin qui. Non tutti vedranno questo orizzonte di polvere rossa che dal Niger scende finalmente in Libia, all'unica strada asfaltata che in un giorno porta a Tripoli, al Mare Mediterraneo, alle barche stracariche di clandestini che salpano verso Lampedusa. Kofi, 24 anni, partito dal Ghana, è morto di fame e polmonite all'autostazione di Agadez. Sei ore di convulsioni e invece del medico, i guardiani hanno chiamato i poliziotti: Kofi non aveva i 1000 franchi, un euro e 50, per pagare l'ospedale. Oliver, arrivato dalla Nigeria, è stato soffocato da una pallottola di banconote. Aveva 800 dollari, i gendarmi nigerini stavano spogliando e massacrando di botte tutti gli stranieri perquisiti prima di lui. E Oliver, disperato, ha ingoiato i soldi per nasconderli. La sua vita è finita così. Il traffico dei clandestini verso l'Italia è il più grande affare di polizia, gendarmeria e forze armate del Niger. E dei reparti libici che pattugliano il valico di Tumù e il confine meridionale. A ogni posto di controllo ogni immigrato deve sborsare una tangente. Militari e agenti nigerini chiedono 10 mila franchi, 15 euro e 40. Spesso si accontentano di cinquemila. Ma se nelle perquisizioni e nei pestaggi trovano di più, si tengono tutto: a volte sono rotoli di 800, mille dollari, messi da parte per pagare il viaggio finale in barca. Superare i 2040 chilometri tra Niamey e la Libia può costare in estorsioni tra i 60 mila e i 100 mila franchi: più del prezzo del viaggio sulla stessa distanza, 55 mila franchi.

Estorsioni ai posti di controllo
I dodici posti di controllo, dalla capitale al fortino di Madama, rendono all'esercito e alla polizia nigerini tra il milione e mezzo e i due milioni di euro al mese. Fino a 20 milioni di euro all'anno. Con queste cifre, da queste parti, si armano squadroni speciali, si comprano campagne elettorali, si organizzano colpi di Stato. I militari libici prendono il resto. Sequestrano quello che rimane nelle tasche degli stranieri che passano a Tumù, con la scusa di qualche irregolarità: la mancanza del visto, o il divieto di far circolare valuta straniera. Chi sopravvive alla fame, alle torture, alla fatica, alle razzie, raggiunge la Libia eroicamente aggrappato ai camion. Grappoli di teste, braccia, gambe e bidoni pieni d'acqua nascondono le lamiere dei grandi Mercedes 6x6 o dei modelli anni '50. Da Agadez ne partono almeno tre ogni giorno, guidati da autisti arabi o tubù: 150-200 persone per camion. Senza contare chi viaggia con i trasporti di capre e cammelli, i convogli mensili con le sigarette di contrabbando, i vecchi furgoni Toyota 45. Quattro o cinque giorni di Ténéré, se tutto va bene, da Agadez a Dirkou: 660 chilometri, 15 mila franchi il biglietto, 23 euro. E poi il Sahara. Altri quattro o cinque giorni di piste, da Dirkou ad Al Gatrun, in Libia, dove comincia la strada asfaltata: 830 chilometri, 25 mila franchi, 38 euro e 50. I furgoni costano il doppio perché arrivano prima. Se non si perdono e non si rompono. In maggio, il mese più caldo, un autista ha preso una mescebed, una pista abbandonata. Il camion si è insabbiato: 63 morti di sete. Sempre in quel periodo un Toyota stracarico di clandestini si è guastato in mezzo al Ténéré. C'era un altro furgone lì dietro. L'autista ha deciso di tornare all'oasi di Dirkou e cercare i pezzi di ricambio. Si è rotto anche quel Toyota. Il primo non l'hanno mai più ritrovato. Del secondo, si sono salvati in pochi. Altri sessanta morti. Fino a Niamey, capitale del Niger, è un viaggio normale. Con tutti i normali imprevisti di un viaggio in Africa. Un treno deragliato dopo Tambacounda, in Senegal. Il taxi brousse, il minibus del Sahel, con la coppa dell'olio squarciata in Mali. L'assalto dei banditi di notte, sul treno degli immigrati da Kayes a Bamako. Una gomma senza più battistrada ridotta a un gomitolo di fil di ferro, sulla strada di Ayorou tra Mali e Niger.

La partenza è all'alba
A Niamey la stazione degli autobus Sntv, la società nazionale, è in riva al fiume Niger. Il biglietto per Agadez si paga il giorno prima. Nella sala d'attesa il grande televisore a colori trasmette un documentario via satellite: le coste della Tunisia, il mare, Malta, Lampedusa, Pantelleria, la Sicilia, i pescherecci, le barche a vela, i monumenti, volti felici, la sigla, l'indirizzo dei produttori, Palermo, Sicily, Italy. Si parte alle 6, presentazione alle 5.30. Anche le zanzare devono conoscere l'orario. Sciami malarici ronzano intorno ai passeggeri che non smettono di darsi sberle. In cima alla scarpata, un po' più a sinistra, la residenza del presidente della Repubblica, Mamadou Tandja. E sotto, a destra, un capannone abbandonato dove dormono gli stranieri che hanno finito i soldi. "Allah è grande, la pace sia con voi", dice l'imam nella moschea sotto la tettoia. Le donne non possono entrare. Si inginocchiano sulla terra impregnata d'olio del parcheggio e senza volerlo rivolgono le loro invocazioni al banco pericolante che vende sigarette, caramelle, bottiglie d'acqua e fiammiferi. Il pullman si mette in moto dopo la preghiera. Gli stranieri si sono nascosti in fondo. Davanti i nigerini. Tra loro un tuareg con il taguelmoust, il turbante bianco. E tre hausa, con le cicatrici tribali che dagli angoli della bocca incidono le guance come i baffi di Gatto Silvestro. A Birni-Nkonni, la prima razzia. Due barili ai lati della strada e una corda come sbarra del posto di blocco. Il passaporto italiano non è un problema. L'agente in mimetica apre un documento nigeriano. E subito dopo un passaporto azzurro della Liberia. "Voi due - urla in hausa - scendete". L'ufficio di polizia è una casupola in banco, i muri impastati con fango e paglia. Dura un quarto d'ora. Poi il nigeriano e il liberiano tornano sul pullman. Quanto avete pagato? "Io duemila - dice il nigeriano - perché ho il visto, il mio amico cinquemila franchi". Un chilometro dopo, l'alt dei doganieri. Il controllo dura un'ora, sotto il sole dell'una. E questa volta anche i clandestini seduti in fondo al pullman devono pagare. A Tahoua i gendarmi sono già impegnati con un minibus stracarico. Ma all'arrivo ad Agadez, quando è già buio, tutti gli immigrati sono trattenuti al posto di controllo. Una tettoia e una fila di casupole, un motorino, due soldati con il mitra stretto nelle braccia e dodici stranieri in piedi davanti a tre borse e un trolley. Qui è finito il viaggio di Oliver, il 20 marzo, soffocato da una pallottola di dollari.

In piedi per tutta la notte
Con i clandestini ci si ritrova la mattina dopo, nel grande recinto dove arrivano corriere e minibus e partono i camion del deserto. Un vecchio Mercedes 6x6 è pronto, con la sua collana di bidoni appesi tutt'intorno. Bill C., 24 anni, di Monrovia, Liberia, zoppica: "Ci hanno tenuti in piedi per ore, tutta la notte - racconta -. A me i militari hanno fatto sollevare il piede destro e piantato un coltello nella suola della scarpa. Così, zac, zac, zac. Poi l'hanno fatto con il sinistro. Volevano i soldi, credevano li avessimo nascosti nelle scarpe. Quando ho gridato per il dolore, hanno capito che lì non c'erano nascondigli". Bill, figlio di un viceministro assassinato con la moglie nel '96 in Liberia, è in fuga con due amici, Adolphus K., 24 anni, e Aloshu B., 30. Scappa perché, dice, ha paura che gli avversari del padre possano uccidere anche lui. Da quattro anni i tre ragazzi abitavano nel campo profughi di Buduburam ad Accra, in Ghana. Sui loro passaporti azzurri c'è la stessa data di rilascio: 11 novembre. "Io e Adolphus siamo partiti con 250 dollari", rivela Bill. "Io ne avevo 130 - spiega Aloshu -. Il viaggio è andato bene fino al Niger. Ma alla frontiera di Maradi i poliziotti hanno preteso 100 dollari da ciascuno di noi. Vogliamo arrivare in Tunisia: ci hanno detto che da lì prendere la barca per l'Italia è meno pericoloso. In gennaio la Tunisia ospita la Coppa d'Africa di calcio. Migliaia di persone andranno là con la scusa delle partite. Ci saremo anche noi". Billy Osas, 26 anni, camionista di Benin City, Nigeria, è disperato. Piange e prega: "Mio padre ha venduto tutto quello che c'era in casa per farmi partire. Il motorino, il videoregistratore, la tv, il frigo. Qui mi hanno detto che per legge dovevo mostrare i soldi. Così un ufficiale si è preso tutto: 300 dollari. Adesso sono stranded, bloccato. Con l'elemosina posso comprarmi solo un po' di acqua zuccherata". Anche Kofi, 24 anni, era stranded. La mattina del 25 novembre Osas e il suo amico Johnson Godwill, 27 anni, nigeriano, sono sconvolti: "Stanotte se n'è andato un fratello del Ghana. È morto davanti a noi, alle due di notte. Dalle otto di sera strisciava per terra per le convulsioni. Supplicavamo i nigerini dell'autostazione di chiamare un dottore. Invece hanno chiamato la polizia, dopo sei ore. Lo conoscevamo come Kofi, 24 anni. Non mangiava da almeno una settimana, tossiva molto... Questa è l'Africa, amico. In Europa Kofi sarebbe ancora vivo, per questo vogliamo scappare da qui".

I soldi nelle scarpe
Il camion per Dirkou parte alle 8, dicono alla biglietteria. Ma alle 10 è ancora sul piazzale dell'autogare. L'arabo Alham Boubacar, capo dell'agenzia di Agadez, ha venduto ogni superficie disponibile. Restano scoperti soltanto il battistrada delle grandi ruote e il cofano. I più comodi stanno seduti sul tetto della cabina o a cavalcioni sulle fiancate. Gli altri si sono accovacciati sul fondo del cassone. I più sfortunati devono rimanere in piedi, o appollaiati su due traverse di ferro, oppure aggrappati a qualche spigolo. Così fino a Dirkou, in 160, per almeno quattro giorni e quattro notti, sotto il sole spietato e il gelo dell'alba. Gli autisti sono due, si danno il cambio o masticano semi di cola per rimanere svegli. Bill, Adolphus e Aloshu si sono aggrappati alla traversa di ferro, con i piedi penzoloni sulle teste che stanno sotto. Osas e Johnson guardano dal marciapiede. Nemmeno oggi hanno soldi per partire. Cinque chilometri, quasi mezz'ora di viaggio e il camion già si ferma. I poliziotti fanno scendere tutti. È il primo posto di controllo sulla pista per il Ténéré. Un ragazzo hausa in mimetica squarcia con un coltello le intercapedini di canapa che avvolgono i bidoni dell'acqua. Poi si fa consegnare le scarpe da un gruppo di passeggeri e taglia in due le suole. Cerca soldi. Chi è a piedi nudi o in ciabatte se non paga viene portato dietro al capanno. Si sentono grida sommesse, colpi, il sibilo di una frusta. Anche Bill, Adolphus e Aloshu vengono picchiati sulla schiena con un grosso cavo elettrico. Alla fine consegnano 10 mila franchi a testa. I poliziotti vogliono di più. Poi vedono i loro passaporti azzurri e si calmano. Ai nigeriani va peggio. Dopo un'ora si riparte. In venti restano a terra. Ottanta chilometri più avanti, aspettano i gendarmi di Tourayatte, l'ultimo villaggio. Ogni volta che si risale scoppia una rissa. Chi non ne può più si appropria di un angolo comodo del camion. Gli autisti arabi ridono di gusto. Nella notte Bill, sfinito dalla stanchezza, cade sui passeggeri seduti sotto di lui. Uno di loro si alza e gli spacca il labbro con la torcia elettrica. Altri si fanno spazio con la punta di un coltello. Quando è buio, le ruote seguono le vecchie tracce nella sabbia liquida come l'acqua. Il motore arranca. Prima, seconda, prima ridotta. Non più di cinque-dieci chilometri all'ora. Alle nove di sera il quarto di luna è un Titanic che affonda dentro la linea nera dell'orizzonte.

La notte nel deserto
C'è un grande traffico di stelle cadenti lassù. Scintillano attorno all'arco di Orione che, preciso come una lancetta, indica la rotta e l'ora della notte. E quando il sole è alto, il paesaggio si scioglie nei miraggi. Le dune prendono forma in cielo, per poi scendere e avanzare nel deserto dorato. Dopo tre giorni e mezzo si riempiono i bidoni al pozzo di Achegour. Il camion si ferma tra miliardi di mosche assetate che aggrediscono occhi, naso, bocca per rubare il sapore dell'acqua. Poco più avanti, una delle tante tombe di chi non ce l'ha fatta. Passa un altro giorno e in cielo, dietro a una duna, appare l'oasi di Dirkou. Elvis Benine, quindici anni, nigeriano di Benin City, è pronto a partire sul vecchio Mercedes del libico Ahmed El Falouki, trentadue anni, trafficante di clandestini tra Dirkou e Al Gatrun. Quando vede un europeo nel gruppo, Elvis gli corre incontro. "Monsieur, do you speak English? - chiede tremando -. La polizia vuole da me tremila franchi, altrimenti non mi fanno salire. Ma io ho speso tutto per il biglietto e non ho più soldi". Pochi minuti dopo Elvis corre verso i poliziotti con l'ingenuità di un bambino e una banconota di cinquemila franchi in mano. Un agente in borghese gliela prende e lo allontana dal camion. Lui protesta. Il capoposto lo zittisce sventolandogli il cinturone sulla testa. Continua a colpirlo. Elvis cade ferito, si raggomitola inciampando nel filo spinato. I 152 passeggeri di Ahmed El Falouki guardano in silenzio. Tra loro i liberiani Ernest Robson, 27 anni, laureato in economia, e il fratello Victor, 31, ex impiegato, due papà che potresti vedere in qualunque telefilm sulla provincia americana. Due settimane fa il loro viaggio fino a Dirkou è stato tremendo. Ad Agadez li hanno messi a cuocere sotto il sole. Poi nella notte una delle sponde del camion è crollata: "Un passeggero - racconta Ernest - è finito sotto le ruote, altri si sono feriti. Ci hanno scaricati nel deserto per riportare il camion a riparare ad Agadez. Il resto del viaggio io e Victor l'abbiamo fatto abbracciati, tenendoci l'un l'altro, per paura di cadere".

La frontiera è chiusa
Il camion di Ahmed El Falouki parte alle cinque di sera, dal piazzale del commissariato. Elvis Benine resta a terra. Lo stesso è successo dodici giorni fa ad Adama Traoré, 25 anni, del Mali, e agli altri 21 bloccati con lui al pozzo di Dao Timmi davanti alla piccola base militare. "I soldati ci hanno fatti scendere, convinti che rimanendo sotto il sole avremmo consegnato un po' dei nostri soldi - dice -. Invece non avevamo niente davvero. E adesso non c'è un solo autista che ci porti in Libia. A volte i militari ci passano un po' di miglio avanzato. Ma non basta per tutti. Dobbiamo arrangiarci. Sì, quando la fame è forte... un topo o qualche piccola locusta". Ancora una notte e un giorno di viaggio, le rocce bianche di Mabrous, il fondo di un mare prosciugato, distese, miraggi e laghi fantasma. La pista porta davanti a un fortino costruito dalla Legione Straniera, semisommerso nella sabbia. È Madama, postazione del 24° Battaglione interforze di Agadez, l'ultima razzia prima dei militari libici. Duecento corpi affollano l'ombra dell'unica grande acacia. Sono lì da quattro giorni, stremati e affamati perché hanno finito le scatolette di sardine, il latte in polvere, il pane e i biscotti. La Libia ha chiuso la frontiera. A volte succede quando c'è una festa nazionale, o quando l'Italia protesta per i troppi clandestini in arrivo. Solo che qui siamo in pieno Sahara. Non si può tornare indietro. Ieri qualcuno ha provato a mangiare la paglia caduta una settimana fa da un camion che trasportava cammelli. E oggi è piegato in due dalla dissenteria. Poco prima del tramonto arriva un altro camion, quasi trecento immigrati con le scorte al limite. I militari armati di mitra fanno il loro lavoro: stranieri in ginocchio con le mani sulla testa, calci con gli scarponi in mezzo alla schiena, frustate con i fili elettrici. Il sergente Sani Argika corre a controllare che tutto vada per il meglio: "Dopodomani forse i libici riaprono - dice -. Forse... Inshallah, se Allah vuole". Quando Tripoli vuole.

Sul treno per Bamako (Mali)
Il Mistral si infila come un pugno nel buio della savana. Undici carrozze fradice di sudore. Tremila uomini e donne, inscatolati a più di quaranta gradi. Bambini nudi intontiti dal caldo. Sacchi di farina ovunque. Bidoni pieni di pesce e mosche. Un televisore giapponese ancora imballato. Borse, scatoloni, valigie. E là davanti i fari della vecchia locomotrice Diesel: nell'aureola luminosa appare un baobab, e scompare, poi il nulla, un'acacia, di nuovo il nulla. L'Africa maltratta fin dalla prima notte di viaggio i suoi figli costretti a partire. Perché questo non è solo il treno degli immigrati. Questo è il convoglio dei banditi che nel buio assoluto dei villaggi assaltano gli scompartimenti e arraffano tutto ciò che riescono a toccare. È la fila di vagoni ondeggianti che quando scavalcano sferragliando i fiumi si riempiono di insetti, cimici e zanzare come se fossero fatti di carta moschicida. È la ferrovia che unisce l'Oceano Atlantico al Sahel, la porta del deserto e dei camion carichi di clandestini che salgono al Mare Mediterraneo. Da Dakar, Senegal, a Bamako, Mali: 1.420 chilometri, la via più veloce, si fa per dire, tra le due capitali. Il viaggio sul Mistral dieci anni fa durava trenta ore. Oggi, quando la linea è bloccata per un deragliamento, come in questi giorni, se ne impiegano anche sessanta. Mohamed Touray, 31 anni, è partito da Bijilo, in Gambia. "Voglio andare in Svizzera - racconta -. Ora vado a cercare lavoro a Bamako. Qualunque cosa. Poi, se avrò soldi, chiederò il visto per la Svizzera. Se non me lo danno? Troverò qualche modo". Con i camion del deserto? "Sì, ma solo se non avrò alternative. Il deserto è pericoloso", sorride Mohamed Touray e mette la mano in tasca. "Ecco qua - dice mostrando una tessera con la sua foto -: era la mia carta d'identità a New York. Ci sono stato nel 1999. Poi il visto è scaduto". Mohamed non ha bagagli sul treno. Tutta la sua vita è nelle tasche dei pantaloni, compreso un metro da muratore. Tira fuori un'altra foto: "Sono sempre io a New York. Facevo il carpentiere". Quando decidono di affrontare il Sahara per aggrapparsi alle scogliere di Lampedusa, molti clandestini hanno già una lunga esperienza da emigranti. Il primo viaggio di solito li porta a Sud, nelle piantagioni della Costa d'Avorio. Ma anche lì il sogno si è infranto nelle disastrose conseguenze della guerra civile. Se la situazione non migliorerà, il Mali, dieci milioni di abitanti, già calcola il rientro in massa di almeno quattrocentomila connazionali. E la perdita di sessanta miliardi di franchi in rimesse, 92 milioni di euro all'anno. È come se in Italia ritornassero in un colpo due milioni e 240 mila emigranti. Le stesse preoccupazioni riguardano Senegal, Niger, Nigeria e Ghana. Un ritorno già cominciato che non si fermerà nei villaggi d'origine ma, secondo le previsioni dei governi, consumerà i pochi soldi risparmiati nel viaggio più lungo e avventuroso: il deserto e, là in fondo, l'Europa. Durante la sua visita in ottobre, Jacques Chirac ne ha parlato con il presidente del Mali, Amadou Toumani Touré. Il presidente francese ha chiesto più impegno contro gli emigranti che attraversano il Sahara. E Touré gli ha risposto con una battuta che ha fatto ridere il pubblico: "Anche il primo francese entrato nella nostra Timbouctù arrivò da clandestino: disse di essere musulmano e di chiamarsi Abdallah". Era il 1828 e l'esploratore Réné Callié non aveva alternative. Due anni prima il maggiore scozzese Gordon Laing, primo europeo a vedere Timbouctù, era stato assassinato perché non si era convertito all'Islam. Ma anche la richiesta francese, quaggiù, è sembrata scherzosa. Fermare l'emigrazione clandestina significherebbe per il Mali poter controllare 4.434 chilometri di confine. Una successione di linee inventate dopo le conquiste coloniali. Tutte in pieno deserto.

Il presidente Chirac non sa
Forse il presidente Chirac non sa nulla di questo avviso appeso a Bamako, nella bacheca del Centro culturale francese. Dice che uno studente in Francia può vivere con seicento euro al mese. E poiché qui un falegname o un muratore spendono meno della metà di uno studente, c'è chi deduce che allora in Europa si possa vivere con meno di trecento euro al mese. Djimba Diakite, 28 anni, ne è convinto. Non ha un diploma e nemmeno un compleanno da festeggiare. Sul suo passaporto il giorno e il mese di nascita sono indicati con xx e xx. Conosce soltanto l'anno: 1975. È nato a Deguela, duecento chilometri a Nord Est di Bamako. È il più grande di tre fratelli, etnia malinké. Quattro anni fa è immigrato a Bamako: "Perché - dice - Bamako è sinonimo di lavoro e arricchimento". Ma è un abbaglio. Nella capitale solo un quarto dei giovani tra i 15 e i 25 anni ha un lavoro retribuito. Una percentuale che non è cambiata dagli anni '70. Il 73 per cento della popolazione attiva si mantiene con occupazioni "informali".

Una vita di espedienti e baratti
Dal baratto degli ortaggi coltivati sulle aiuole degli incroci, alla vendita sotto gli alberi di scarpe false "made in China". E così in quattro anni Djimba Diakite non si è arricchito per niente. Fa l'idraulico per quarantamila franchi al mese, 61 euro e 53 centesimi. "Quindicimila franchi - racconta - se ne vanno nell'affitto della stanza dove dormo, quindicimila per il sacco di riso da 50 chili, diecimila in trasporti. A fine mese devo vivere con il credito. Io so che in Europa potrei guadagnare mille euro al mese". Da un anno Djimba Diakite sta facendo l'investimento più importante della sua vita: mettere da parte 400 mila franchi per pagarsi il viaggio da clandestino. Ha già risparmiato qualche spicciolo. Ma più aspetta, più il percorso si allunga. A Bamako hanno saputo che l'Unione Europea ha convinto il Marocco a rimpatriare gli immigrati, prima che arrivino in Spagna e in Francia. Così, anche da qui, il traffico dei clandestini si sta spostando a Est. Verso il Niger e la Libia. Quindi verso l'Italia. Eppure non restano alternative. Al cancello blindato dell'ambasciata italiana più vicina, a Dakar, nell'ultimo anno si sono rivolti in ottomila. Soltanto 400 hanno ottenuto il permesso di lavoro, mille il ricongiungimento familiare e 600 un visto temporaneo per turismo o affari. Gli altri seimila devono arrangiarsi. Come rivela Fatou Diouf, 24 anni, cameriera in un ristorante per 150 mila franchi al mese: "C'è un boss del commercio di vestiti che per tre milioni di franchi dichiara che lavori per lui e ti fa avere il visto italiano. Ma anche con l'aiuto dei parenti, tre milioni sono proprio tanti". La rotta del deserto costa molto meno. Se non si muore. Da Dakar a Tripoli, 165 mila franchi, 254 euro. Più gli ottocento-mille euro per la barca, dalla Libia all'Italia. Il viaggio dal Senegal non sempre comincia in treno. "Oggi non si parte, è deragliato un merci", dicono in stazione a Dakar. Il Mistral è bloccato a Kayes, in Mali. Occorrono un giorno e mezzo di strada per arrivarci e tanti imprevisti. Mohamed Touray e gli altri passeggeri sbuffano e sudano in nove più l'autista, su una Peugeot da cinque posti. Il tratto più lento è da Kidira, il confine, a Kayes: 106 chilometri in sei ore e mezzo, una foresta di baobab, un pastore peul con la radio appesa al collo e il motore che va a pezzi picchiando contro una pietra. È buio fitto sulla stazione. Le uniche luci le muovono i passeggeri, che con le torce elettriche si guidano nella ressa. Le bancarelle sul piazzale di Kayes offrono pane, uova sode, pesce e datteri secchi. Il treno degli immigrati è già stracolmo. Mani sudate sollevano e passano sacchi e bidoni dentro i finestrini. Mohamed, in fuga dalla Gambia, riesce a sedersi sulla carrozza numero tre, posto 57, tra un commerciante di magliette che va a rifornirsi a Bamako e un meccanico che torna a trovare i genitori.

Nei villaggi di paglia e fango
Rimbomba la sirena. Due richiami e l'eco che ritorna. Alle otto di sera le carrozze oscillano, rimbalzano, si muovono. Aziz vende carne di montone alla griglia. La tiene in una padella in equilibrio sulla testa. Ogni porzione viene avvolta in una carta polverosa, strappata da un sacco su cui in francese c'è scritto: cemento. L'arrivo nei villaggi di paglia e fango risuona di grida. Anche in piena notte. "Gilimeré, gilimeré", ripetono i bambini bambara dal marciapiede, porgendo sacchettini pieni d'acqua ai passeggeri stremati. Davanti ai finestrini danzano cesti di mele, banane, pomodori, una zucca gigante. Le donne li portano sulla testa, raggiungendo così le mani dei viaggiatori affacciati. Alla stazione di Bafoulabé il primo assalto. Una manciata di banditi sale sulle carrozze nel buio assoluto. Spariscono una valigia, una borsa, qualche sacco di farina. Il viaggio da Kayes a Bamako dura sedici ore. Dicono che i piloti della Parigi- Dakar facciano lo stesso percorso in sei ore. Quello che pochi ricordano è il costo che ogni volta pesa sugli abitanti del Mali: un mese con la benzina esaurita e il 75 per cento delle vittime della gara, investite nei villaggi. A mezzogiorno la cappa e l'odore di smog annunciano Bamako. Il Mistral si fa strada nella folla che si agita in stazione. Mohamed Touray scende con calma africana. L'Europa è ancora tanto lontana per lui.

Sulla rotta dei camion (Deserto del Ténéré)
L'acqua rimbalza nei bidoni di plastica appesi alle fiancate. Ogni volta che il camion molleggia sulle onde nella sabbia, le duecento taniche ricoperte di cartone e canapa suonano il ritmo di una lenta marcia nel deserto. Due ragazzi nigeriani ci fischiano sopra e intonano il tormentone 2003 delle discoteche di tutta Europa. Altri fanno il coro, al ritornello di Never leave you: "Uh-oooh, uh-oooh...". È il buonumore del mattino. L'aria gelida dell'alba. Il primo sole caldo sulla faccia. Dura pochi metri. Dietro al cordone di dune appare un pozzo e l'autista tira dritto. Denis Phils e il fratello gemello Collin, 19 anni, da più di tre giorni e tre notti stanno aggrappati a una sponda del cassone. Il tonfo nei bidoni avverte che le scorte per bere sono quasi finite. Ma Nasser, il libico al volante del grande Mercedes 6x6, padrone del viaggio, della vita e della sete di questi clandestini, ha deciso che non ci si ferma. E nessuno canta più. Sono 15.460 gli immigrati partiti negli ultimi trenta giorni da Agadez, in Niger. Pochi resteranno a lavorare in Libia. Quasi tutti vogliono arrivare in Italia. Prima tappa europea di un'avventura che a volte porta più su, in Francia, Olanda, Inghilterra. E, se va bene, in America. Viaggiano con uno o due bidoni d'acqua ciascuno, dai 20 ai 40 litri. Taniche riciclate dai trasporti di olio d'arachidi. Oppure da qualche deposito di carburante. I 182 passeggeri di Nasser hanno meno di 30 anni. Si sentono cittadini del villaggio globale. Parlano inglese. Sono diplomati, qualcuno laureato. Conoscono tutto del calcio italiano e dei loro connazionali andati a giocare lassù. Hanno imparato a usare Internet a scuola, o nei computer-caffè aperti in baracche di legno, lamiera e polvere. E hanno quasi tutti un'email. Non appena il camion si ferma per la sosta di mezz'ora, si passano la biro e consegnano il loro indirizzo su chiocciola-Yahoo-punto-com: "Ecco qua, in Libia troverò sicuramente un Internet caffè per guardare le foto. Così quando torni in Italia me le mandi", chiede Chuck Owu, 28 anni, nigeriano di Onyis. Si avvicinano Vincent, 23 anni, Peters, 25, Erasmus, 21. Aggiungono i loro nomi online su un pezzetto di carta invecchiato dal sudore e dalla sabbia ocra, entrata in fondo a tutte le tasche. C'è anche Anthony, che già si immagina in Italia: "My name is Antonio", dice. Sarà per questo che la polizia e i militari del Niger e del Sud della Libia li massacrano di botte. L'usanza di rapinare i viaggiatori lungo quest'antica rotta delle carovane dura da secoli. Soprattutto se chi passa è africano, nero e cristiano. Ma anche i musulmani si prendono la loro raffica di botte ai posti di controllo. Calci sulla schiena, frustate con i cavi elettrici e ore sotto il sole rovente. La ferocia e le torture sembrano nascondere sentimenti di invidia e vendetta: la rivincita contro chi ha avuto il coraggio di caricare il proprio futuro su un camion per portarselo in Europa. È anche l'effetto dell'Islam bigotto di queste parti. Nella lunga attesa all'ultimo posto di controllo, la discussione con i soldati comincia dalle gesta di Ibn Battuta, il grande esploratore arabo del 1300. E finisce al mistero sull'origine di pomodori e patate: "Davvero vengono dall'America? Impossibile che Allah l'abbia benedetta con questi doni - sentenzia il sergente - dopo tutto il male che l'America sta facendo nel mondo". Chissà cosa penserebbe Allah degli immigrati torturati e rapinati. Ce ne sono più di cinquecento in queste notti all'autostazione di Agadez, la splendida città di fango rosso, l'ultima prima del Ténéré. Militari e poliziotti li hanno ripuliti, non hanno più uno spicciolo. Non possono andare avanti. Non possono ritornare. Nemmeno telefonare alle loro famiglie per chiedere altri soldi. Possono solo dimenticare la fame e dormire all'autogare, il parcheggio dei camion del deserto. È una prigione senza sbarre, più grande di un campo di calcio. Lungo due lati, per tutta la lunghezza e la larghezza, c'è gente sdraiata. Si sono infagottati all'aperto, uno stretto all'altro per scaldarsi, davanti alle biglietterie che organizzano i viaggi verso l'Italia. Dandy Obasuny, 24 anni, nigeriano di Benin City, era partito con 150 dollari. Ha dovuto vendere le scarpe e il bagaglio: "I soldi li avevo nascosti nelle mutande - racconta -. Qui ad Agadez, un militare mi ha infilato la mano nei pantaloni e se li è presi". Dandy non viene da una famiglia poverissima: "Mio padre insegna geografia alle medie, mia madre vende stoffe. Io studiavo informatica all'università". E la decisione di partire? "Da noi andare in Europa è una competizione. Dal Camerun al Senegal, milioni di persone vogliono partire. Aspettano solo di raccogliere i soldi. Io ho deciso quando tutti i miei amici sono andati a studiare a Londra. Ho una sorella in Olanda. Mio padre non poteva pagarmi il viaggio. Allora sono andato a lavorare a Cotonou, nel Benin. Era il 2001 e non ho più rivisto i miei". Caterine Tindawo, 31 anni, non ha marito e ha lasciato la figlia di 13 anni ai suoi nonni in Camerun. Gli ultimi 6 mila franchi, 9 euro e 20, li ha spesi per farsi restituire il passaporto, che un militare di Agadez le aveva rubato. Ora fa la cameriera in un ristorante all'aperto per 10 mila franchi al mese, 15 euro e 40. Un nigeriano le ha proposto di vendere il sorriso e il corpo. Ma lei tiene duro. Anche se alla pensione i 10 mila franchi le bastano solo per pagarsi il rettangolo di pavimento su cui dormire: "Spero nelle mance - sorride -. Ho un diploma di informatica, lavoravo in una ditta farmaceutica per 60 mila franchi, 92 euro al mese. Ma per me e mia figlia voglio un futuro diverso. Ho deciso di partire in febbraio, dopo che una mia amica è arrivata in Italia seguendo la rotta del deserto. Anch'io vorrei andare in Italia. Ma dove arrivi non dipende da cosa vuoi: dipende dai soldi che riesci a raccogliere". Denis e Collin Phils, fratelli gemelli, studenti al primo anno di università, chimica ed economia, all'autostazione di Agadez sono rimasti tre settimane. Hanno sofferto la fame e venduto le scarpe. Sul camion del deserto sono saliti grazie alle offerte della loro parrocchia, in Nigeria. Hanno telefonato al pastore con il cellulare di un turista. Gli hanno detto che erano stranded, bloccati. E il pastore ha raccontato a messa la storia dei due bravi ragazzi che prima di partire gli avevano chiesto di pregare davanti al crocefisso. Pochi giorni dopo, allo sportello della Western Union sono arrivati i soldi. Se fossero nati in Europa, Denis e Collin avrebbero sicuramente un cappellino con lo sponsor. Come certi campioni di sport estremi. Perché ad Agadez sono arrivati a piedi, da Zinder, Birni-Nkonni e Tahoua. Novecentosettanta chilometri di villaggi, savana e quasi metà di deserto. Avevano speso gli ultimi soldi per il biglietto del pullman. E a Zinder un ufficiale li ha fatti scendere perché non avevano più niente da offrire ai militari. Il pullman è ripartito con i loro bagagli. Ma loro non si sono arresi. Hanno camminato, dormito sulla strada, mangiato datteri e qualche biscotto. A ogni posto di controllo sono stati frustati o bastonati, o tutte e due le cose. Denis ha ancora le cicatrici su una gamba, il braccio e il fondoschiena. Avevano pianificato il viaggio perfino nei libri. Ne avevano messi quattro nella borsa: "Cosa dire quando parli a te stesso", "Come superare i conflitti", "L'influenza del potere", "Come pensare positivo", più una maglietta a testa, un paio di jeans e l'agenda con i numeri di telefono. "Avevamo scelto titoli che ci aiutassero a trovare le motivazioni - dice Collin -. Li abbiamo persi con i bagagli. Là dentro c'era anche il regalo che la mia fidanzata mi aveva dato prima dell'ultimo bacio. Una tazza con la scritta: stai bene, ti amo". Chi ha preso la decisione di partire? "Io ho deciso per primo - risponde Collin -. Era gennaio. Avevamo appena finito il primo semestre all'Università di Ekiti State. Eravamo tra i più bravi del corso, ma non avevamo più soldi per continuare. I nostri genitori sono morti nel '96 in un incidente d'auto. Ci siamo mantenuti con le ripetizioni. Ora però i costi sono troppo alti...". E perché proprio l'Italia? "Conosciamo nigeriani che vivono in Italia, dicono che è un bel Paese. Denis voleva fare le cose in regola. È andato fino a Lagos, all'ambasciata italiana. Ma un impiegato nigeriano gli ha detto che bisogna versare una cauzione di 1.800 dollari. Non rimaneva che il deserto. Ci siamo messi a lavorare. Da gennaio a novembre. Muratore, garzone, operaio. Faremo lo stesso in Libia. Per continuare in barca fino in Italia. Sappiamo che molte barche affondano. Ma alla nostra non succederà. Dio non può abbandonarci, dopo tutto quello che abbiamo passato qui". Il sogno da adolescente di Collin era una divisa da pilota d'aereo. "Io volevo fare l'astronauta", ride Denis. Adesso stanno seduti in un paesaggio lunare dove il blu del cielo scende a toccare la sabbia. Nasser e Housseini, i due autisti, richiudono il cofano, alzato per raffreddare il radiatore. Due colpi d'acceleratore, un ruggito rauco e una densa fumata nera. Denis, Collin e gli altri 180 scappano verso il camion. Ci si arrampica come marinai all'arrembaggio. La sosta è finita, i libici non aspettano. Nasser ha promesso che si fermerà al pozzo di Achegour per riempire i bidoni. "Arriveremo al tramonto - prevede -. Se Allah vuole". Sarà l'ultimo sorso d'acqua fresca. Prima di Dirkou: la grande oasi dei clandestini partiti per l'Italia e diventati schiavi.

Oasi di Dirkou (Niger)
Ribolle qualcosa di nuovo sulla linea all'orizzonte. Un sottile filo nero, nell'aria increspata dalla sabbia rovente. Si dissolve. Riappare. "Dirkou", urla l'autista ai 182 passeggeri. Più il camion si avvicina, più quell'ombra sale in cielo. Quattro giorni e quattro notti separano il mondo dall'oasi degli schiavi. È laggiù, o lassù, dipende. I miraggi la trasformano in un'isola, un lago azzurro, adesso è una nuvola. La magia del Ténéré, il deserto dei deserti. E in mezzo alle ultime dune, all'improvviso, il dramma del Ténéré. Altri centocinquanta clandestini, con la vita aggrappata a un vecchio Mercedes in panne. Un uomo cammina accanto al camion. "Si è rotto qualcosa al cambio. Stiamo tornando lentamente a Dirkou, tutto in prima. Mi date un passaggio?", chiede Ahmed El Falouki, 32 anni, libico di Sebha. Dice di essere il proprietario del Mercedes. Da quanti giorni siete nel deserto? "Cinque o sei, ho perso il conto. Stavamo andando in Libia. Ah, forse ti interessa. Vuoi comprare il mio camion? Ha una quarantina d'anni. Cinque milioni di franchi... Aspetta, sono meno di ottomila dollari. Perché non lo vuoi?", insiste Ahmed, più interessato a far soldi che a salvare i suoi clienti. Dal vecchio Mercedes anni '50 gridano, si agitano. Due pacchi di biscotti si svuotano veloci, di mano in mano. Un sacchetto di datteri. Il pane secco, una manciata di zucchero. Tutto quello che rimane del viaggio da Agadez. Troppo poco per saziare un camion di sguardi stravolti. Vengono da Camerun, Nigeria, Ghana, Liberia. Un ragazzo con le ciglia bianche di polvere prende al volo una sigaretta. Invece di accenderla, toglie il filtro e se la mastica. Un ventenne scende e corre incontro a piedi nudi. Parla inglese, i suoi occhi brillano di lacrime. "Non mangiamo da tre giorni, l'acqua è quasi finita. Per favore, non mi puoi portare in Europa? Mi chiamo Johnatan, sono nigeriano, ho il passaporto. So disegnare e costruire mobili. Guarda - dice e per dimostrarlo raddrizza il mignolo destro senza una falange - è stato un incidente. Per favore, io non ce la faccio più, sono sfinito. Ho già passato sei mesi a Dirkou. E questo camion ci riporta indietro". Moses Yemeh, 33 anni, liberiano di Monrovia, si affaccia alla fiancata: "Il libico ha detto che se arriviamo vivi, ci restituisce solo 10 mila franchi. Ma io gliene ho pagati 25 mila, mio fratello lo stesso. Non abbiamo altri soldi". I miraggi là davanti continuano a confondere il cielo e l'orizzonte. Mancano cinquanta chilometri, più o meno. Ancora otto, dieci ore di sofferenza per i passeggeri di Ahmed El Falouki. Ed è solo l'inizio. "Dirkou? Quella è l'oasi degli schiavi - aveva detto Soufiane Hassane, 24 anni, venditore di bidoni per l'acqua, giorni fa ad Agadez -. Là fuori ci sono solo la sabbia e Dio". La sabbia è ovunque. La pista dell'aeroporto militare è una striscia di sabbia. Le casupole e le vie sono fatte di sabbia. Le prime palme del villaggio sono ricoperte di sabbia. Dio sarà forse nelle preghiere silenziose di questi 182 immigrati appena arrivati. Ogni straniero deve scendere dal grande camion, inginocchiarsi con le mani sulla testa. Sperare che i militari lo lascino passare. Senza altre botte, altre frustate. Un soldato ordina a tre ragazzi di seguirlo dentro un piccolo ufficio. Preghiere inutili, ricomincia la rapina. Il posto di controllo è in fondo all'immensa pianura che scende alla falesia del Kaouar. Subito dietro, la grande base del 24° Battaglione interforze. Due porte arrugginite sono il campo di calcio. E davanti a tutti, l'attività dei trafficanti. Tre scrivanie, sotto le tettoie di palma intrecciata. Così si compra l'ultima tappa nel deserto. Due camion Mercedes e sei fuoristrada Toyota attendono il prossimo carico di clandestini. Da Dirkou, Niger, ad Al Gatrun, Libia. Bisogna dimenticare il calendario. Perché qui gli uomini non nascono liberi, nemmeno uguali tra loro. E i militari sono i primi a tenere alta la fama dell'oasi. "Noi già pregavamo Allah che quelli ancora suonavano i tamburi e si mangiavano come animali. Quelli là non sono come noi - dice un caporale di fanteria, faccia e cognome arabi, e indica gli stranieri in ginocchio nella sabbia -. Se possono pagarsi il viaggio fino in Italia, vuol dire che sono ricchi. È giusto che lascino qualcosa in Niger, a noi che non abbiamo i soldi per andarcene". È una vecchia storia. Nessun Nelson Mandela è nato qui per darle un nome. Ma c'è una buona dose di razzismo in tutto questo. Arabi libici, tubù e neri hausa del Niger considerano gli abitanti della costa africana semplicemente inferiori. Un tempo attraversavano il Ténéré e il Sahara sulla stessa rotta per comprarli e rivenderli come schiavi. Adesso li ammassano sui camion peggio delle bestie. Cammelli e capre fanno viaggi di prima classe. Hanno spazio per sdraiarsi, fieno e acqua. I clandestini partono che hanno già pagato il biglietto. E a nessuno importa se muoiono nel deserto. Il vecchio camion di Ahmed El Falouki arriva al buio. Tutti vivi questa volta. Ma è solo una questione fisica. Il morale è morto da giorni. Per qualcuno da mesi. Johnatan, Moses e gli altri 148 ragazzi sanno cosa li sta aspettando. Dirkou è una gabbia e il Sahara e il Ténéré sono le sue sbarre. Di disperati come loro, prigionieri dell'oasi, ne hanno contati diecimila. Per non morire di fame lavorano gratis. Nelle case dei commercianti o nei palmeti. Lavano pentole, curano orti e giardini, raccolgono datteri, impastano mattoni. In cambio di una scodella di miglio, un piatto di pasta, il caffè, qualche sigaretta. Volevano arrivare in Italia, sono diventati schiavi. Solo dopo mesi di fatica il padrone li lascia andare, pagando finalmente il biglietto per la Libia: 25 mila franchi, 38 euro e 50. Impossibile chiedere aiuto. Anche solo far sapere a mogli e genitori che non si è ancora morti. Non c'è banca, non c'è Internet. Il telefono a Dirkou non esiste. Ha la voce timida, Gereké Oussane, 32 anni, maliano di Koulikoro, sul fiume Niger, dieci anni da tassista in Camerun e ora schiavo nella casa di un commerciante: "I militari e la polizia mi hanno preso tutti i soldi. Arrivato qui, ho saputo che avevano bisogno di un giardiniere. Mi sveglio alle 5.30, preparo la colazione per la famiglia. L'ultimo mio compito della giornata? Bagnare il giardino, dalle undici a mezzanotte. L'accordo con il mio padrone era due mesi di lavoro gratis, poi lui mi avrebbe dato i 25 mila franchi per la Libia. Però sono arrivato a Dirkou all'inizio di settembre e dopo tre mesi... Io ho paura di finire come quelli prigionieri da più di un anno. Sono diventati pazzi e vivono nella boscaglia". Uno di loro gira ogni mattina nel mercato. Si accontenta di una manciata di farina, un pezzo di pane. Ma se gli vuoi parlare, scappa spaventato. Mohamed Youssef, 26 anni, a Kumasi in Ghana aggiustava televisori. Adesso fa il muratore dall'alba al tramonto, per un pugno di riso. "Sono in viaggio con mio fratello e siamo bloccati da tre settimane - racconta -. Proprio non riesco a immaginare come faremo ad andarcene. Non pensavo fosse così dura. Sette mesi fa uno dei miei fratelli ha fatto la stessa rotta. Ora è a Napoli, uno zio è a Torino. Perché sono partito? Perché sono sposato, ho un bambino di due mesi. E quando vedi che la tua famiglia non ha abbastanza da mangiare, è l'uomo che deve fare qualcosa. Prima di uscire di casa, mia moglie mi ha dato un abbraccio, forte, lunghissimo. Non aveva altro da regalarmi". Sul registro del municipio gli abitanti di Dirkou sono tremila. Famiglie kanuri e tubù, qualche tuareg e i figli degli arabi libici scappati dall'occupazione italiana. C'erano soltanto la base dell'esercito e le cave di bicarbonato, qui intorno. Ma tre anni fa è esploso il traffico dei clandestini. E l'anno scorso anche la polizia ha voluto aprire un commissariato. Questione di soldi, razzie, estorsioni. Milioni di euro da dividere con i militari. Un rigido apartheid divide le notti nell'oasi. Tubù e kanuri dormono in case di sabbia e sale, la parte più antica. Gli arabi nelle villette con la tv via satellite. Gli stranieri nelle capanne e nelle pensioni oltre il grande mercato. Pat, 22 anni, nigeriana di Lagos, è la tenutaria di un hotel senza stelle, pavimenti di sabbia, una stuoia per letto: "Abitavo in Libia, a Zuwarah, proprio dove partono le barche per la Sicilia. Avevo un posto come questo, ospitavo i clandestini. Tre anni fa Gheddafi ha cacciato tutti i neri. Mi hanno presa e sono finita a Dirkou". Pat è anche proprietaria di un gruppo di ragazze. Altro genere di schiavitù. Tina O., 20 anni, nigeriana, è arrivata da un giorno. Il viaggio lo paga in natura. Ripartirà per la Libia soltanto quando avrà reso 50-70 mila franchi, più del doppio del biglietto. Ad Agadez l'hanno trattenuta due mesi. A Dirkou una prostituta costa 500 franchi, meno di un euro: Tina dovrà concedersi 140 volte prima di andarsene. La mattina il villaggio riapre gli occhi con la voce in falsetto del suo muezzin. Segue il trombettiere che dà la sveglia ai militari. Poi suona l'adunata. Abbaiano i cani randagi, ragliano decine di asini. Moses Yemeh torna di corsa sotto l'albero dove ha dormito. È disperato: "Il libico non vuole rimborsarci il viaggio, giura che non ha più soldi. Sono già andato al commissariato. Voglio denunciarlo. Ma alla polizia dicono che non possono fare niente". A mezzogiorno il camion di Ahmed El Falouki riappare davanti al commissariato. Stavolta al vecchio Mercedes mancano due delle sei ruote, ma il cambio sembra a posto. C'è anche il trafficante libico. Ride con i poliziotti, è felice. Ha appena incassato tre milioni e 800 mila franchi, quasi seimila euro. Centocinquantadue clandestini partiranno tra un'ora sul suo camion. Altri centocinquanta, traditi da Ahmed, stanno cercando un padrone per non diventare pazzi.

Confine Libia-Niger
Meglio nascondere la pelle bianca. Bisogna avvolgersi nel taguelmoust, il turbante dei tuareg. Come fanno loro, lasciar scoperti soltanto gli occhi. Perché la discesa porta dritto tra i pirati. Fuorilegge del deserto nel Sahara senza legge. La terra di nessuno tra il Niger e la Libia. Non sembrano trafficanti di clandestini questi. I sessanta camion qua davanti sono nuovi, ben tenuti, il telefono satellitare sul cruscotto e le gomme a posto. Gli immigrati viaggiano su vecchi modelli e se capita un guasto spesso muoiono. Questa è merce che quando parte non si ferma più: la cocaina arriva sempre a destinazione. È il listino prezzi sull'antica rotta per l'Europa. Gli uomini valgono meno di qualunque altro carico. Sessanta camion in mezzo al niente. Appesantiti di scatoloni fino al doppio della loro altezza. Sotto i teloni, tra le sigarette di contrabbando, ci sono tonnellate di droga. I grandi Mercedes verde militare aspettano il via. Forse stasera. È cocaina destinata all'Italia, alla Francia, all'Inghilterra, agli Stati Uniti. E la società di copertura che la prenderà in consegna nei porti del Mediterraneo dev'essere italiana. Su ogni faccia dei cartoni, lo stesso marchio: "Primo" e, a volte, anche "Italy", ma nessun indirizzo. L'accampamento segreto è in fondo a una specie di cratere. Guglie di roccia appuntita e dune di sabbia rossa tutt'intorno. Più o meno in mezzo all'enneri Achelouma, il letto di un grande fiume che sopravvive solo nell'acqua dei pozzi. Qui passa la rotta dal Sud America agli Stati Uniti. Un giro del mondo inventato dai narcos per confondere la Dea, gli 007 antidroga Usa: Colombia-Brasile-Oceano Atlantico-Nigeria-Niger-Nord Africa-Europa. È anche la rotta dei contrabbandieri che hanno portato armi, tecnologia e tabacco nella Libia sotto embargo. E se il governo di Tripoli accontenterà le pressioni europee e chiuderà all'immigrazione il valico di Tumù, questa resterà l'unica via per il traffico di clandestini verso l'Italia. Passa molto più a Ovest della pista di Dirkou. Salta tutti i posti di controllo di esercito e polizia. Ma è pericolosa come l'altra. Oltre l'enneri Achelouma non ci sono più pozzi. Si sfida l'Idhan Murzuq, un mare di sabbia come il Ténéré. Cento morti di sete nel 2000, tutti sullo stesso camion bloccato tra le dune. Novantatré nel 2001. E tanti altri dopo, che ormai qui non fanno più notizia. Già adesso da Agadez è la rotta che costa di più. Perché ora i trafficanti usano i fuoristrada, più veloci: 90 mila franchi, 138 euro e 40, invece dei 40 mila per il biglietto del camion. Ma gli autisti arabi, tuareg o tubù non sono così affidabili. Se i furgoni 4x4 affondano e si insabbiano per il troppo peso, loro fanno scendere tutti i passeggeri. Chiedono che spingano. E se ne vanno. Una trentina di morti ogni volta. Oppure abbandonano gli immigrati in piena notte, non appena brillano le prime luci della Libia. Nel buio limpido del deserto, Murzuq e l'oasi di Al Gatrun luccicano a 80-100 chilometri di distanza. Giorni di cammino nella sabbia molle, senza bere o con una borraccia leggera. Così, non appena sorge il sole, in tanti perdono l'orientamento. E nessuno tiene il conto delle stragi. Quello che succederà lo si vede già quando i militari libici sigillano la frontiera. Per le feste islamiche o le proteste italiane. Come in questi giorni. Il viaggio di cinquecento immigrati senza più nulla da mangiare si è fermato a Madama, l'ultimo avamposto dell'esercito del Niger. Sono ammassati all'ombra di un'acacia e sotto le ruote di due camion. La notte, 0 gradi, tremano per il freddo. Di giorno, 42 gradi, cercano di dormire. Per dimenticare che hanno fame. Il deserto è così. Quando si parte, bisogna arrivare a destinazione. Non si può aspettare. Nemmeno tornare indietro. Ai trafficanti poco importa che il confine sia aperto o chiuso. I camion da Agadez e dall'oasi di Dirkou partono lo stesso. È l'etica dei soldi. Un Mercedes 6x6 con duecento passeggeri aggrappati dietro incassa fino alla Libia 8 milioni di franchi a viaggio, 12 mila 300 euro. I 15 mila clandestini che ogni mese attraversano il deserto sono un affare da 600 milioni di franchi se viaggiano su camion: 923 mila euro al mese. E un miliardo e 350 mila franchi, più di due milioni di euro al mese, se salgono sui fuoristrada Toyota. Il rendimento è altissimo. Ai trafficanti un camion costa poco meno di 3 milioni di franchi per le sei tonnellate di gasolio necessarie e 160 mila franchi per i due autisti. Il guadagno pulito di ciascuna organizzazione è 4 milioni e 840 mila franchi, 7 mila 500 euro a viaggio. Lo stipendio di un impiegato qui non supera i 40 mila franchi, 61 euro al mese. Poco più della paga ufficiale in Niger di militari e poliziotti. L'organizzazione più feroce nello sfruttamento dei clandestini è la loro. I dodici posti di controllo da Niamey, la capitale, al confine libico rendono in estorsioni e razzie fino a due milioni di euro al mese. Una media di 20 milioni di euro all'anno e forse più. Senza "costi di produzione". Se non lo sforzo fisico per frustare, bastonare e torturare gli immigrati durante le perquisizioni. Un fiume di soldi che si raccoglie nei conti personali dei vari ufficiali di esercito e polizia. E che nella drammatica storia del Niger minaccia la fragile democrazia del presidente Mamadou Tandja. Ibrahim Manzo Djallo è direttore, inviato, redattore e grafico di Air Info, il giornale di Agadez. L'unico che con coraggio ha denunciato le rapine di polizia e militari. "Pattugliare il Mediterraneo e fare pressioni su Libia e Tunisia non basta: oggi le conseguenze le pagano solo gli immigrati che restano bloccati nel deserto. Il traffico va fermato in Niger ed è qui che l'Italia e l'Europa dovrebbero intervenire. Quello che sto cercando di fare - spiega Djallo - è raccontare alla gente di Agadez cosa sta accadendo. Perché se la polizia e i militari del Niger cominciassero davvero a fare il loro lavoro onestamente, il commercio di clandestini si fermerebbe. L'altra cosa che va detta a chi parte è che attraversare il Ténéré e il Sahara è un'esperienza tremenda. Le migliaia di ragazzi che si ammassano ad Agadez questo non lo sanno". La città del Mesallaje, l'antico minareto di fango rosso, è la porta del deserto: l'imbuto dentro cui passa tutto il traffico verso l'Italia. Chi arriva qui può scegliere. Comprare il biglietto in una delle quattro compagnie di trasporti all'autostazione. E affrontare da solo i pericoli del viaggio. Oppure rivolgersi a un kamacho in tacha, i procacciatori di passeggeri al servizio dei trafficanti. La mafia nigeriana offre di più. È il pacchetto "tutto compreso". E nel commercio di immigrati le regole della malavita possono essere una garanzia. Stanley Ugochukwu, 31 anni, riceve i clienti nel buio dell'Hotel Sahara. Fa l'accompagnatore e guadagna mille e 500 dollari al mese: "Prendo in consegna i clandestini ad Agadez e li porto a Tripoli. Tre per volta. Tengo i contatti con i camionisti e in Libia con le nostre case che ospitano gli stranieri. Seguo il viaggio via terra, il mare no: a quello pensano i libici. Certo è un servizio che costa: mille dollari a persona, poi se ne pagano altri mille per il mare. Ma è sicuro. Nessuno dei miei clienti è morto. Tutti hanno telefonato a casa una volta arrivati in Italia". L'altra grande organizzazione fa capo all'internazionale islamica. Una figurina di Bin Laden incollata al muro e il fotomontaggio di Saddam Hussein su un caccia americano sono le decorazioni dell'ufficio. Hassan Touré, 66 anni, di Timbuctu in Mali, una moglie e cinque figli, è il rappresentante di Agadez. Parla italiano: "Ho lavorato in Sicilia quattro anni, asfaltavo strade - sorride -. Adesso sono qui, è la vita. Noi ci occupiamo di immigrati dal Pakistan e dal Bangladesh. Mi hanno telefonato che a giorni ne stanno per arrivare cento". Niente somali? "Loro passano dal Sudan. Ma siamo sempre noi a portarli". Hassan Touré ha il callo scuro della preghiera sulla fronte: "La barba lunga l'ho tagliata per non avere problemi", ride. Il suo boss è un fanatico pakistano che vive a Niamey. Un altro è in Bangladesh. La base è in Pakistan. Adesso bisogna cercare di uscire dall'accampamento dei trafficanti di droga. Manca poco al tramonto. I Mercedes sono parcheggiati a ridosso delle rocce perché siano invisibili da lontano. E ogni camion ha il suo box di assistenza. Con i meccanici al lavoro, gli autisti che mangiano o dormono nelle baracche accanto. E due grandi container come magazzini: uno viene dall'Italia, l'altro dalla California. Tutto è ben mimetizzato nella sabbia. Soprattutto perché non venga visto dall'alto: questa gente ha più paura dei satelliti spia che dei curiosi di passaggio. I camionisti parlano arabo. Alcuni di loro hanno accento algerino e la barba lunga degli ex terroristi del Gia. Ma le targhe sui camion sono libiche. Le spedizioni partono da Agadez, una o due volte al mese. Anche 70 camion, in convoglio. Tutti scortati dai militari nigerini fino al confine. Vederli la notte è un treno di luci che illumina il deserto. Ufficialmente trasportano sigarette di contrabbando. Tutte marca Marlboro. Ma cosa viaggia sotto le stecche lo scoprirono sette anni fa i ribelli tuareg. Attaccarono un convoglio nel Ténéré e conquistarono un camion. "C'erano 500 scatoloni - ricorda un tuareg presente all'apertura del carico - e dentro gli scatoloni, sotto lo strato di sigarette, tonnellate di cocaina. La droga finì in Algeria in cambio di armi". Dalla partenza a Dakar, in Senegal, è passato un mese e mezzo. Il deserto ora scivola sotto il tropico del Cancro e scende verso Al Gatrun. Lì comincia la strada asfaltata e Tripoli è solo a un giorno di viaggio. Ma le speranze dei clandestini più sfortunati si fermano prima. A Sebha, tra i detenuti senza processo di Katib Rashia, la Prigione 10. La tortura è una prassi: bastonate sulla pianta dei piedi per gli immigrati che non possono pagare. Non c'è una regola precisa. A volte i poliziotti li lasciano andare in cambio di un po' di soldi. A volte li rimandano in Niger. Magari solo per dimostrare all'Italia la fermezza di Gheddafi. Pierjean Nana, 42 anni, idraulico, nato in Ciad, moglie e tre figli in Camerun, è arrivato vivo fino in fondo. Ora dorme in un centro di accoglienza del Comune di Milano. "Quando sei sul camion in mezzo alla sabbia hai paura di morire - aveva detto una sera di fine ottobre, guardando le volte della stazione Centrale -. E quando sali sulla barca in Libia pensi che potrebbe affondare. Ma pensi anche che tornare indietro vorrebbe dire affrontare di nuovo il deserto e le torture dei militari. Allora vai avanti. Perché ormai l'Italia è solo a poche ore". Pierjean si è tuffato davanti a Lampedusa un anno fa e ora ha un permesso di soggiorno per motivi umanitari. I nigeriani che erano sulla barca con lui sono stati espulsi. Nel grande Monopoli in cui ci si gioca la vita hanno perso. Un aereo li ha riportati in Africa. Al punto di partenza.