Etnografia del carcere: il caso di Borgo San Nicola
Giuseppe Gaballo
1. Premessa: un’attenzione scientifica verso il carcere
L’interesse per il carcere non può essere lasciato solo alle necessità
strategiche della singola testata giornalistica, spesso attenta soprattutto
agli eventi «estremi» della realtà penitenziaria. Talvolta
l’argomento carcerario è assunto in ambito politico per la rilevanza
sociale ed economica che esso sembra assumere in determinati periodi; rimane,
però, sempre all’interno di logiche “altre” rispetto
all’interesse che potrebbe destare nello scienziato sociale, comunque
costruite in un contesto mass-mediatico, dentro cui si creano discorsi pro o
contro l’istituzione penale. Come fa notare Foucault, in Sorvegliare e
punire, i discorsi sul carcere sono sempre in funzione della sua esistenza,
con l’unico fine di controllare e “ingabbiare”, per un certo
periodo di tempo, agenti devianti. Questi ultimi, una volta attaccata loro l’etichetta
di pregiudicato, subiscono o accentuano il distacco dalla “società
civile”, confermando la “diversità-inferiorità”
e giustificando l’atteggiamento sociale del potere di “controllo-punizione”:
la società, così, costruisce un circolo vizioso che si apre con
una condanna giuridica e si chiude con una più profonda di natura genericamente
morale, ma più specificamente politica, economica, sociale.
Sarebbe interessante affiancare la teoria dei fatti sociali di Durkheim, o lo
struttural-funzionalismo di Talcott Parsons, al paradigma costruzionista-interpretazionista,
per realizzare tutto un filone di ricerche sull’istituzione penale in
Italia che sia supportato teoricamente. Da una parte, metodi e tecniche quantitative
servirebbero a entrare nel problema, individuando alcuni punti caratterizzanti
le carceri italiane: la forma e le logiche della loro specifica strutturazione,
la tipologia funzionale, il numero di detenuti in un determinato arco temporale,
la gerarchia professionale, gli “incidenti di percorso”, fino a
rilevare fenomeni propri di un’analisi microsociologica; dall’altra,
realizzare una serie di ricerche di tipo qualitativo, entrando così nel
vivo dell’ambiente carcerario, per descrivere e analizzare i processi
di costruzione quotidiana di questa specifica e complessa realtà, annotando
linguaggi, culture, movimenti e azioni degli attori sociali presenti. L’intento
sarebbe quello di “aggredire” il sistema penitenziario a 360°,
istituendo un dialogo tra metodologie quantitativa e qualitativa, attraverso
cui l’indagine scientifica in Sociologia potrebbe continuare, nello specifico
del carcerario, un cammino di maturità; credo che questo oggetto di studio
sia importante per la prolificità della conoscenza scientifica e per
la sua complessità e rilevanza sociale, politica, giuridica, economica,
nonché morale.
Da una ricerca condotta da chi scrive risulta che il carcere di Borgo San Nicola,
ubicato fuori dalla città di Lecce, interessa importanti istituzioni dello
Stato e della Società civile, ma anche realtà sociali private, legali
e non; e ancora, un sistema “vivente”, creato dalla Società,
o meglio dall’atteggiamento di questa, insomma una sorta di macro-account
nei confronti della criminalità. Non si può tralasciare, inoltre,
che la Casa Circondariale leccese può ben considerarsi una cittadina, certamente
molto particolare, al cui interno esistono dinamiche sociali molto interessanti.
Si pensi, ad esempio, al Principio dell’associazione differenziale di Sutherland
e alla Teoria dell’agire comunicativo di Habermas [1],
a partire dai quali si possono mettere a confronto due mondi vitali, due sotto-sistemi,
quindi due culture diverse all’interno dello stesso sistema, il Carcere,
vale a dire la società civile rappresentata e organizzata nelle figure
professionali e la criminalità rappresentata dai detenuti: il mondo vitale
detentivo sembra essere il luogo dell’agire comunicativo, nel quale esiste
e si riproduce una specifica sub-cultura, si rafforza la solidarietà sociale
tra i “membri” [2] e
non mancano processi di socializzazione e risocializzazione, che raggiungono l’apice
nel fenomeno dell’affiliazione in organizzazioni criminali storiche [3].
Si pensi, ancora, a come l’argomento-carcere può essere innestato,
all’interno del paradigma sociale, su un discorso che tratti della criminalità
come problema sociale (Durkeim, Weber, Scuola di Chicago, Struttural-funzionalismo)
[4]; inoltre, condurre un’analisi
critica, sempre a partire dal sistema penitenziario, sul rapporto tra devianza
(e quindi criminalità) e controllo sociale in Parsons; dare spazio agli
apporti della sociologia qualitativa, per giungere al complesso ed eclettico contributo
di Goffman, a sua volta influenzato da quattro tradizioni teoriche (poi rielaborate
fino a distanziarsene): la Scuola di Chicago, Simmel, E. C.Hughes e Durkeim [5].
2. Un approccio etnografico in carcere: l’iter di ricerca
L’occasione di condurre una ricerca di tipo etnografico nella Casa Circondariale
di Borgo San Nicola, in Lecce, mi è stata offerta da un tirocinio di
140 ore come educatore, svolto dal 16 novembre del 1999 al 2 agosto del 2000.
Prima di affrontare questa esperienza completamente nuova, ho cercato di prendere
coscienza e annotare tutte le informazioni in mio possesso sulla realtà
carceraria in genere, in particolar modo gli stereotipi sulle condizioni di
vita del detenuto. Questa parte di lavoro, preliminare all’osservazione
diretta dei fenomeni, è stata necessaria perché le mie “pre-nozioni”
non si traducessero in “pre-giudizi”, capaci di sviare e distorcere
il “dialogo” tra me ed il complesso oggetto di studio. Inoltre,
soprattutto all’inizio dei miei contatti con l’ambiente, dovevo
porre una certa attenzione al controllo delle emozioni.
Lo strumento più importante, che ha accompagnato lo “sguardo”
dei fenomeni, è stato il diario di bordo; proprio uno dei punti cardine
per un etnografo è quello di non fidarsi della propria memoria, ma cercare
di annotare tutto ciò che potrebbe ritenere utile per una descrizione dettagliata
della realtà sociale, oggetto di studio. L’approccio iniziale della
mia ricerca è molto simile a quello suggerito da Glaser e Strauss con la
loro Grounded Theory [6]: inizialmente
la letteratura sociologica, da me letta, riguardava i modi di condurre una ricerca
etnografica, tralasciando inizialmente teorie complesse per la conoscenza dei
fenomeni che mi apprestavo a studiare. Букмекер в зоне ру работает в соответствии лицензией, которая была выдана в 2009 mostbet Однако участие в акции никак не ограничивает игрока в ставках. Он может спокойно заключать пари на любые
Un altro passo è stato quello di negoziare l’accesso, non tanto di
natura istituzionale (grazie ad una convenzione stipulata tra Università
e Istituto penitenziario), quanto di tipo sociale: la disponibilità di
un’educatrice-tutor, quale gatekeeper della situazione (un po’ come
Doc con W. F. White in Street Corner Society) [7],
mi è stata fondamentale per conoscere ed essere accettato da quasi tutti
gli attori sociali incontrati. Oltre a ciò, mi è stato necessario
raggiungere un equilibrio, vantaggioso ai fini della ricerca, tra il mio ruolo
di tirocinante e quello di etnografo: nei primi mesi, infatti, la difficoltà
maggiore era determinata dalla grande quantità di informazioni che dovevo
gestire. In seguito sono riuscito a capire la struttura fondamentale delle relazioni
tra le diverse figure professionali e l’importanza che queste hanno per
la costruzione della figura e dell’identità di detenuto. L’impossibilità
di aggirarmi solo all’interno della Casa Circondariale, non mi permetteva
di seguire un percorso osservativo autonomo; perciò sfruttavo l’iter
“naturale” dell’educatrice per annotare tutti i dettagli possibili,
utili a una descrizione della fisicità dell’istituto, degli incidenti
relazionali tra attori sociali, delle complicità, dei colloqui formali
e delle conversazioni spontanee. Non meno importante è stato l’apprendimento
del linguaggio tecnico ed informale tipico del mondo carcerario leccese.
In questa prima fase si andava delineando la ricchezza delle mie posizioni osservative
rispetto all’oggetto di studio: da un’osservazione di tipo periferico
a una di tipo attivo, fino all’osservazione partecipante, quando i detenuti
mi consideravano una figura istituzionale del carcere, ossia l’aiutante-educatore
[8].
In seguito, mi è stata necessaria una pausa al fine di riflessione sulle
informazioni raccolte, sulle difficoltà di natura metodologica e tecnica
e per organizzare un piano di osservazione su alcuni punti, per mezzo dei quali
realizzare una descrizione soddisfacente della realtà carceraria leccese.
Per prima cosa ho preso in considerazione gli insegnamenti dei Sociologi di Chicago
[9], dell’interazionismo simbolico
[10] e dell’etnometodologia,
per i quali l’etnografo è chiamato a prestare particolare attenzione
al modo di relazionarsi degli individui e ai significati che gli oggetti, le azioni
e gli eventi hanno per loro. Attraverso l’etnometodologia, poi, e l’approccio
goffmaniano [11], ho voluto prendere
in considerazione tutti quegli atti, comportamenti, situazioni, parole e interazioni
che in apparenza non rivelano nulla (o poco) agli attori sociali, ma che nascondono
veri e propri meccanismi organizzativi, strutturali, fondamentali per la costruzione
sociale della realtà carceraria. Seguendo le medesime linee teorico-metodologiche
ho approfittato della ricerca su un’istituzione totale per osservare le
dinamiche del potere, secondo il concetto elaborato da Foucault; in particolare,
si può mettere in evidenza il gioco di legittimazione e giustificazione
reciproche tra il carcere e i saperi disciplinari (giurisprudenza, criminologia,
psicologia, una certa sociologia, pedagogia e anche religione) [12].
Su queste linee, insomma, ho impostato la seconda fase, la più duratura,
dalla quale sono emersi i punti centrali dell’osservazione: lo spazio e
il tempo, l’organizzazione formale e informale dell’istituto, la subcultura
carceraria, i rapporti interpersonali e i rapporti con la società esterna.
Ciò mi ha permesso di costruire delle interviste semi-strutturate (in base
alle aree tematiche emerse nella seconda fase) e realizzare dei colloqui etnografici:
siamo nella terza ed ultima fase. Questa è stata preceduta dalla somministrazione
di interviste strutturate ad agenti, soprattutto, e a educatori per capire il
modo con cui queste figure rispondono a “delicate” domande sull’istituzione.
Le interviste hanno riguardato i seguenti attori sociali: il comandante, un criminologo
clinico e un medico di guardia del carcere, un agente “scelto” (penultimo
grado nella gerarchia della polizia penitenziaria), un insegnante, un ex detenuto
(per associazione mafiosa) e uno in semilibertà (ex appartenente alla Sacra
Corona Unita, da adesso in poi Scu), il cappellano del Circondariale, un educatore
e 5 detenuti (una donna, due uomini per reati comuni e due per reati quali associazione
mafiosa e associazione finalizzata allo spaccio internazionale di stupefacenti).
Per alcuni di questi non ho potuto usare il registratore perché intervistati
all’interno del carcere. Inoltre, ho approfittato dei colloqui con altri
detenuti, avuti durante tutto il mio tirocinio, per ottenere indirettamente ulteriori
notizie sulla realtà di Borgo San Nicola.
3. La dimensione spazio–temporale del carcere
Occorre fare delle precisazioni. Per spazio carcerario non ho inteso riferirmi
solo alla staticità degli edifici e alle misure dell’istituto,
certamente necessarie per avere un’idea della conformazione e delle dimensioni
dell’intero complesso, ma soprattutto alla spazio “dinamico”,
ossia alla funzione cui è preposto ogni singolo luogo.
Ora, come riferitomi dalle diverse figure professionali che vi lavorano, Borgo
San Nicola ha sostituito le vecchie e fatiscenti sedi di “Villa Bobò”
e “San Francesco”, situate nella città di Lecce, ed è
collocato ad un km dal più vicino complesso residenziale. Inoltre, la
struttura è stata pensata per rendere più agevole il lavoro degli
agenti penitenziari e degli altri operatori, ma soprattutto per garantire un
maggiore controllo dei detenuti: infatti, la denominazione di “super-carcere”
dipende dalla dimensione dinamica dell’esercizio di potere, più
che dalle dimensioni dell’intero complesso, che si estende per un’area
di circa mille m2. A partire da queste premesse, vediamo le caratteristiche
della realtà penitenziaria leccese.
La struttura esterna è completamente circondata da due ringhiere in ferro
alte 5 metri, tra le quali c’è una strada che permette di giungere
ai diversi blocchi (in gergo penitenziario significano gli edifici del carcere),
senza passare dall’interno: è importante per i giudici che devono
presenziare a un processo nell’aula bunker (corte d’appello). Ma,
solo oltrepassando la ringhiera interna si comincia a percepire la realtà
di questa istituzione totale: tutti, infatti, sono costretti ad attraversare blindati
e cancelli e, al contempo, chiederne il permesso. Esemplare l’affermazione
di un insegnante, da me intervistato: «Io, per entrare nella mia classe
in C/2 [13], attraverso 18 cancelli,
dei quali solo alcuni sono aperti». Prima ancora, però, ogni individuo,
che può entrare nella struttura, è costretto a citofonare affinché
gli vengano aperti i due primi cancelli dal primo “block house”: nel
tragitto, compreso tra i due ostacoli in ferro, si è osservati dagli agenti
preposti al controllo delle entrate e delle uscite. Due sono gli edifici denominati
“block house”: il primo, oltre a svolgere la funzione prima citata
e a trattenere inoltre un documento d’identità, permette al suo interno
la perquisizione dei parenti dei detenuti; il secondo annota i mezzi e gli uomini,
prendendone le generalità, la funzione, il motivo e l’orario di entrata
e di uscita. Quest’ultimo appartiene strutturalmente alla caserma della
polizia penitenziaria, la quale è affiancata dall’edificio che ospita
gli uffici della direzione e dell’area amministrativa. Ci addentriamo ora
nella zona di sicurezza, vale a dire l’area dei padiglioni detentivi.
Superato un portone scorrevole, dal quale possono passare grossi automezzi,
s’incontra il blocco del Femminile, mentre a 300 m si trovano i padiglioni
del Maschile. Il tutto è circondato da alte e spesse mura, sulle quali
sono situate delle postazioni di avvistamento; da qui gli agenti controllano
l’intera area, sia quella interna sia quella esterna, sia il traffico
aereo: infatti, fino ad una certa quota, i mezzi aerei non posso sorvolare il
complesso carcerario.
Tornando all’organizzazione fisica dei padiglioni, devo premettere che
essi hanno le medesime caratteristiche generali: un sito di guardia per il controllo
delle entrate e delle uscite, dei larghi corridoi per far passare a giusta distanza
due diversi gruppi di detenuti, l’ufficio dell’ispettore responsabile
dell’intero blocco (o padiglione), altre stanze adibite per i colloqui
con gli operatori dell’area trattamentale e con gli avvocati, stanzini
per conservare gli oggetti dei detenuti, diverse altre stanze per i vari corsi
professionali o scolastici e per le funzioni religiose. Al Maschile si trova
anche un teatro di 500 posti con un’ottima acustica. Inoltre, ogni blocco
comprende i cortili per la cosiddetta ora d’aria, separati perché
possano usufruirne le due categorie principali del carcere: i differenziati
e i comuni. I corridoi e le celle sono illuminati sia di luce naturale sia di
luce artificiale, come prevedono la Legge “Gozzini” e il regolamento
interno nazionale, DPR n. 230/2000.
Grossa importanza rivestono le celle, perché in esse l’80% dei
detenuti trascorre l’intera giornata per insufficienza di attività;
infatti, il carcere, pur avendo una capienza di neanche 600 posti, nel periodo
della mia ricerca ospitava circa 1200 detenuti, di cui meno di duecento frequentavano
la scuola e circa centosessanta usufruiva del lavoro. Quindi, ogni detenuto
trascorre venti ore in cella e quattro in cortile, che può anche rifiutare;
inoltre, sempre a causa del sovraffollamento, la cella, pensata per un solo
individuo, al maschile è occupata anche da tre detenuti, costretti a
fare i turni per rimanere in piedi. Per rendere l’idea cerco di riportarne
le dimensioni. L’area della stanza raggiunge i 10 m2 circa, “riempiti”
dai due ai tre posti letto, da un tavolo, dalla televisione e dal bagno. La
cella è il luogo primario del controllo: sia al blindato che la chiude,
sia dalla parte del muro che corrisponde al bagno, vi è una piccola finestra
dalla quale l’agente è tenuto a ispezionare.
Riporto alcune testimonianze a proposito. Il criminologo e psicologo, da me intervistato,
il quale lavora nel settore dal 1978, riferisce un dato preoccupante: «Con
la sua struttura spazio-temporale il carcere comporta sofferenza fisica che, portata
alla coscienza, crea un disagio psicologico, fino alla sua possibile cronicizzazione
in nevrosi. Al contrario, sofferenze inizialmente psichiche portano all’inevitabile
somatizzazione: coliti varie, dolore al petto per ansia, gastriti, problemi epidermici,
ecc.». Interessante la critica di un insegnante del Circondariale: «Questa
nuova struttura, che ha tutte le potenzialità per essere vivibile con ampi
spazi e illuminazione, in realtà è più alienante delle vecchie
strutture, assolutamente alienante, a dismisura d’uomo. Ci sono, per esempio,
scantinati enormi dove ci si perde; io ancora rischio di perdermi». Si meraviglia
di come i detenuti non siano diventati delle «bestie», vivendo per
20h al giorno nello spazio angusto della cella: «…io e lei diverremmo
dei rabbiosi o dei depressi con turbe autolesionistiche». Molto spesso i
detenuti non sanno della presenza degli spazi per le attività ricreative,
ma venendone a conoscenza sfogano la loro rabbia attraverso i giornali; ecco cosa
scrisse un detenuto: «Vorrei segnalare le sofferenze mie e del 90 per cento
della popolazione detenuta: sulla struttura penitenziaria c’è poco
da dire, pur essendo un nuovo complesso ci sono celle in molte sezioni, dove in
uno spazio di due metri e mezzo per tre, ci sono tre persone, con due letti a
castello, e uno sotto il muro, frontale. Non si può neanche respirare…
Ma il fatto più grave è che parlando, sia con il personale del penitenziario
che con i detenuti, sono venuto a conoscenza che ogni sezione ha a disposizione
sale ricreative, con tavoli di ping-pong, calcio balilla ecc.. Non c’è
nessun tipo di socialità neanche per cinque minuti. Ci sono campi sportivi
e palestra, ma molti detenuti sono costretti a giocare nelle aree di cemento,
rompendosi braccia, collo, gambe e chi più ne sa più ne metta…»
[14].
Per questo motivo ho voluto chiedere la causa del mancato uso delle aree in
questione e alcune risposte sono state sorprendenti; infatti, oltre al sovraffollamento
e alla carenza del personale di polizia penitenziaria, il cappellano e il criminologo,
da me intervistati, hanno aggiunto che chi ha costruito l’istituto, non
ha previsto dei passaggi di sicurezza per far transitare i ristretti in tutta
tranquillità. Per farmi capire il grande spreco per l’inutilizzazione
dell’intera struttura, il sacerdote riferisce che il luogo detentivo,
ossia le celle, occupano meno di un terzo del complesso di Borgo San Nicola.
L’ozio forzato, quale primo effetto dell’inagibilità dei
luoghi creativi, porta a drammatiche e curiose conseguenze, alcune delle quali
ho poco sopra accennato. Il medico di guardia del carcere, mi ha raccontato
che molti detenuti improvvisamente si mettono a gridare, si irrigidiscono o
rompono tutto, sono pallidi, ma, una volta usciti dallo spazio angusto della
cella e lasciati andare per il corridoio, si calmano, riprendono colorito e
cominciano a scherzare. Il fenomeno “curioso” si nota in cortile
ed è denominato la sindrome del 4x4: ho visto spesso detenuti che in
gruppo di quattro o cinque corrono su e giù, mantenendo sempre lo stesso
passo e girandosi velocemente insieme, appena arrivati a quattro metri dal muro.
“Semilibertà”, un detenuto da me intervistato, mi ha riferito
che quel modo di passeggiare freneticamente serve a sgranchirsi le gambe, ma
costituisce anche un fatto culturale che ha origine nello spazio ristretto delle
celle di un tempo. Ma, se da una parte, i detenuti sono costretti a vivere uno
spazio di pochi metri, gli operatori coprono lunghe distanze per recarsi nei
loro uffici, in particolare quelli dell’area trattamentale: blindati,
cancelli, scale, strade e corridoi sono il loro pane quotidiano. La mia tutor,
educatrice al Femminile e al Maschile, rischiava di perdere anche tre quarti
d’ora per spostarsi nei luoghi di lavoro. Non si può dire la stessa
cosa per gli agenti, i veri “signori” del carcere: ognuno ha il
suo posto, in base al compito assegnatogli, e l’ottima disposizione all’interno
della struttura permette loro di dettare i tempi di tutti gli attori sociali,
che si avventurano nella zona di sicurezza.
Per capire meglio il fenomeno “carcere”, ho voluto rivolgere la mia
attenzione su quello che ho definito “Spazio condiviso”: con questa
espressione intendo tutti i momenti in cui i diversi attori sociali occupano un
medesimo luogo e la disposizione dinamica con cui lo occupano, in interazione
comunicativa o interpersonale in genere. Esso rappresenta un fenomeno complesso,
implicante la natura dei rapporti sociali tra le varie categorie, e capace di
svelare le trame del potere di controllo, talvolta reprimente quei movimenti che
sarebbero naturali in qualsiasi altro contesto. Il primo spazio condiviso è
quello della cella, ma qui si realizza il paradosso per eccellenza di questo istituto:
ad una forzata condivisione dello spazio corrisponde un profondo senso di solitudine.
I corpi ristretti sembrano schiacciarsi l’uno sull’altro, ma la mente,
come riferiscono i protagonisti, vaga altrove. La disciplina dei corpi è
presente nei corridoi, perché i detenuti devono essere controllati dall’agente
che li segue, soprattutto quando incontrano altri compagni: anche qui, tanto spazio
condiviso, ma una comunicazione carente. Nello spazio condiviso dell’ufficio
degli educatori, la disposizione dei corpi dà una particolare immagine
di potere, quello delle “distanze ostacolate”: il detenuto deve oltrepassare
la soglia della stanza, chiede permesso, la sedia che occupa dista un metro e
mezzo da quella dell’operatore, mentre una grossa scrivania li separa. Il
tavolo simboleggia il distacco istituzionale che un operatore deve avere nei confronti
del ristretto, nel nome del “dio Sicurezza”. Soltanto un educatore
o un cappellano possono coprire le distanze siderali che l’ambiente sociale
impone; ma, affinché un detenuto possa condividere pienamente il luogo
con questi operatori, deve solo sperare nel movimento di questi nell’aggirare
gli ostacoli della situazione: il che accade poche volte. Quanto più un
ristretto si trova in contatto con una figura professionale, tanto più
gli è imposta l’immobilità, il controllo delle distanze. L’esempio
più pertinente si verifica nella stanza del comandante, nella quale si
istituiscono i Consigli di Disciplina. La disposizione dei corpi è quella
tipica delle aule di tribunale: l’agente che accompagna il “malcapitato”
indica il punto esatto sul quale il detenuto deve posizionarsi, tanto che può
subire un rimprovero se si sposta di mezzo metro; anche lo spazio psicologico,
noto comunemente come confidenza, deve essere disciplinato; davanti al detenuto
siedono gli operatori, che attendono in giudizio il suo messaggio. Il detenuto
è costretto a subire i limiti dello spazio condiviso anche nella sala dei
colloqui: qui avviene l’incontro con i parenti, ma l’eccessiva vicinanza
dei compagni non permette all’individuo di potersi esprimere liberamente
con i propri cari. Insomma, la pena che il detenuto si trova a scontare non è
solo quella comminatagli dal giudice, perché vi è un tipo di punizione
che non è scritta e si aggiunge a quella giuridica: è la tortura
dello spazio ristretto, una realtà che non permette alcun movimento o alcuna
attività e, certamente, non prevista dal codice di procedura penale o da
qualche regolamento interno [15].
È sorprendente la varietà con cui si presenta il tempo tra le
diverse categorie della Casa Circondariale di Lecce. Ognuna di esse ha un proprio
orologio, le cui lancette viaggiano a una diversa velocità: si va dall’infinito
presente del detenuto alla velocità della luce di alcuni educatori e
di un cappellano, dalla semi-tranquillità di una parte degli agenti alla
confusione frenetica di altri colleghi e così via. Molto spesso, però,
le varie dimensioni temporali s’incontrano, avvantaggiando qualcuno, e
si scontrano a danno dei più.
La maggior parte dei detenuti, come sopra riferito, vive 20h al giorno in cella,
per cui subisce la “dilatazione del tempo”, non scandita dagli orari
stabiliti dall’amministrazione penitenziaria se non per la “conta”
degli agenti, ossia gli appelli per verificare la presenza del detenuto. In
questo arco temporale ogni individuo può fare quello che vuole, anche
lasciarsi andare completamente, magari saltando la colazione, il pranzo o la
cena. La dimensione temporale manifesta pienamente l’immagine dell’istituzione
totale: tutto è disciplinato da un altro, per cui il detenuto non si
appartiene, ma deve attendere le figure che gli permettano di muoversi dentro
e fuori la sua stanza. Solo il rifiuto di sé, dei suoi bisogni corporali
e comunicativo-relazionali può liberarlo dal circuito della subordinazione
totale della sua vita. Una sorte simile tocca ad alcuni agenti, dalla quale
si può notare come lo spazio e il tempo concorrano alla realizzazione
del potere di controllo. Il comandante, dopo avermi parlato dell’importanza
di uno spazio grande, dice: «Il controllo da parte degli agenti, l’ordine
e la sicurezza dell’intero carcere sono direttamente proporzionali alla
grandezza dello spazio. La conseguente maggiore articolazione del tempo permette
molti “divieti d’incontro” tra sezioni e tra detenuti. Nelle
vecchie carceri vi erano diverse sezioni durante l’ora d’aria, adesso
non più. Si va una sezione per volta…». Il tempo della socialità
è, così, spezzettato a tutto vantaggio della polizia penitenziaria;
la possibilità, infatti, di avere dei detenuti isolati a gruppi di due
o tre, dipende proprio dallo spazio-tempo del nuovo complesso. La tirannia del
tempo che controlla, però, non sempre è una buona cosa per gli
agenti tutti; l’ottima sistemazione strategica, istituita all’interno
dell’istituto, permette alla maggior parte di loro di passare il tempo
nell’ozio o nel compiere mansioni di poco conto e, al contempo, dettare
i tempi degli altri operatori, oltre quelli dei detenuti: ciò fa capire
la marcata propensione della realtà carceraria verso il settore della
sicurezza, magari a danno dei tempi delle attività trattamentali. La
disposizione quasi perfetta del personale di polizia penitenziaria (e qui sta
la somiglianza con il tempo dei detenuti) non fa altro che dilatare il vissuto
soggettivo del tempo: molti non vedono l’ora di tornare a casa, guardano
sempre l’orologio, e così facendo – si sa – il tempo
non passa mai.
Tutt’altra cosa è il tempo degli altri operatori, soprattutto educatori
e cappellani, per i quali è una dimensione talmente sfuggevole, che per
quanto si possa essere sbrigativi il lavoro è compiuto quasi sempre a
metà: ampi spazi ed enorme attività burocratica tolgono a molti
la possibilità di incontrarsi più spesso con i detenuti.
4. L’organizzazione di Borgo San Nicola
Come si è notato, il tempo e lo spazio sono dimensioni inscindibili e
la stessa organizzazione non può tralasciarne l’importanza: è
saldo anche il legame tra le attività, la cultura dei detenuti e le tre
coordinate carcerarie precedentemente menzionate. Per questo preferisco trattare
l’argomento della divisione dei detenuti in questo paragrafo, diversamente
da quanto ho fatto nella stesura del mio lavoro.
Prima di tutto preciso che Borgo San Nicola, nella sua organizzazione, dipende
come tutti gli istituti penitenziari dal Decreto legislativo n. 444/92, sulla
base della Legge di Riforma n. 395/90, la quale fissa il “Principio delle
Aree”, secondo cui si raggruppano per affinità di competenze le diverse
attività istituzionali [16].
Alla base della trasformazione delle carceri ci sono la Costituzione e le leggi
costituzionali, i diversi atti legislativi, primo fra tutti la Legge n. 354/75
(nota come “Riforma Gozzini”) e le sue modifiche avvenute con la Legge
n. 663/86 [17], il nuovo regolamento
di esecuzione DPR n. 230/2000 e consuetudini varie. Il tutto costituisce il punto
di riferimento per l’attuazione di un regolamento interno, che disciplina
l’organizzazione di una particolare realtà carceraria. Questo è
predisposto formalmente da una Commissione composta dal magistrato di sorveglianza
che fa da presidente, dal direttore dell’istituto, dal medico incaricato,
da due educatori (uno dei quali è responsabile del Circondariale, l’altro
della Reclusione), da un assistente sociale, da un cappellano, dall’addetto
alle lavorazioni e ci si può avvalere di un esperto, come per esempio il
criminologo clinico [18]; in pratica,
però, sull’attuazione del regolamento incide anche il corpo di polizia
penitenziaria, rappresentato dal comandante e dagli ispettori. Da ciò che
prevede il regolamento interno si può capire meglio quanto la vita del
detenuto sia nelle mani di un potere totalizzante:
• gli orari di apertura e di chiusura dell’istituto;
• gli orari relativi all’organizzazione della vita quotidiana della
popolazione detenuta o internata;
• le modalità relative allo svolgimento dei vari servizi predisposti
per i detenuti e per gli internati;
• gli orari di permanenza nei locali comuni;
• gli orari, i turni e le modalità particolari per i colloqui e
la corrispondenza anche telefonica;
• le affissioni consentite e le relative modalità;
• i giochi consentiti.
L’interesse per l’organizzazione penitenziaria interna è
derivato dall’osservazione e dall’ascolto dei discorsi tra educatori
e tra questi e i detenuti sull’arbitrarietà con cui i diversi operatori
agiscono nel portare avanti la realtà carceraria, talvolta mancando nel
rispetto formale delle regole.
Al momento della mia ricerca esisteva un vecchio regolamento, che i detenuti
non conoscevano, quando invece sono tenuti a saperne l’esistenza e ad
averne una copia disponibile. L’incertezza sul comportamento da assumere
creava una certa ansia tra gli ospitati, per cui avevano paura che un qualsiasi
loro atto potesse portare alla trasgressione di una regola e alla conseguente
punizione. Vediamo com’era la situazione dalle parole di un agente e di
un detenuto, da me intervistati; il primo afferma: «Il regolamento esiste,
dovrebbe farlo la direttrice con la firma anche del comandante, ma è
informale: quello formale non c’è mai stato, ce lo facciamo noi
come vogliamo»; mentre il secondo lamenta: «Invece, a Lecce, ogni
tanto si vedono attaccare alle bacheche della sezione e del passeggio delle
regole, che poi bisogna ricordare nei minimi dettagli».
L’arbitrarietà dell’organizzazione, insomma, dipende dalla
convenienza e dalle esigenze del momento, soprattutto legate al sovraffollamento
e alla carenza di spazio per i detenuti e del personale di polizia penitenziaria:
emerge una sorta di “disorganizzazione organizzata”, ma anche una
certa “organizzazione disorganizzata”.
Il carcere leccese, essendo una Casa Circondariale, appartiene alla categoria
degli istituti di custodia cautelare, dove alloggiano i condannati alla pena
dell’arresto e della reclusione non superiore (o con un residuo di pena
non superiore) ai 3 anni. Del complesso, però, fa parte un blocco Reclusione
con un’ulteriore diversificazione delle categorie detentive. Questa organizzazione
deve tenere presente la gravità del reato, la pericolosità del
reo e la conseguente attività trattamentale (vedi tabella).
FEMMINILE (unico blocco) |
MASCHILE |
Detenute comuni e differenziate o alta
sorveglianza (A.S.)
(sono le giudicabili, le appellanti, le ricorrenti e le definitive) |
Circondariale (imputati):
C/1 - detenuti A.S. e 41/bis di transito,
C/2 - Comuni e Precauzionali;
Reclusione (condannati):
R/1 - comuni e Precauzionali,
R/2 - detenuti A.S.;
T/1 e T/2 per detenuti in transito |
INFERMERIA
alta sorveglianza e comuni (maschile e femminile) |
Il “41/bis” è un articolo dell’ordinamento penitenziario,
che permette l’isolamento dei boss mafiosi, affinché non continuino
a comandare i loro “picciotti”. Il comandante mi disse che si era
opposto alla permanenza di un simile istituto per le seguenti ragioni: «Con
la Legge Martelli il carcere duro funzionava per come era previsto, ma adesso
si sono allargate le possibilità dei ristretti di avere contatti con
l’esterno: colloqui con i parenti, scambio epistolare e telefonico; e
con l’interno: il passeggio insieme agli altri della medesima categoria,
l’avere dei compagni in cella». A questo punto, ricorda, boss di
“Cosa Nostra”, della “Camorra” e della “’Ndrangheta”
che hanno soggiornato nelle carceri pugliesi, si assicurano manovalanza fedele
all’interno degl’istituti, formando e consolidando nuovi clan, dai
quali poi prese vita la mafia pugliese che molto ha imitato in cultura, gerarchie
e metodi dalle organizzazioni ospitate. Ecco, per il carcere leccese, qual è
il maggiore problema: la sicurezza, il controllo della comunicazione e delle
attività illecite spesso commesse o, almeno tentate, dai detenuti, compresi
la formazione o il consolidamento di gruppi organizzati criminali. E proprio
qui si ha il paradosso: mafiosi che si trovano tra i comuni, perché condannati
per un reato diverso da quello di associazione mafiosa, e giudicabili costretti
a convivere con i condannati, che per essere imputati di altro reato vengono
alloggiati nel Circondariale. Così la suddivisione dei detenuti, sopra
esposta, viene quasi sempre meno, e a ciò si aggiunga un sovraffollamento
eccessivo: conseguentemente l’attività trattamentale cozza con
l’influenza delle subculture criminali, presenti nel singolo carcere.
La società civile, intanto, tenta la risocializzazione, costruendo al
detenuto un percorso totalizzante, che si basa essenzialmente sulla disciplina
secondo il principio del “bastone e la carota”:
• colloquio di primo ingresso (con psicologo, educatore e assistente sociale),
• osservazione (da parte delle figure preposte all’attività
trattamentale: oltre quelle su indicate, il direttore, il cappellano, gli agenti,
il magistrato di sorveglianza),
• équipe di osservazione e trattamento per stilare un iter rieducativo
e giudicare il comportamento del ristretto,
• colloqui di sostegno e di osservazione (ad opera dell’educatore),
• relazione di sintesi redatta dall’educatore, dallo psicologo e
dall’assistente sociale per proporre un trattamento in base alla personalità
dell’individuo e alla gravità del reato,
• rapporti disciplinari in caso di atto ritenuto negativo dagli agenti,
• conseguente consiglio di disciplina e, forse, punizione,
• costante aggiornamento della cartella personale di ogni detenuto.
I tempi forti per il trattamento sono: i colloqui con gli operatori dell’Area
pedagogica, il lavoro, la scuola, i corsi professionali. Tutto ciò è
mediato da prestampati, le cosiddette domandine o “Modulo 393”,
che sovente «cadono nel nulla; spesso le richieste, fatte per avere colloqui
libri o altro, si perdono misteriosamente, scompaiono. Allora bisogna ritentare,
sperando nella fortuna», come afferma “Beatrice”, una detenuta
intervistata; il dato è confermato da altri attori sociali. Da numerose
dichiarazioni ho saputo che non esiste un vero trattamento rieducativo; un insegnate
mi dice: «L’area educativa è estremamente limitata….
Quando uno è in galera, non si fa niente perché lui modifichi
le sue scelte, preferisca altri valori… In carcere non gli è prospettata
nemmeno la possibilità che ci siano alternative, altri modi di vivere.
Quindi a Lecce la rieducazione ha un ruolo marginale, assolutamente secondario…».
Ora il detenuto è completamente assorbito dalla struttura: è gestito
nel tempo dai ritmi imposti dalle autorità, è gestito nello spazio
angusto della cella o in quello illusoriamente liberatorio del cortile, non
decide cosa mangiare, né ciò che può fare e quando farlo,
non può comunicare con l’esterno come vorrebbe, né con ristretti
non appartenenti alla sua categoria, non può indossare calzature o vestiario
a suo piacimento, non può uscire dalla cella, magari come faceva in altre
carceri. Si costruisce un vero e proprio indigente, che sembra non “debba”
saper badare a se stesso, saper comunicare, perché molti sono gli ostacoli
da superare e spesso anche incerti. Tutto ciò mi dà la sensazione
di un potere “perfetto”, che è tale in quanto riesce ad entrare
nella psiche del malcapitato e fargli perdere il dominio di sé, dando
vita a comportamenti non voluti coscientemente, di autopunizione, fino alla
distruzione della “vecchia” identità [19],
ossia quella precedente allo stato detentivo; come ad un bambino gli s’impone
una certa cultura, che andrà a determinare anche i suoi bisogni fisiologici,
fino a farne un’immagine d’uomo che il contesto sociale permette,
così il ristretto è condizionato da molteplici messaggi, che gli
indicano un fascio di possibilità nell’essere un detenuto. Questo
è ancora confermato dallo stesso insegnante: «Mi sembra che qui
da noi prevalga la logica dei militari, della sicurezza. Per gli agenti è
realizzare il loro sogno vedere i detenuti chiusi in cella 24h su 24h: sarebbe
l’ideale!».
Dunque, se all’interno del carcere leccese è preponderante l’attività
di controllo e manca quella sfida tra valori della società civile e valori
della cultura criminale – che si può manifestare solo in un ipotetico
percorso rieducativo – cosa accade, allora, tra i detenuti di Borgo San
Nicola la cui interazione reciproca è continua, il che è in contrasto
con gli insufficienti rapporti sociali con gli operatori del penitenziario?
A questa domanda ho voluto rispondere dedicando un paragrafo capitolo alla cultura
carceraria, soprattutto quella criminale.
5. La Cultura carceraria
Per cultura carceraria intendo il complesso degli atteggiamenti [20],
delle consuetudini, dei valori [21],
dei comportamenti e delle rappresentazioni che contribuiscono a realizzare la
realtà [22] nella quale
vivono ed operano gli attori sociali di Borgo San Nicola. In questo contesto
assume rilievo il teorema di William Thomas: “L’individuo agisce
in funzione dell’ambiente che percepisce, della situazione alla quale
deve far fronte. Egli può definire ogni situazione della vita sociale
attraverso la mediazione dei suoi atteggiamenti preliminari che l’informano
su questo ambiente e gli permettono di interpretarlo” [23].
Analoga impostazione si rinviene nella “Field Theory” di Kurt Lewin,
secondo cui il comportamento è funzione della persona e del suo ambiente
[24]: in entrambe le impostazioni
c’è lo sforzo di analizzare il momento in cui un individuo attua
un comportamento; in entrambe vi è un personaggio all’interno di
uno spazio di vita [25] specifico,
che determinerà prima una risposta mentale, vale a dire la rappresentazione
della situazione, poi un risposta comportamentale (anche la decisione di non
agire). Tutto ciò indica un’interazione tra attore e contesto situazionale,
interazione che si riproduce nel contesto carcerario, laddove, nonostante le
restrizioni spazio-temporali, gli attori sociali coinvolti (siano essi detenuti
o operatori) si costruiscono una propria specifica cultura, vale a dire una
specifica forma di adattamento al contesto in questione.
Il capitolo è stato diviso nei seguenti paragrafi: la vita carceraria,
vale a dire i cambiamenti, il “codice” dei detenuti, la cultura
materiale; i rapporti interpersonali con un’attenzione particolare alla
rappresentazione dell’“altro”; la comunicazione formale e,
soprattutto, informale; il fenomeno della mafia vista nel suo rapporto con il
carcere. Per ragioni di spazio mi soffermerò solo su alcuni punti.
Nelle istituzioni totali, scrive Goffman, “l’autonomia dell’azione
viene violata” [26], ma
i detenuti reagiscono alle restrizioni del carcere, costruendo una realtà
sociale, accanto alla quale producono un complesso di pratiche, che permettono
di salvaguardare la propria soggettività [27].
Sentendo parlare di “curiose invenzioni” da parte dei detenuti,
ho voluto chiedere ad “Alessandro Magno” e a “Bianco”
[28] in cosa consistessero: si
tratta di espedienti sia nel campo dell’arte culinaria sia in altri settori,
che vanno sotto il nome di “Arte dell’Arrangiarsi” [29].
Un insegnante, al proposito, esclama: «I detenuti sono persone intelligentissime
– e aggiungendo, mi racconta: «Uno studente mi chiese un ramo di
fico con delle gemme: riuscì a fare il formaggio con il lattice di fico».
Altri detenuti, intervistati, alla presenza dell’educatrice, che confermava
il tutto, mi descrivevano le diverse procedure per costruire un’antenna
per televisione in modo da ricevere altri canali. E ancora: con il motorino
di un walkman ottengono la crema per il gelato; con coperte, un tavolo, lo sgabello
della cella riescono a creare un forno per cuocere cibi anche prelibati, come
pasta al forno, biscotti ed altro. Ma, come mi ha riferito il detenuto “Alessandro
Magno”, le attività preferite dai suoi con-detenuti sono di tipo
illecito: per esempio, sono talmente numerosi i canali di passaggio della droga
dall’esterno verso l’interno dell’istituto, che la polizia
penitenziaria non riesce mai a debellare definitivamente il problema.
Le “battaglie” tra le due maggiori categorie (agenti e detenuti)
hanno un seguito anche per quanto riguarda la comunicazione [30]
tra criminali “a cielo coperto” e tra questi e quelli “a cielo
scoperto” [31]: è
l’interessante fenomeno di Radio carcere. Un’intenzione, un accordo,
un fatto criminale, che avviene all’interno di una sezione o di un padiglione
del carcere, giunge dall’altra parte dell’istituto o fuori: per
esempio dal Circondariale al Reclusione, dal Maschile al Femminile, oppure dalla
società all’interno, sottraendosi alla sorveglianza degli agenti.
«L’informazione ai diretti interessati percorre vie impensabili
– dichiara il comandante». I canali informativi sono molteplici:
semplici gesti o parole apparentemente insignificanti ai compagni o ai parenti,
particolare disposizione del cibo trasportato dal portantino o quest’ultimo
stesso portavoce dei messaggi, cantare particolari canzoni o spedire la sfoglia
[32]. Tutto questo complesso
di pratiche, che va sotto il nome di Radio carcere, è soprattutto usato
da chi ha interessi “forti” fuori e dentro l’istituto penitenziario
come i mafiosi: per cui serve per impartire comandi, instaurare un certo ordine
gerarchico, annunciare affiliazioni o aggregazioni, avvertire dell’arrivo
di droga o del pentimento di qualcuno in modo da isolarlo, sventare un blitz
delle forze dell’ordine. Quest’ultimo può avvenire non solo
fuori, ma anche dentro il carcere, per cui anche la polizia penitenziaria utilizza
Radio carcere, vale a dire fa attività di intelligence.
Come si può immaginare sia il detenuto sia l’agente hanno costruito
una ricco bagaglio simbolico, che serve per ottenere ognuno i propri fini. Mi
è sembrato quasi scontato che tra le due categorie principali non corresse
buon sangue: infatti, dalle interviste, ma anche attraverso l’osservazione
diretta, ho potuto constatare il rifiuto in alcuni di parlare della controparte,
se non per lamentarsene. Sono pochi i casi di buoni rapporti, per i quali il
detenuto riesce a distaccarsi da una certa mentalità, che lo fa stare
“dall’altra parte della barricata”.
Il paragrafo sul “codice” [33]
pone in evidenza l’esistenza di una cultura, quella delinquenziale, costituita
da un insieme di regole e di consuetudini, che si sovrappongono a quelle dell’istituto
penitenziario: si crea, così, un’organizzazione informale all’interno
di un’altra formale. In realtà, non si tratta di un fenomeno solamente
carcerario, ma di un fatto sociale che ha la sua origine nella società
esterna, secondo quanto indicatoci da Sutherland con il suo principio dell’associazione
differenziale [34], ma che nel
carcere assume forme particolari. Il detenuto “Bianco”, riferendosi
al codice, conferma questa singolarità: «Molte di quelle norme
svaniscono appena si è fuori dal carcere».
Ci sono due regole che appartengono a tutto il mondo delinquenziale, omertà
e “interessi” personali, ma altre sono costitutive di gruppi criminali
strutturati (mafiosi e non), i quali inducono il resto della popolazione carceraria
ad assimilare, consenziente o riluttante, il loro codice comportamentale. C’è
anche una certa gerarchia nelle regole tra criminali: il fare la spia è
l’atto più infame, per il quale si rischia la morte propria o di
un parente (è l’omertà che garantisce la distanza tra mondo
criminale e società civile [35]);
comportarsi bene in carcere per non mettere nei guai i compagni, vale a dire
guadagnarsi il più presto possibile i benefici della Legge “Gozzini”,
evitando le punizioni; non dare fastidio a un boss o a un suo vicario; non perdere
la propria “onorabilità”, ossia il non essere ingenui, né
farsi prendere a schiaffi o a calci neanche per scherzo; non fare il chiacchierone
o il pettegolo, perché si è ritenuti poco fidabili, delle femminucce.
Molte altre regole sono mutate o sparite del tutto con l’accentuarsi dell’individualismo
tra detenuti, dovuto alla crescita del fenomeno del pentitismo all’interno
della Sacra Corona Unita [36],
ma anche di gruppi mafiosi campani e calabresi. Inoltre, è stato curioso
constatare come i detenuti non mi sapevano spiegare l’origine e la funzione
della maggior parte delle regole: le si danno troppo per scontate, «perché
è così – mi dice “Alessandro Magno”».
Per completare il discorso sul carcere, soprattutto per quanto riguarda le attività
e la subcultura delinquenziale nel rapporto con il potere di controllo, abbiamo
posto l’accento sul fenomeno mafioso, visti i continui riferimenti degli
intervistati alle organizzazioni di questo tipo, come anche gli articoli di
giornale nei quali si è spesso sottolineata l’importanza del fenomeno
all’interno dell’istituto penitenziario leccese. L’interesse
per la mafia mi è stato suscitato, inoltre, dalle parole di “Semilibertà”,
che, parlando dell’impossibilità di un controllo perfetto, mi dice:
«Molto spesso alcuni mafiosi riescono a non avere una condanna per 416
bis (il reato di associazione a delinquere di stampo mafioso) e così
vengono alloggiati nelle sezioni dei comuni; in questi casi si hanno fenomeni
di subordinazione di detenuti nei confronti di chi è un’autorità
nel mondo delinquenziale». E gli agenti conoscono bene questa situazione.
All’interno del cercare c’è un’intensa attività
mafiosa per gli interessi illeciti: si possono creare complicità tra
organizzazioni diverse, come quelle tra salentini e albanesi [37],
esiste una continuità tra soggetti detenuti e i clan esterni cui appartengono,
come non mancano conflitti tra le mura carcerarie [38].
Ma gli stessi detenuti intervistati mi dicono che molte attività del
genere si sono affievolite a causa del pentitismo, per cui anche le affiliazioni,
i movimenti, le belle favelle [39]
sono rari; il comandante, invece, mi ha fatto intendere che tutto ciò
è ancora fiorente. Sentiamo cosa è accaduto negli ultimi 8 anni
nel carcere pugliese dalle parole di “Bianco”, un altro detenuto
intervistato: «Adesso si usa di più il cervello. Tutto a causa
dei signori pentiti, che prima fanno la bella vita, poi ti tradiscono. Poi –
si sfoga – si mettono i tribunali a costruire una linea accusatoria per
incastrare il tipo voluto: il processo studiato a tavolino è quello che
ti frega al 100% ed è quello falso. La solidarietà tra detenuti,
poi, era sempre mantenuta proprio grazie ai capi, ma soprattutto perché
c’era una maggiore confidenza con i compagni di sezione; chi più
chi meno era conosciuto, si sapeva cosa potersi aspettare dall’altro,
chi apparteneva a clan nemici. Vi erano tanti rituali di riconoscimento, dai
quali si veniva a sapere il grado occupato nella gerarchia mafiosa».
Proprio per il suo apparato simbolico, nonché per l’importanza
e i privilegi che un individuo acquisisce facendone parte, il clan o il soggetto
mafioso, all’interno del carcere, costituisce un serio problema anche
per gli operatori dell’area trattamentale. I detenuti sono affascinati
da questa realtà e molti cercano di approfittare della vicinanza, che
solo l’istituto penitenziario permette, per farsi ben vedere da chi è
mafioso. Per ottenere ciò, può capitare loro di eseguire, in quanto
meno sospettato dagli agenti, diverse mansioni volute da un boss, talmente gravose
da rischiare pene molto superiori e l’annullamento di qualsiasi beneficio
previsto per i comuni.
Tutto ciò conferma il fatto che l’istituto penitenziario costituisce
una sorta di tempio sacro, in cui i “probandi” aspettano la consacrazione
definitiva nel mondo della “onorata società”, istruendosi
e disciplinando il proprio comportamento per raggiungere il sospirato fine:
essere “uomini d’onore”. Infine, come nei templi ebrei sotto
la dominazione romana, il carcere rimane luogo d’intesa tra gruppi di
criminali: scambi di favori, si contraggono affari a medio e a lungo termine,
si scambiano le competenze e informazioni. Ma – e concludo – le
attività di alcuni operatori, aiutati dal volontariato, “conquistano”
quei detenuti desiderosi di cambiare vita, attraverso corsi scolastici, professionali.
La sfida maggiore è il coinvolgimento di 20 “A.S.” in attività
di giornalismo e informatiche in genere.
Fonte: Il Dubbio, rivista di critica sociale
[1] Un’analisi della devianza in genere alla luce del pensiero habermasiano
è suggerita da M. Strazzeri, L’eclissi del cittadino. Attore e
sistema sociale nella modernità, Pensa multimedia, Lecce 1996, p. 117:
«L’obiettivo che ci proponiamo nel prosieguo del discorso avviato
consiste nella verifica degli strumenti di lettura ed interpretazione sociologica
che la “teoria dell’agire comunicativo” di Jürgen Habermas
può offrire ai problemi della devianza».
[2] Per il concetto di membro cfr. P. P. Figlioli e A. Dal Lago (a cura di),
Etnometodologia, Il Mulino, Bologna, 1983.
[3] Per il fenomeno delle affiliazioni anche in carcere cfr. M. Longo, Sacra
Corona Unita. Storia, Struttura, Rituali, Pensa-Multimedia, Lecce, 1997, oppure
M. Massari, La Sacra Corona Unita. Potere e Segreto, Editori Laterza, Bari,
1998.
[4] Cfr. L. Berzano e F. Prina, Sociologia della devianza, Nis, Roma, 1995.
[5] Cfr. G. Gobo, Descrivere il mondo. Teoria e pratica del metodo etnografico
in sociologia, Carocci Editore, 2001, p. 38.
[6] Per il contributo della Grounded Theory si veda, per es., C. Piccardo e
A. Benozzo, Etnografia organizzativa. Una proposta di metodo per l’analisi
delle organizzazioni come culture, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1996.
[7] Cfr. G. Lapassade, In campo. Contributo alla sociologia qualitativa, Pensa-Multimedia,
Lecce, 1995, p. 18; oppure cfr. J. Madge, Lo sviluppo dei metodi di ricerca
empirica in Sociologia, Il Mulino, Bologna, 1962.
[8] Cfr. G. Lapassade, op. cit., p. 27.
[9] Cfr. A. Coulon, La scuola di Chicago, Pensa-Multimedia, Lecce, 2001.
[10] Cfr. G. H. Mead, Mente, Sé e Società, dal punto di vista
di un comportamentista, Giunti, Bologna, 1966.
[11] Cfr. E. Goffman, La vita quotidiana come rappresentazione, Il Mulino, Bologna,
1967.
[12] Cfr. M. Foucault, Sorvegliare e Punire. Nascita della prigione, Einaudi
Editore, Torino, 1977; M. Strazzeri, Potere, Strategie punitive, Controllo sociale,
Manni editore, Lecce, 1990.
[13] In seguito chiarirò cosa significhi “C/2”.
[14] Il Quotidiano, 17 dicembre 1999, p. 6.
[15] Sulla spazio carcerario come punizione, vedi E. Gallo e V. Ruggiero, Il
carcere immateriale. La detenzione come fabbrica di handicap, Sonda, Torino,
1989, ed anche V. Guagliardo, Dei dolori e delle pene. Saggio abolizionista
e sull’obiezione di coscienza, Sensibili alle Foglie, Roma, 1997.
[16] Cfr. Di Gennaro-Breda-La Greca, Ordinamento penitenziario e Misure Alternative
alla Detenzione, Giuffrè Editore, Milano 1997, p. 27, dove tra l’altro
è scritto: “…la distinzione in questione è stata fatta
con riferimento a cinque aree: di segreteria, educativa, sanitaria, di ordine
e sicurezza e amministrativo-contabile…”.
[17] Ibidem, pagg. 1 e 21
[18] Ex art. 80 O.P., Legge n. 354/75.
[19] Cfr. E. Goffman, Asylums. Le Istituzioni Totali. La condizione sociale
dei malati di mente e di altri internati, Giulio Einaudi editore, Torino, 1968,
pp. 44-5.
[20] Cfr. Alain Coulon, op. cit., p. 22.
[21] Cfr. ivi, p. 2.
[22] Cfr. Georges Lapassade, op. cit., p. 79: “…se descrivo una
situazione, contribuisco alla costituzione della situazione che sto per descrivere”.
[23] Citato ivi, p. 34. Per il concetto di “definizione di situazione”
cfr. anche John Madge, op. cit., p. 117.
[24] Cfr. Kurt Lewin: Teoria e sperimentazione in psicologia sociale, Il Mulino,
Bologna 1972, p. 143: “…il comportamento (C) è funzione della
persona (P) e dell’ambiente (A), ovvero C = F (P,A)”.
[25] Ibidem, p. 8: “Questo spazio di vita è costituito dalla persona
e dall’ambiente psicologico così come esiste per essa”.
[26] Cfr. Goffman, Asylums. Le istituzioni totali, op. cit., p. 67.
[27] Ivi, p. 82: “Gli adattamenti secondari sono, per l’internato,
la prova del suo essere padrone di sé, capace di un certo controllo sul
suo comportamento: talvolta un adattamento secondario diventa quasi un margine
di difesa del sé”.
[28] I due soggetti appartengono alla categoria degli A.S., alta sorveglianza,
perché appartenenti ad associazioni criminali.
[29] L’espressione mi è stata rivelata dalla detenuta S. M., ricevuta
a colloquio, che da anni gira le carceri del sud, essendo siciliana. Cfr. Goffman,
Asylums. Le istituzioni totali, op. cit., pag. 82: “Nelle istituzioni
totali esiste anche un sistema di quelli che possono definirsi << adattamenti
secondari >>, cioè un insieme di pratiche che, pur senza provocare
direttamente lo staff, consentono agli internati di ottenere qualche soddisfazione
proibita… Tali adattamenti raggiungono – ovviamente – la loro
maggiore fioritura nelle prigioni…”. Cfr. anche N. S. Hayner e Ellis
Ash, The Prisoner Community as a Social Group, in << American Sociological
Review >>, IV 1939, p. 364 sgg.
[30] Chiaramente esiste un tipo di comunicazione formale, organizzata dall’amministrazione:
telefonate, lettere, colloqui, modello n. 393, cartoline, telegrammi.
[31] Nel gergo criminale, soprattutto all’interno dei clan mafiosi, si
definiscono così quei delinquenti che sono rispettivamente detenuti e
liberi. È stato “Semilibertà” a riferirmi ciò.
[32] Diversi intervistati mi hanno parlato della sfoglia, dicendomi che si tratta
di un biglietto molto piccolo, piegato più volte, facilmente trasmissibile
anche attraverso un bacio. Il comandante è stato gentile a fotocopiarmene
una, poiché l’originale costituisce un illecito.
[33] Per quanto riguarda il “Codice” si veda. D. L. Wieder, Language
d social Reality, Mouton, Paris 1974.
[34] Cfr. E. H. Sutherland e D. R. Cressey, Criminologia, Giuffrè Editore,
Milano 1996, pp. 114- 5.
[35] Cfr. G. Falcone e M. Padovani, Cose di Cosa Nostra, Fabbri editori, Milano,
1994, p. 5: «’A megghiu parola è chidda ca ‘un si dici».
[36] È un fenomeno spesso sottolineato dai detenuti intervistati e da
qualche operatore, cominciato dal 1993.
[37] Cfr. Il Quotidiano, giovedì 14 dicembre 2001, che titola in primo
piano Il Salento diventa terra di riciclaggio e Clan albanesi sulle macerie
della Scu; ad un certo punto l’articolo riporta le parole del pm anti-mafia,
Leone De Castris: «…i clan salentini hanno trovato estremamente
vantaggioso stringere accordi con la criminalità albanese: offre gli
stupefacenti a prezzi più che ridotti, si accolla i rischi del trasporto».
[38] Cfr. Il Quotidiano, 15 giugno 2000, il giornalista titola Dopo la scissione
del clan una lunga scia di sangue. Una rissa in carcere dà il via alla
“faida”, e il carcere è proprio quello di Borgo San Nicola.
[39] Per questi concetti si veda “Up & Down” – Mensile
dell’Eurispes di politica, economia, cultura e società, Osservatorio
permanente sui fenomeni criminali, La quarta mafia: percorsi e strategie della
criminalità organizzata pugliese, numero speciale 7-8/94, Roma.