Negli ultimi anni il numero di persone in stato di detenzione o in attesa di una probabile condanna è cresciuto rapidamente in quasi tutti i paesi nord-occidentali (Wacquant 1999). Tutte le democrazie sviluppate procedono alla costruzioni di nuove carceri e incrementano le spese destinate alle "forze della legge e dell'ordine", in primo luogo alle forze di polizia e al personale carcerario adibito alla custodia. Di pari passo si assiste in questi paesi alla proliferazione di misure volte a prevenire o reprimere quanto potrebbe turbare il tranquillo sviluppo delle relazioni pubbliche (si diffondono per esempio i provvedimenti che vietano o limitano la mendicità, si istituisce il coprifuoco per gli adolescenti, eccetera), al massiccio impiego della videosorveglianza in luoghi e mezzi di trasporto pubblici. Il controllo elettronico è sempre più impiegato, nonostante che esso tenda non a sostituirsi ma ad aggiungersi alla carcerazione.
La progressione con cui cresce in questi paesi la quota della popolazione considerata in aperto conflitto con la giustizia e che andrebbe quindi arrestata, è tale da porre un problema di trasformazione qualitativa delle politiche penali.
Recentemente Zygmut Bauman (1998) e Loïc Wacquant (1990 e 1999) hanno sostenuto che esiste uno stretto legame fra le politiche neoliberali, prima propugnate dalla destra reaganiana e tatcheriana nei paesi anglosassoni e oggi presentate come una necessità imposta dalla globalizzazione in tutto il mondo nord-occidentale, e il diffondersi delle politiche sicuritarie. Secondo questi autori gli Stati nord-occidentali hanno intrapreso la via del trattamento penale della miseria spinti, paradossalmente, dall'indebolimento della loro capacità d'intervento sociale e dalla perdita di molte delle prerogative della loro sovranità politica. In questo saggio cercherò di mettere a fuoco il legame tra l'indebolimento dello Stato e il mutamento delle politiche penali e di illustrare le nuove politiche penali e le loro conseguenze sui diritti degli individui.
Sulla scia delle celebri tesi di Max Weber, Ernest Gellner ha evidenziato che il potere legislativo ed esecutivo degli Stati moderni si è appoggiato su una triplice sovranità: militare, economica e culturale. Oggi il quadro appare radicalmente cambiato. La globalizzazione dei mercati finanziari è sempre più spesso presentata come una forza irresistibile che gli Stati devono necessariamente assecondare rinunciando al governo dell'economia. Di pari passo con questa analisi della irresistibilità dei mercati si è diffusa un'ideologia (Scott 1997) secondo cui il nuovo mondo del capitale nomade, in cui sono saltate tutte le barriere create dagli Stati, renderebbe la vita di tutti migliore. Si è affermata la credenza che la stessa vita civile dipende dal mercato e che di conseguenza la società deve essere organizzata in modo da permettere a questo di funzionare secondo le proprie leggi. Per l'ideologia della globalizzazione non è più l'economia a dover essere compatibile con un determinato sistema di rapporti sociali, ma sono i rapporti sociali che si devono adeguare all'economia di mercato: la regolamentazione della società diventa accessoria rispetto al funzionamento del mercato (cfr. Karl Polanyi 1944, tr. it. 74).
Questa impostazione riduce drasticamente lo spazio della politica. L'attività politica, quella che Claus Offe (1996, pp. VII, IX, 37) definisce «la capacità di compiere scelte collettive vincolanti e di metterle in atto», è diventata problematica: il discorso pubblico creato dalla spirale analitico-ideologico descritta priva della base legittimante molte delle scelte che per quasi mezzo secolo erano state tradizionalmente riconosciute di competenza degli Stati. In particolare lo Stato appare sempre meno legittimato a regolare il mercato: non esiste più un mercato interno da sottoporre a regolamentazione, il mercato è globale e in quanto tale fuori dal potere dei singoli Stati. In questa situazione il problema non è più "cosa vada fatto", ma è piuttosto se c'è qualcuno in grado di fare ciò che va fatto.
In una situazione in cui il confine tra ciò che è "interno" e ciò che è "esterno" allo Stato si sposta continuamente l'unica funzione che sembra destinata a rimanere chiaramente interna è il controllo di polizia del territorio e della popolazione. La tendenza sembra quella di ridurre lo Stato al minimo indispensabile, ai suoi poteri di repressione. Il nuovo ordine mondiale ha bisogno proprio di Stati deboli per conservarsi e riprodursi: essi «possono facilmente venire ridotti all'(utile) ruolo di commissariati locali di polizia, che assicurano quel minimo di ordine necessario a mandare avanti gli affari, ma che non vanno temuti come freni efficaci per la libertà delle imprese globali» (Bauman 1999, tr. it. 77). Come ha scritto un analista radicale messicano «una volta distrutta la sua base materiale, annullata la sua sovranità e la sua indipendenza, cancellata la sua classe dirigente, lo stato nazione diviene un semplice servizio di sicurezza per le grandi imprese [1]».
Tutti i dati tendono a mostrare che lo slittamento verso una gestione giudiziaria e carceraria della povertà è tanto più probabile e accentuato, quanto maggiormente la politica economica e sociale condotta dal governo si ispira alle teorie neoliberali improntate alla "privatizzazione" dei rapporti sociali. Il "meno Stato" sociale, il minor interventismo economico sembra richiedere "più Stato" poliziesco e penale, le politiche repressive appaiono come il pendant, in materia di "giustizia", di quelle liberiste in campo economico. L'abbandono del diritto alla sicurezza sociale, per non parlare del diritto al lavoro (a tempo pieno ed indeterminato, con le garanzie previdenziali e sociali, e con un salario dignitoso), ha come corrispettivo l'ossessiva riaffermazione del "diritto alla sicurezza".
La politica di incarcerazione e repressione penale non viene usata tanto per rispondere allo sviluppo della criminalità, che è rimasta più o meno costante nel periodo in cui si sono affermate le nuove politiche penali, quanto per far fronte alla destrutturazione sociale provocata dalla ritirata dello Stato "caritatevole": stiamo assistendo ad un passaggio dallo Stato sociale allo Stato penale. Come scrive Wacquant (1999, tr. it. 109), «la "mano invisibile" cara ad Adam Smith è ritornata, ma rivestita dal "guanto di ferro"».
Le politiche penali sono dunque, secondo questa analisi, il "complemento sociologico" di quelle economiche liberistiche. All'ipertrofico sviluppo delle istituzioni che suppliscono alle carenze di protezione sociale [safety net] si deve necessariamente accompagnare un dispiegamento nelle regioni inferiori dello spazio sociale di un reticolo poliziesco e penale [dragnet] dalle maglie sempre più strette e solide (Wacquant 1999, tr . it. 58).
Per la teoria liberale Sette-Ottocentesca la legge penale, in quanto manifestazione della volontà generale, non discrimina alcun appartenente alla società, non favorisce alcun interesse particolare. Lo stato liberale è la forma politica più razionale e conforme alla natura umana in quanto consente la preservazione della virtù naturale dei suoi cittadini. In esso ogni individuo è titolare dei propri diritti se è un soggetto razionale degno di godere di questi diritti. Chi commette un reato, tanto più se è un recidivo, dimostra di non essere razionale e quindi di non meritare la titolarità dei diritti: è una persona che non ha sviluppato un sufficiente autocontrollo e in quanto tale non è degna di godere dei benefici del contratto sociale. L'individuo è ritenuto pienamente responsabile delle proprie azioni, poiché si assume che sia dotato di libertà di scelta e che agisca sulla base di motivazioni razionali e sotto il proprio controllo. La legge considera il crimine per se stesso, secondo un codice retributivo rigido: non è rilevante alcuna considerazione relativa alla persona che lo ha commesso o alle sue condizioni sociali.
La teoria penale liberale, da Beccaria in poi, ha il suo perno nella concezione dell'individuo come soggetto proprietario, prima di tutto di se stesso, che sceglie liberamente i propri comportamenti, basandosi esclusivamente sul calcolo delle conseguenze, e se ne assume la responsabilità, Questa concezione antropologica ha rappresentato sia l'assunto fondamentale del modello di ordine sociale messo a punto dai teorici liberali dell'ottocento, sia il presupposto necessario per il funzionamento del modello stesso: il suo "inveramento" è stato così un obiettivo da conseguire utilizzando in primo luogo la politica criminale, la determinazione di cosa e come punire. Come ha sottolineato soprattutto Foucault (1975), a partire dalla fine del settecento, negli Stati Uniti prima e poi a poco a poco in Europa, ci si rese conto che per creare una società liberal-democratica stabile era necessario apprestare una serie di istituzioni - non solo i penitenziari ma anche i manicomi, gli ospedali, le scuole, eccetera - in grado di produrre il tipo di cittadino adatto al sistema politico liberal-democratico.
Il carcere, o meglio il "penitenziario", fu l'istituzione che sembrò capace di conciliare la retorica della pena e quella della sua esecuzione. La pena privativa della libertà al suo apparire operò un'inversione rivoluzionaria nella pratica punitiva, una inversione che era in sintonia, se non con la lettera delle teorie illuministiche, almeno con i valori che le ispiravano. Essa capovolse la strategia della difesa sociale: si passò dalla concezione che vedeva nell'autore del delitto un soggetto da distruggere e annientare, all'idea che esso rimaneva, a dispetto della violazione delle norme, una parte integrante della società, per cui la punizione doveva mirare al suo reinserimento nel contesto sociale. Questa funzione cruciale del "penitenziario" assurse a perno della strategia di controllo sociale con l'affermarsi del sistema di produzione capitalistica.. Il penitenziario emerse come uno luogo di socializzazione forzata e si strutturò sul modello produttivo prima della manifattura e successivamente su quello della fabbrica da cui mutuò la propria organizzazione interna (Rusche e Kirchheimer 1939).
Il penitenziario è dunque il luogo, teorico e fisico, che permette il pieno dispiegamento della teoria liberale della pena secondo cui la migliore difesa sociale si può avere solo quando il trasgressore - contraente inadempiente - risarcisce il danno procurato alla società pagando con il proprio tempo e assoggentandosi contemporaneamente, in fase di esecuzione della pena, alla disciplina. Solo in questo modo chi commette un reato può essere reintegrato nel tessuto delle relazioni giuridiche come soggetto docile, non più aggressore della proprietà, ma pronto a vendere sul mercato la sua forza lavoro per sostentarsi (Costa 1974, 357, 78).
Alla fine dell'ottocento l'impianto della politica penale liberale entrò in una crisi profonda: le teorie liberali dell'ordine sembravano incapaci di gestire le conseguenze negative dell'industrializzazione. Si diffuse la convinzione che si dovesse abbandonare l'antropologia utilitaristica, base indiscussa ed imprescindibile della giurisprudenza classica. Alla metafisica dell'interesse, e quindi della libertà e della razionalità dei soggetti, che costituiva il presupposto delle teorie economiche e sociali del diciottesimo secolo, si sostituì il paradigma elaborato dalla Scuola positiva che, rigettato l'assunto secondo il quale gli individui sono caratterizzati in primo luogo da un intangibile e non esplorabile nucleo di creatività e di scelta, si articola a partire dall'idea che gli esseri umani hanno una "personalità" o un "carattere", che non è un elemento unitario ed indipendente, ma piuttosto qualcosa di complesso e soprattutto conoscibile scientificamente e, di conseguenza, manipolabile. Proprio la conoscenza scientifica del carattere dei soggetti consente, secondo i criminologi positivisti, di sviluppare tecniche capaci di trasformare la personalità intervenendo sui suoi elementi costitutivi. Sulla base di questi presupposti viene affermato, come se fosse una verità autoevidente, che i delinquenti sono esseri distinti da caratteri speciali. Il comportamento criminale viene considerato una devianza dalla “normalità” dovuta ad una componente patologica del carattere individuale: la “criminalità”.
Nel ventennio successivo alla seconda guerra mondiale si sviluppò un sapere criminologico che produsse un nuovo riorientamento delle modalità di controllo sociale: vennero privilegiati gli strumenti di controllo sociale primario (scuola, famiglia, organizzazione del tempo libero, ecc.), di cui lo Stato si assunse spesso in prima persona la gestione, su quelli di tipo secondario (come il carcere). La nuova strategia si rivolse in primo luogo ai soggetti marginali non criminalizzati (anziani e giovani in età scolare; disoccupati e sottoccupati; gruppi razziali minoritari e immigrati, eccetera) cercando attraverso sussidi, forme di assistenza e la predisposizione di servizi sociali la loro adesione alla struttura sociale esistente. Per le forme di disagio sociale criminalizzate, la nuova politica del controllo sociale tese a privilegiare le misure alternative alla detenzione.
Nel corso degli anni settanta anche questo paradigma entrò in crisi. Si diffuse la sensazione che non solo la prigione è uno strumento inefficace ma anche la liberazione anticipata, l'affidamento alla comunità, le multe, eccetera, non riuscivano a conseguire quella rieducazione del reo che i sistemi penali si erano posti come obiettivo primario. I primi studi condotti sulla recidiva, considerata il parametro fondamentale per verificare il grado di efficacia dei percorsi risocializzanti, sembravano dimostrare il fallimento di tutte le strategie adottate. Più in generale le statistiche sembravano indicare che il miglioramento delle condizioni di vita degli strati più bassi della popolazione prodotto dal welfare state non fosse in grado di incidere sul tasso di criminalità.
La convinzione che i dati dimostrassero l'inesistenza di un legame tra criminalità ed emarginazione ha fatto progressivamente venire meno ogni legittimazione politica delle strategie sviluppate nei vent'anni precedenti, sia quelle preventive che quelle rieducative, lasciando un vuoto teorico che sembra tuttora incolmabile. Il diffondersi della consapevolezza del fallimento di tutte le moderne pratiche penali sembra per la prima volta comportare la messa in discussione della loro legittimità. Negli ultimi due secoli le analisi del fallimento delle istituzioni punitive e della loro irrazionalità erano state sempre condotte sullo sfondo di una proposta di riforma. Ogni critica era stata accompagnata da un progetto che avrebbe dovuto contribuire a migliorare la funzionalità del sistema penale. Questo inno ottimistico al futuro si interrompe con la crisi della nozione di “riabilitazione” che, dal secondo dopoguerra era stata allo stesso tempo un fine ed una giustificazione per le pratiche penali, legittimandole agli occhi del pubblico: il sistema punitivo comincia ad apparire senza futuro, sembra aver perso senso.
Come ha sottolineato Castel (1991, 288) le nuove politiche penali che si stanno diffondendo sono radicalmente diverse da quelle tradizionali. Oggi intervenire sulla devianza non significa più individuare i soggetti devianti da sottoporre a disciplinamento o comunque da "prendere in cura". Sembra essere divenuta irrilevante l'esigenza, per lungo tempo prioritaria, di creare istituzioni capaci di sostenere e reinserire nella società la popolazione che viene loro affidata. La politica del trattamento, o in termini critici del disciplinamento, è superata. Se trecento anni fa per fronteggiare l'invasione delle masse di soggetti espulsi dalle campagna che si riversavano sulle città, privi di mezzi di sostentamento, si fece ricorso ad istituzioni totali che avevano, come ha mostrato Foucault, nella disciplina il loro tessuto connettivo e la loro matrice di senso, oggi per fronteggiare la nuova plebe, formata soprattutto da extra-comunitari ed emarginati, in primo luogo tossicodipendenti, si fa ricorso alle mere misure incapacitanti, al mero contenimento.
La pena non deve essere più rieducativa, ma solamente repressiva e incapacitante. La sua funzione è general-preventiva. La pena deve servire da deterrente. Non le si chiede cioè di reinserire socialmente l'autore del reato, ma solo di metterlo, almeno per un certo periodo di tempo, in condizioni di non nuocere. La pena è vista principalmente come il perno di una serie di strumenti che, ergendosi ad ostacoli fisici, materiali, rendono meno facile la commissione dei delitti. Ad una teoria della prevenzione della criminalità incentrata sul criminale, sul suo essere un soggetto socialmente, culturalmente, economicamente e biologicamente condizionato, subentra un discorso imperniato quasi esclusivamente sul comportamento deviante e l'ambiente in cui esso si manifesta. Il soggetto cessa di essere visto come un'entità trattabile, trasformabile, e di conseguenza la sua normalizzazione cessa di essere il perno delle politiche di controllo sociale. Queste cambiano paradigma: intervenire sullo spazio di azione emerge come la strategia principale per prevenire la criminalità di strada. Il controllo sociale viene svincolato dagli individui e agganciato ai luoghi, specialmente alle aree metropolitane.
Lasciato cadere il miraggio della rieducazione (o l'incubo del disciplinamento), l'unico criterio per determinare quale pena comminare, o meglio quale regime di pena detentiva adottare, rimane quello dell'efficienza e dell'economicità del sistema di controllo sociale. Si assiste alla traslazione del problema della devianza: questa cessa di essere un evento "patologico" da curare per trasformarsi in una fonte di rischio da "gestire". Alla filosofia della risocializzazione si affianca e, col tempo, si sostituisce quella dell'efficienza. Questo passaggio cambia radicalmente i parametri di successo delle politiche criminali: l'esito dei programmi di reinserimento sociale sparisce dagli indicatori rilevanti per lasciare posto al rapporto tra i costi sostenuti e i livelli di sicurezza ottenuti.
Alle tesi moralistiche dei criminologi neoclassici, secondo cui è legittimo privilegiare la funzione deterrente della pena per combattere l'invadenza della criminalità e riportare la sicurezza per le strade, si sono affiancati gli argomenti pragmatico-utilitaristici dei teorici della costs & benefits analysis. Secondo questi ultimi la general-prevenzione è lo strumento che meglio consente di ottimizzare il rapporto tra sicurezza e risorse per ottenerla.
La strategia di controllo della criminalità più popolare negli ultimi anni è stata la campagna Zero Tolerance promossa dal sindaco di New York Rudolph Giuliani e gestita dal capo della polizia William Bratton (Wacquant 1999). Le basi teoriche di questa politica criminale sono state poste da James Q. Wilson, probabilmente il massimo esponente della criminologia della nuova destra [2], e dallo studioso di scienza politica George Kelling in un articolo pubblicato sulla Atlantic Monthly Review nel 1982. Fin dal suggestivo titolo, "Broken Windows", i due autori sostengono l'esistenza di uno stretto legame tra degrado urbano, incuria delle persone e criminalità.
La ricetta contro la criminalità che questa tesi mira a suggerire è evidente: la polizia non deve tanto dedicarsi a punire i delitti dopo che sono stati commessi, ma prevenirli "tutelando l'ordine". Solo proteggendo l'ordine e i valori diffusi, che danno senso di appartenenza alla comunità, si preservano naturalmente le città dall'insorgere della criminalità. Compito primario della polizia deve essere quello di reprimere i comportamenti che, pur non configurando alcun reato o solo dei reati bagatellari, sono molesti e danno la sensazione al cittadino di vivere in una città degradata. Se si vuole combattere la criminalità, si devono eliminare dalla vista dei cittadini tutte "le finestre rotte", si deve cioè reprimere duramente chi disegna graffiti nelle metropolitane o sulle saracinesche, chi chiede elemosina in modo aggressivo e insistente, le prostitute di strada, gli ubriachi e i tossicodipendenti che stazionano in luoghi pubblici, i barboni e così via. Merita di essere sottolineato che ai due teorici della tolleranza zero sembrano non interessare né le "ragioni" dei comportamenti devianti (se essi siano o meno manifestazione di disagio sociale, un segnale di problemi che vanno risolti, o altro) né che questi fenomeni siano realmente estirpati dalla società. Nella loro prospettiva è rilevante solo che i comportamenti "incivili" non avvengano in pubblico (De Giorgi 2000, 106-7).
La tesi di Wilson e Kelling può essere letta come una versione behavioristica di quella che Hart (1968), polemizzando con Lord Devlin, Parson e Durkheim, ha definito la "teoria disintegrativa", di quella teoria cioè secondo la quale compito del diritto penale, prima ancora che reprimere e prevenire i comportamenti che causano danni materiali ai consociati, è tutelare i valori socialmente condivisi.. I valori da tutelare non sono però, per gli autori di "Broken Windows" i valori fondamentali dell'organizzazione sociale, quelli su cui, secondo la concezione classica, si basa il contratto sociale: questa tutela è un prodotto succedaneo. Quello che va garantito è il valore esteriore della pulizia e dell'ordine dell'ambiente in cui l'interazione sociale avviene. Wilson e Kelling non danno alcuna indicazione circa i criteri sulla base dei quali si devono distinguere i comportamenti pubblici ammissibili e quelli inammissibili, quelli ordinati (orderly) e quelli disordinati (disorderly). Questo compito è affidato alla polizia a cui viene conferito lo status di unico interprete legittimo del comune sentire dei cittadini [3]. La polizia emerge dunque come la voce autentica di una comunità angosciata dalla paura del crimine. Ad essa è affidato il compito di reprimere i comportamenti che offendono il comune sentire. Se questo poi, in concreto, voglia dire che offendono norme giuridiche, giudizi morali o convinzioni estetiche, non ha importanza di fronte alla promessa che questa strategia garantisce la sicurezza e la restaurazione dell'ordine.
Sul piano pratico questo nuovo indirizzo di politica penale comporta che a un sistema centrato sull'individuo, sulle cause che lo hanno indotto a comportarsi in modo deviante e sulla possibilità di reinserirlo socialmente, subentra un sistema di controllo rivolto verso interi gruppi sociali selezionati sulla base del rischio che essi creano per la sicurezza pubblica. Le strategie di controllo assumono a loro oggetto non il singolo soggetto "deviante", o "criminale", ma "categorie di soggetti" verso i quali dirigere la sorveglianza, l'incapacitazione e la deterrenza. Il singolo è rilevante in quanto attribuibile ad una categoria connotata in termini di valutazione probabilistica del rischio creato dai soggetti ascrittile. Paradossalmente con la crisi del welfare state e il successo delle politiche neoliberiste si afferma una politica criminale innervata dalla logica governamentale e disciplinare che aveva caratterizzato le politiche sociali welfariste. La politica criminale teorizzata dalle correnti neoliberiste passa infatti da una strategia di controllo, che un'impostazione neoclassica rigorosa dovrebbe considerare centrale, mirata al singolo individuo, se non in quanto soggetto "criminale", in quanto "soggetto di diritti", ad una strategia di controllo rivolta a "classi" di individui che, indipendentemente dalle loro responsabilità uti singuli, sono istituzionalmente trattati come gruppi produttori di rischio.
Come ha osservato Jacques Donzelot (1984), l'organizzazione dello Stato del benessere minò le fondamenta di uno dei pilastri della teoria liberale illuminista: quello della unicità del soggetto. Nel sistema del welfare state, il carattere assoluto dei diritti civili e politici viene sostituito dal «carattere relativo e aleatorio degli eventi, delle circostanze e degli infortuni» (Donzelot 1984, 139). Lo Stato non garantisce la sicurezza delle pretese soggettive considerate legittime, non garantisce al lavoratore una società in cui non esiste il rischio disoccupazione, ma considera inevitabile questo rischio e, attraverso le assicurazioni, organizza la ridistribuzione sociale dei suoi costi.
Analogamente, con le nuove politiche penali, lo Stato rinuncia al proprio ruolo di garante della sicurezza: al diritto alla sicurezza sostituisce una politica di socializzazione del rischio che mira a rendere questo più accettabile. I fattori che mettono a repentaglio la sicurezza pubblica sono gestiti, esattamente come aveva fatto lo Stato del benessere per la gestione dei rischi sociali e della perdita del lavoro, utilizzando metodologie di quantificazione e di trattamento di tipo assicurativo. Da ciò deriva la definizione di "criminologia attuariale", con la quale si sottolinea come le nuove strategie di controllo si fondino sui procedimenti tipici della matematica delle assicurazioni (Ewald 1991 e De Giorgi 2000).
La criminologia attuariale, come lo Stato sociale, assume che nell'ambito di ogni collettività esistono fattori di rischio distribuiti casualmente e non imputabili direttamente a singoli soggetti, riconducibili solo a gruppi di popolazione definiti statisticamente in base a un maggiore o minore tasso di pericolosità (Ewald 1991, 195). Per fronteggiare questa situazione si ricorre alla strategia assicurativa. Questa prevede in primo luogo che si proceda ad una quantificazione probabilistica, attraverso valutazioni statistiche, del tasso di rischio esistente. Si devono poi classificare i membri della collettività a seconda di quanto siano a rischio. Il sistema funziona sulla base delle classificazioni dei soggetti: sono queste classificazioni, nella loro ingiustizia, a garantire un profitto in termini di sicurezza.
Castel (1991) ha sottolineato che la nuova politica penale dissolve non solo la nozione di "soggetto", ma anche quella di "individuo" e al suo posto colloca una combinazione di "fattori di rischio". L'attenzione si sposta dalla "pericolosità" di specifici soggetti alla generica nozione di rischio. Quella di pericolosità appare oggi una nozione misteriosa e paradossale: essa è infatti una qualità immanente al soggetto e può in larga misura essere provata solo dopo che il soggetto stesso ha commesso il delitto. L'imputazione della pericolosità è sempre ipotetica, si tratta di una relazione più o meno probabile tra sintomi presenti e certi eventi dannosi futuri. Anche la recidiva dei criminali è qualcosa che non può essere prevista o può essere prevista solo con grandi margini di incertezza.
Il fulcro delle nuove politiche penali è la dissociazione tra la nozione di rischio e quella di pericolosità. Il rischio non è più ricondotto a specifiche persone pericolose, ma ad una serie di fattori astratti che rendono più o meno probabile la commissione di un delitto. La criminologia attuariale non si rivolge ad individui, ma a fattori di rischio, a correlazioni statistiche di elementi eterogenei. Obbiettivo delle nuove politiche criminali non è risolvere una situazione concreta, affrontare e contenere uno specifico soggetto "pericoloso", ma prevenire il possibile manifestarsi di comportamenti indesiderati. La prevenzione promuove il sospetto al rango scientifico di calcolo delle probabilità. Per essere sospettati non è più necessario manifestare dei sintomi particolari di pericolosità, è sufficiente avere quelle caratteristiche che i responsabili della sicurezza ritengono, in base ad induzioni statistiche, fattori di rischio (Castel 1991, 287-8).
Le "ingiustizie" che possono derivare dal metodo attuariale sono messe in conto dal primo documento che ha proposto in Europa una politica criminale ad essa inspirata: il Floud Report [4], redatto in Inghilterra nel 1981, in piena epoca thatcheriana. Dal rapporto emerge la consapevolezza che la strategia attuariale può facilmente produrre ingiustizie. Si riconosce infatti che ogni giudizio predittivo può essere errato in due sensi: si può trattare di un "falso positivo", quando si prevede un evento che non si verifica, o di un "falso negativo", quando si esclude preventivamente un evento che poi accade. Più "falsi negativi" si verificano meno il sistema attuariale è efficiente, meno sicurezza garantisce. I "falsi positivi" si risolvono invece inesorabilmente in un ingiusto pregiudizio per i diritti degli individui riguardo al cui comportamento la predizione è sbagliata. Infatti se si reclude una persona che non è in effetti pericolosa, si commette una grave ingiustizia senza alcun giovamento per la sicurezza pubblica. Questo rischio non è solo cinicamente messo in conto, ma anche candidamente giustificato: le nuove politiche penali devono ridistribuire un carico di rischio che lo Stato non è in grado di ridurre e il miglior modo per farlo è quello attuariale.
Tranquillamente messo in conto è anche il fatto che questa politica richiede che sentenze di condanna, pronunciate contro due autori dello stesso delitto, siano differenti per tipo e quantità della pena comminata. Questa infatti deve essere commisurata non al reato ma ad indici presuntivi legati alla condotta, ai precedenti o alle modalità del reato, e al gruppo che frequentano abitualmente o saltuariamente, in poche parole alla classe di soggetti pericolosi in cui sono inseriti.
La retorica dell'inevitabilità del rischio e della necessità di distribuirlo in modo socialmente accettabile è dunque tanto forte da oscurare quella dell'uguaglianza che dall'illuminismo in poi ha costituito una delle principali fonti di legittimazione del potere punitivo. Per la criminologia attuariale gli esseri umani devono essere trattati diversamente a seconda della classe cui appartengono. La giustificazione di questa impostazione poggia sull'idea che solo a livello di intere categorie di soggetti si può trattare il "carico di rischio" che oggi minaccia la vita di ognuno. Questa giustificazione viene apparentemente considerata sufficiente in quasi tutte le democrazie nord-occidentali: nessuno sembra porsi il problema se le classi di pericolosità non siano un paravento retorico per riprodurre una giustizia di censo, se valga la pena sacrificare il principio di uguaglianza considerato per due secoli dalla tradizione giuridica liberale lo strumento principale per contenere i possibili abusi del potere punitivo. I nuovi criteri di gestione della popolazione invece di segregare gli elementi indesiderabili e mirare alla loro reintegrazione grazie a trattamenti correttivi o terapeutici più o meno forzati, assegnano ai soggetti un "destino sociale" in virtù della loro corrispondenza agli standard ritenuti fondamentali dal corpo sociale (che sono oggi quelli della competitività e della capacità di fare profitti).
Si delinea un modello di società duale o a due velocità. Su un binario iperveloce viaggiano i soggetti che soddisfano i duri requisiti della competizione economica, su un binario secondario vengono collocati i soggetti marginali che non riescono a reggere il ritmo o ad entrare nel circolo della competitività. La stessa marginalità, invece di essere un terreno selvaggio e inesplorato, diventa una zona sociale organizzata verso cui dirigere quelle persone che, per le loro caratteristiche, sembrano in astratto inadatte ad inserirsi nel circuito della competizione economica (Castel 1991 294-5).
Questo dato non deve sorprendere più di tanto. Le nuove politiche penali non fanno infatti altro che rispecchiare la sclerosi di quella che Peter Gloz (1985) ha definito "la società dei due terzi", una società cioè in cui una quota rilevante di cittadini è esclusa dal benessere e dal possesso degli strumenti politici necessari per rivendicarlo. Nei vari sistemi di Welfare i circuiti dello scambio politico ed economico hanno operato una discriminazione sistematica fra gli interessi protetti da organizzazioni dotate di un forte potere contrattuale, quelli protetti da associazioni che non occupano posizioni strategiche e, infine, quelli "diffusi" che non dispongono di alcuna protezione efficace. A questi fenomeni si somma, da almeno un ventennio in Europa e da molto più a lungo negli Stati Uniti, quello dell'immigrazione di masse di diseredati, provenienti da aree continentali caratterizzate da un tasso di sviluppo scarso o nullo e da un'elevata densità demografica, alla ricerca disperata dei vantaggi offerti dall'appartenenza a "cittadinanze pregiate". Questa situazione ha finito per dar vita ad una massa di soggetti economicamente e politicamente molto deboli, esclusi dall'effettivo godimento di quasi tutti i diritti. La garanzia dei diritti a favore delle maggioranze e la parallela necessità di dover restringere le garanzie sociali per la crisi fiscale dello Stato ha trasformato, come ha sostenuto J.K. Galbraith, le democrazie opulente in "dittature di una classe soddisfatta": i ricchi, gli abbienti, i benestanti, che sono sempre esistiti, ma che in passato erano minoranza, oggi sono diventati maggioranza. Queste condizioni storico-sociali hanno portato alla produzione in tutti i paesi nord-occidentali di quella che è stata definita una underclass [5], una sottoclasse sociale più o meno estesa, spesso connotata anche in termini etnici, cui è negato l'accesso legittimo alle risorse economiche e sociali disponibili e che viene rappresentata come pericolosa, vissuta come una minaccia per la sicurezza urbana. Cinicamente si dovrebbe probabilmente gioire perché il potere finalmente rinuncia alla maschera della retorica dell'uguaglianza dietro cui si era a lungo nascosto, ma forse quella che chiamiamo civiltà (giuridica) non è che un insieme di maschere che ognuno deve indossare, primo fra tutti il Leviatano statale.
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Scott. A., (1997), "Globalization: Social Process or Political Rhetoric?", in A. Scott (ed.), The Limits of Globalization, London, Routledge.
Wacquant L., (1999), Les prisons de la misère, Raisons d'Agir, Parigi, 1999, tr. it. Parola d'ordine: tolleranza zero, Feltrinelli, Milano, 2000.
Wilson Q., Kelling G., (1982), "Broken Windows.The Police and Neighborhood Safety", Atlantic Monthly Review, March.
* Emilio Santoro (Parma, 1963) è professore associato non confermato di Sociologia del diritto, per Scienze giuridiche, Servizi giuridici e per il terzo settore. Ha conseguito il dottorato in scienze politiche e sociali presso l'Istituto Universitario Europeo. È stato Visiting Fellow nella School of Economic and Social Studies della University of East Anglia. È direttore di L'altro diritto, centro di documentazione su carcere, devianza e marginalità.
Fra le sue pubblicazioni: Carcere e società liberale, Giappichelli, Torino 1997; Autonomia individuale, libertà e diritti, ETS, Pisa 1999; Common law e costituzione nell'Inghilterra moderna. Introduzione al pensiero di Albert Venn Dicey, Giappichelli, Torino 1999. Ha curato, insieme a Danilo Zolo, il volume collettivo L'altro diritto, La Nuova Italia Scientifica, Roma 1997.
[1] Sept pièces du puzzle néolibéral:
la quatrième guerre mondlale a commencé, Le monde diplomatique,
agosto 1997, pp. 4, 5. L'articolo è firmato "Sous Commandant Marcos"
e proviene dal territorio della ribellione rurale del Chiapas, in Messico. Citato
in Bauman 1998, tr. it. 75.
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[2] Wilson è autore all'inizio degli anni settanta
di Thinking About Crime (Vintage, New York, l971), che costituisce
un po' la bibbia della criminologia della nuova destra, ed è stato consigliere
per la sicurezza del presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan.
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[3] Scrivono Wilson e Kelling in un secondo articolo del 1989,
anch'esso pubblicato dalla Monthly Review: «Like it or not, the police
are about the only city agency that makes house calls around the clock. And
like it or not, the public defines broadly what it thinks of as public order,
and holds the police responsible for maintaining that order» (Wilson
Kelling, 1989). Lord Devlin (1965), contro il quale Hart polemizzava, almeno
affidava questo ruolo "definitorio" alla giuria popolare.
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[4] J. Floud, W. Young, Dangerousness and Criminal Justice,
Cambridge Studies in Criminology XLVII, Editor Sir Leon Radzinowicz, Heinemann,
London 1981; un commento dell'autrice Jean Floud è pubblicato con lo
stesso titolo del Report in The British Journal of Criminology, vol.
22, 3/1982, pp. 213-228.
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[5] La nozione di underclass è stata posta
al centro del recente dibattito criminologico da W.J., Wilson, The Truly
Disadvantaged, University of Chicago Press, Chicago 1987. Essa ha comunque
progenitori illustri come la teoria delle associazioni differenziali di E.H.
Sutherland (Criminology, Lippincott, Philadelphia, 1924), la teoria
ecologica della disorganizzazione sociale di C.D. Shaw e H.D. McKay (Juvenile
Delinquency and Urban Areas, University of Chicago Press, Chicago 1942)
e le teorie del conflitto culturale.
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