Viaggio nella casa di correzione penale di Santo Stefano
di Amelia Pugliese
INDICE
2. Geologia dell'isola.
Ventotene e S. Stefano risultano essere le sommità emergenti di
un cono eruttivo. I geologi hanno individuato il centro del cono vulcanico nei
pressi di Punta dell'Arco. Contemporaneamente alla grande eruzione di questo
cono vulcanico, che circa 1.700.000 anni fa diede vita al processo del
"divenire" geologico di Ventotene, un'attività eruttiva di dimensioni ridotte
formò, a poca distanza, un'enorme massa rocciosa di trachiti e basalto,
presupposto genetico per l'isolotto di S. Stefano. Su questo ammasso informe
ricaddero successivamente pomici, ceneri, lapilli e scorie varie, frutto della
fase esplosiva del cono vulcanico di Punta dell'Arco. Cominciò così a prendere
corpo e a svettare dalle acque una piattaforma tondeggiante che i millenni
successivi, con il contributo determinante degli agenti atmosferici, plasmarono
progressivamente così come oggi ci appare. Solo l'imprevedibilità della mente
umana riuscirà poi a trasformare quest'esuberante giardino della natura in una
triste serra di costrizione.
3. Cenni storici
Le vicende storiche dell'isola di S. Stefano sono state da
sempre, e fatalmente, collegate da un cordone ombelicale a quelle della "madre"
Ventotene: così, dalla probabile frequentazione protostorica, si arrivò allo
stanziamento romano passando, per più o meno prolungate soste di genti,
soprattutto greche, che solcavano quei mari. Ma per S. Stefano si dovrebbe
parlare, più giustamente, di uno stanziamento romano sui generis riflesso
cioè di quello di Ventotene: scarsissime sono le testimonianze monumentali fino
ad ora note, incentrate in qualche spezzone di muratura, in reticolato inglobato
in un cascinale. Alla suggestione popolare si deve l'identificazione di un
grande bacino scavato interamente in un banco di tufo con una vasca realizzata
per Giulia, la figlia di Augusto, relegata nella vicina Ventotene. Con il crollo
della residenza imperiale di Ventotene, anche le poche strutture di S. Stefano
dovettero cadere rapidamente in rovina. Molto probabilmente su questi ruderi,
con opportuni adattamenti ed ampliamenti, si dovettero susseguire le fasi
monumentali delle ulteriori vicende storiche dell'isolotto. Infatti la natura
dell'isola non poteva che consentire sporadiche presenze, forse, di eremiti e
forme monastiche embrionali, per nulla appetibili alle bramosie dei pirati
saraceni.
Nel 1019, l'isolotto, che da tempo doveva essere proprietà dei
duchi di Gaeta, viene ceduto, insieme a Ventotene, al Nobile Campolo, figlio di
Docibile; nel documento relativo l'isolotto venne indicato come Dominus Stefanus
dal nome di uno dei nobili di Gaeta che ne era stato proprietario. Questa
definizione deve aver condizionato il futuro nome. È probabile, infatti, che
nel momento in cui a Ventotene venne realizzato il monastero dedicato a S.
Stefano (documentato agli inizi del XIII sec. ) il vicino isolotto passò, vuoi
per il desiderio dei monaci, vuoi per la volontà popolare, sotto la protezione
del medesimo Santo di cui già possedeva, anche se per altri motivi, il nome.
Le fonti ricordano l'isolotto come proprietà della Chiesa
gaetana fin dal 1071. Probabilmente, con la realizzazione di un monastero vero e
proprio a Ventotene, cessarono le manifestazioni eremitiche a S. Stefano e
l'isolotto dovette rimanere in possesso dei monaci di Ventotene come eventuale
serbatoio suppletivo per le risorse agrarie.
Per i secoli successivi S. Stefano rimase ai margini delle
vicende dell'arcipelago divenendo rifugio occasionale per i pirati, poichè le
sue ridotte dimensioni non ne consigliarono mai uno sfruttamento razionale.
Si deve aspettare il Settecento, con il suo ambiguo bagaglio
illuministico, perchè S. Stefano possa trovare un suo spazio ben definito nel
tessuto socio-economico dell'arcipelago.
L'isolotto, per le sue peculiarità naturalistiche e
topografiche, venne chiamato a svolgere il ruolo di palcoscenico per la messa in
atto di un esperimento che la storia definirà, giustamente, angosciante, ma che
allora si fregiava dell'etichetta di alta e "illuminata" umanità.
4. Il penitenziario.
4.1. La sua storia
S. Stefano fu scelta per la costruzione di un carcere che
rispondesse agli, allora, imperanti dettami della salvaguardia della società
"sana", mediante l'isolamento dei colpevoli ai fini dell'espiazione della
"giusta pena". La costruzione dell'ergastolo fu l'ultimo atto della sistemazione
urbanistica delle isole pontine, voluta da Ferdinando IV di Borbone, a
prosecuzione delle imponenti opere, di uso collettivo e sociale, avviate da
Carlo III a Napoli e nei territori del regno. Ferdinando infatti aveva deciso
con il consiglio dei suoi ministri di fare delle isole pontine floride colonie.
Nacque così un piano di interventi che prevedeva due direttrici: una, volta alla
realizzazione di una serie di opere pubbliche; l'altra, al ripopolamento e alla
trasformazione economica delle isole. Il piano dei lavori pubblici fu affidato
alla direzione del Maggiore del Genio Antonio Winspeare, che si avvalse della
collaborazione dell'architetto Francesco Carpi. Ma l'artefice materiale della
realizzazione del carcere fu il Carpi, il quale seguì tutte le fasi della
costruzione sia sul piano strettamente architettonico che su quello riguardante
le collaterali questioni amministrative.
Secondo il Tricoli l'inaugurazione ufficiale dell'ergastolo,
non ancora però ultimato, sarebbe avvenuta il 26 Settembre 1795 con l'invio di
un primo contingente di detenuti, circa 200. Non sappiamo da dove il Tricoli
abbia ricavato una data così precisa, ma è certo che l'edificio ha cominciato ad
essere abitato, anteriormente a quella data, dai detenuti che venivano adoperati
come forza lavoro nella costruzione del carcere stesso. I lavori furono ultimati
nel 1797: solo allora, il penitenziario potè allargare la propria capienza alle
600 persone previste dal progetto di Carpi; ma già in pieno XIX secolo si
potevano contare quasi 900 detenuti.
Riveste un particolare interesse sul piano non della storia, ma
forse della psicologia, una curiosa affermazione del Tricoli, secondo il quale
fra i primi detenuti ci sarebbe stato lo stesso Carpi condannato "per reato
politico".
L'informazione è del tutto priva di fondamento poichè le carte
dell'Archivio di Stato di Napoli attestano che nel periodo in cui, secondo la
tradizione, avrebbe dovuto indossare i panni dell'ergastolano, Carpi svolgeva
regolarmente le sue mansioni di funzionario del regno. Da dove il Tricoli, ed
altri dopo di lui, possono aver desunto questa notizia? Si può supporre
un'ipotesi abbastanza suggestiva: per il profondo della coscienza, soprattutto
della coscienza popolare, l'ergastolo è un luogo maledetto, la parola stessa ha
un suono sinistro; così, per un oscuro bisogno di giustizia la coscienza
popolare e la psicologia collettiva evocano Nemesi: chi ha costruito
l'ergastolo, il luogo del dolore, dove altri uomini saranno rinchiusi, dovrà a
sua volta, per la legge del taglione, esservi rinchiuso.
4.2. La struttura
La costruzione si presenta, come una struttura a ferro di
cavallo, chiusa anteriormente da un grande avancorpo con padiglioni quadrilateri
alle estremità, torri cilindriche mediane e cortile interno.
Lungo il perimetro del ferro di cavallo si aprono, su tre
ordini sovrapposti, 99 celle, rettangolari di: 4,50 x 4,20m., le quali furono,
successivamente, ridotte alla metà (4,50 x 2,20m.) per raddoppiarne il numero.
Contemporaneamente, dovette essere costruito un anello esterno,
ancora più ribassato rispetto al primo piano del corpo originario, in cui
vennero ricavate altre celle che, per la loro particolare posizione, erano prive
della finestra del lato di fondo, per cui aria e luce erano assicurate da un
corridoio antistante munito di finestre che davano sull'esterno.
In origine, nei primi due ordini le celle erano delimitate
frontalmente da un prospetto ad arconi ribassati che incorniciavano la porta e
la vicina finestrella, che davano sul ballatoio: sulla parete di fondo di ogni
cella, strette feritoie a bocca di lupo, che si aprivano sull'esterno del
carcere, facevano entrare luce ed aria appena a sufficienza. I suddetti archi
venivano a formare due distinte successioni nel secondo e nel terzo piano e
ripartivano in classi i prigionieri, i quali venivano assegnati ai piani
superiori come premio di buona condotta, mentre il pian terreno era riservato ai
più irrequieti e turbolenti
"Ogni cella ha lo spazio di 16 palmi quadrati e ce ne è
di più strette: vi stanno nove, dieci uomini e più in ciascuna. Sono scure e
affumicate come cucine di villani, di aspetto miserrimo e rozzo, con letti
squallidi e coperti di cenci .... tetre sono queste celle di giorno, più tetre e
terribili la notte, la quale in questo luogo incomincia un'ora prima del
tramonto del sole, quando i condannati sono chiusi nelle celle, dove nell'estate
si arde come in una fornace, e sempre vi è puzzo.
O quanti dolori, quante rimembranze, quante piaghe si
rinnovellano a quell'ora terribile. Nel giorno sempre aspetti e sempre speri, ma
quando è chiusa la cella, non speri, e ti senti venir meno la vita. Allora non
odi altro che strani canti di ubriachi o grida minacciose che fieramente
eccheggiano nel silenzio della notte, come ruggiti di belve chiuse: talvolta odi
rumor sordo e indistinto di gemiti o di strida e la mattina vedi cadaveri nella
barella"
La superficie racchiusa dal perimetro delle celle era
originariamente occupata solo dalla cappella esagonale al centro e da due vere
da pozzo; successivamente è stato alzato un muro che ha formato un ampio cerchio
avente per diametri due lunghi diaframmi in muratura che, correndo affiancati,
creano un corridoio contenente i due pozzi, che in realtà sono le due botti di
un'unica cisterna alimentata dall'acqua piovana. Mentre l'accesso al corridoio
dall'area delle celle è fisicamente libero, i due semicerchi facenti capo alla
cappella sono sbarrati da pesanti cancelli, "nel cortile maggiore non è
permesso trattenersi mai agli ergastolani...." , ma solo ai condannati ai
ferri che, proprio perchè incatenati, davano sufficiente garanzia di non tentare
la fuga. Gli altri condannati, invece, vi erano periodicamente condotti per il
passaggio sotto munita scorta.
Inserimenti successivi sono pure le due torrette poligonali
lungo il corpo delle celle e le garitte delle sentinelle sulla terrazza
dell'ingresso.
L'isolamento era qui sottolineato dalla voluta compenetrazione
della struttura architettonica del carcere con la conformazione naturale
(tondeggiante) dell'isolotto, che faceva sì che il mare circostante
s'infrangesse materialmente sulle pareti rocciose di S. Stefano e
psicologicamente sulla mai doma volontà di fuga dei carcerati:
quant'angoscia questa calcolata sensazione potesse generare nei reclusi è
facilmente e tristemente immaginabile.
4.3. La tipologia e il modello del Panopticon.
La ragione della forma circolare del carcere di S. Stefano, che
pure si fonde mirabilmente con la linea curva dell'isolotto, è fondamentalmente
ideologica. Nella seconda metà del Settecento, in Inghilterra e in Francia,
venne maturando una riflessione che, pur investendo più direttamente il regime
carcerario, si rivolge globalmente a tutte quelle che potremo chiamare "comunità
coatte", nelle quali, cioè, molti individui vivono insieme non per libera
scelta, ma perchè costretti dalla loro comune condizione di sorvegliati: i pazzi
perchè non rechino danno a sè o agli altri, i malati per seguirne l'evolversi
della malattia, i condannati perchè non evadano, gli operai perchè lavorino, gli
scolari perchè studino. Così la particolare forma del carcere rispondeva alla
razionale volontà di chiudere e delimitare lo spazio che potesse consentire, nel
contempo, al carceriere di guardare sempre il recluso e a quest'ultimo di
sentirsi visivamente, e quindi anche psicologicamente, sempre controllato.
L'opera teorica che spiega, illustra e ribadisce con insistenza quasi maniacale
questa necessità di sorvegliare, perchè le energie umane non vadano sprecate o
non imbocchino sentieri devianti, è "panopticon" di Jeremy Bentham, filosofo e
giurista inglese. Esso è un vero e proprio trattato in forma epistolare mirante
a dimostrare, come sia possibile, avvalendosi di un'idea architettonica,
"ottenere il dominio della mente sopra un'altra mente...." .
Il panottico è il modello di reclusione che, meglio di
qualsiasi altro, segue la trasformazione della prigione da "monumento" a
"macchina", da spazio di morte a puro dispositivo disciplinare.
Sottolineando la trasformazione di una mentalità punitiva, esso
segue il passaggio da una morale di esclusione, di rifiuto, di lutto ad un
progetto di recupero sociale degli individui tramite l'ammaestramento, il
raddrizzamento: "Una sottomissione forzata conduce poco a poco ad
un'obbedienza meccanica".
Per quanto il Carpi potesse essere aggiornato sui più
significativi orientamenti della cultura europea contemporanea, mancano prove
certe della presa di coscienza di un tal proposito da parte del Carpi; fatto
sta, che il suo carcere a S. Stefano si avvicina per molti versi alle concezioni
architettoniche ed ideologiche del Bentham finalizzate alla realizzazione di un
panottico, una struttura cioè in grado di consentire, come dice il nome stesso,
un controllo visivo a tutto campo: sorveglianza totale e visibilità totale.
"La forma più naturale e più geometricamente vera per considerare in un
sol colpo d'occhio un quadro è la forma circolare, in quanto tutti i punti del
cerchio formanti sia i diametri, sia la circonferenza sono ad uguale distanza
dall'occhio; in tal modo la figura circolare diventa la base di un cono ideale
formato dai raggi visivi, aventi per vertice l'occhio dello spettatore"
.
Dunque il potere (quale esso sia: medico, carceriere,
o maestro) deve sorvegliare continuamente perchè nulla avvenga di male;
il sorvegliato, a sua volta, deve essere continuamente visibile, e sapere
di esserlo, perchè così perderà la possibilità
e la volontà stessa di fare il male. Quasi a giustificare tanta ansia
di controllo, il Carpi fece apporre all'ingresso del carcere questa sintomatica
frase: Donec sancta Themis scelerum tot monstra catenis victa tenet, stat
res, stat tibi tuta domus.
Vale a dire: fintanto che la santa giustizia (indicata
con il nome della dea greca della giustizia, Themi) tiene in catene tanti
esemplari di scelleratezza, sta salda la tua proprietà, rimane protetta
la tua casa.
Ma nel panottico non sono trascurabili anche i riferimenti
teologici. La simbologia del cerchio metaforicamente rappresenta l'occhio
divino: Dio è presente ma la sua presenza è inverificabile; Egli vede tutto, ma
non può essere visto. Ciò acquista maggior valore nel caso del carcere di S.
Stefano in cui il centro del panottico non è semplicemente la torre, ma la
Chiesa che, rappresentando materialmente l'occhio di Dio, genera ulteriori
suggestioni. Vi è sempre un Dio nascosto che veglia sul perfezionamento
spirituale degli uomini, che soltanto un'esistenza morale può salvare; per
questo al teatro della perversione corrisponde un teatro inverso della
sofferenza, della punizione, che deve redimere i peccati commessi. E teatro
separato, chiuso, è la cella, luogo solitario della pena. Essa può presentarsi
in due figure fondamentali: come luogo del supplizio per l'eretico
incorreggibile, condannato a consumare fino alla morte la propria punizione, o
come luogo della disciplina per chi sceglie la via della perfezione morale. In
questo senso la cella funziona come luogo della verità: in essa chi è in preda
al peccato sarà perseguitato dai fantasmi della colpa, chi abbraccerà la
conversione sarà redento e libero.
Essa, dunque, è il sepolcro in cui si realizza l'oscuro
incontro con la verità del proprio spirito: sulla base di una scelta individuale
esso potrà aprirsi alla luce della resurrezione oppure trasformarsi in una
lugubre tomba.
5. Testimonianze di vita nel carcere.
Attraverso il linguaggio asciutto dei dispacci e delle lettere
d'ufficio che Carpi scriveva ai suoi superiori a Napoli, trapela ogni tanto
qualche scintilla dei drammi che si compivano all'interno dell'ergastolo.
Veniamo così a sapere che il 26 Agosto del 1797 c'era stato un tentativo di
evasione in massa, seguito da una violenta battaglia, con due morti e numerosi
feriti, con le truppe di rinforzo provenute da Napoli; ma Napoli era lontana e
il viaggio era durato tre giorni, durante i quali gli evasi avevano assaporato
la loro effimera libertà fuori dalle mura dell'ergastolo. Altri violenti tumulti
si verificarono ancora fra i detenuti, l'anno successivo, e si ha anche notizia
di un'altra evasione di massa nel 1860, e questa volta le redini dell'operazione
erano nelle mani di un gruppo di camorristi napoletani facenti capo ad un certo
Francesco Venisca.
Nel 1894 il "Corriere di Napoli" pubblicò, in due giorni
consecutivi, un servizio molto accurato, siglato M. G. sulle condizioni dei
carcerati di S. Stefano; da esso apprendiamo che da poco "sono sparite,
con le catene, le giubbette rosse e non si usano più i berretti verdi per i
condannati a vita e rossi per i condannati a tempo", ma tutti i detenuti
indossano "giubba, corpetto, calzoni, e un berrettino di panno ordinario,
color terreo a quadroni". Dallo stesso giornale apprendiamo della fuga di
un detenuto di nome Luciani, fallita per un soffio: l'evaso era riuscito ad
allontanarsi dall'ergastolo ed a raggiungere il mare in un tratto impervio della
costa dove lo aspettava una barca i cui occupanti fingevano di pescare.
All'ultimo momento però i falsi pescatori si erano traditi.
L'illuminismo, pur con la sua ripugnanza per le tenebre, per
l'ombra in cui si tessono trame oscure, con la sua ansia di riscatto e le sue
preoccupazioni igieniche (poichè è riscatto anche un maggior rispetto per il
corpo), non ebbe però forza o previdenza sufficienti ad impedire che il
risultato pratico di tutto questo si risolvesse, nelle carceri, in una violenza
ancora peggiore della precedente perchè più raffinata e al tempo stesso più
brutale. L'architettura dell'ergastolo di Santo Stefano sembra, nelle linee
generali dell'impianto, riflettere la preoccupazione illuministica di assicurare
all'interno più luce e più aria e quindi migliori condizioni igieniche, oltre a
quella benthamiana di garantire la perfetta sorveglianza dei detenuti.
"Nella cella di segregazioni non si era mai soli; due
occhi ci sorvegliavano anche se nulla lo faceva sospettare. Quando si immaginava
che l'occhio del secondino ci guardasse attraverso lo spioncino della porta, ci
si accorgeva che esso ci spiava dalla finestra grazie ad un ballatoio che
correva sotto le finestre e all'esterno del carcere" .
A pochi anni dal termine della sua costruzione l'ergastolo, che
inizialmente doveva accogliere solo criminali irriducibili, cominciò ad ospitare
sempre più frequentemente detenuti politici: la prima ondata di oltre 500
prigionieri vi fu tradotta subito dopo la rivoluzione napoletana del 1799.
Da allora la lunga catena si è trascinata fino alla fine del
fascismo. Pur senza intenzioni discriminatorie fra "politici" e "comuni", è però
vero che il detenuto politico è molto spesso vittima dell'arbitrio, non di rado
è uomo di cultura e perciò più capace di conservare integra la percezione della
realtà; è, inoltre, altrettanto vero che il potere che incarcera insieme
delinquenti comuni e oppositori tende per sua natura a trattare questi ultimi
con maggiore durezza, perchè li ritiene più pericolosi. In questo senso vanno
infatti tutte le testimonianze dei detenuti politici a noi pervenute dalla fine
del Settecento in avanti. website
Molte oscure tragedie consumatesi a S. Stefano, e che non
avranno mai una chiara spiegazione, hanno avuto come involontari protagonisti
detenuti politici; Settembrini racconta con parole commosse la morte Antonio
Prioli, calabrese di Saracena, sacerdote, condannato a 7 anni di ferri per reati
politici, spentosi a 32 anni per un male che "lo ha distrutto in 50
giorni"; Gaetano Bresci, l'anarchico che aveva ucciso Umberto I, fu
probabilmente impiccato in cella dai secondini e seppellito di nascosto, in
tutta fretta, forse neppure nel cimitero dell'isola; Rocco Pugliese, della prima
leva antifascista detenuta a S. Stefano, fece probabilmente la stessa fine,
anche se la versione ufficiale della sua morte parlò di suicidio.
Alla morte spesso si richiamano gli scritti ed i ricordi dei
detenuti: "....spesso vedi lo scanno sul quale si danno le battiture e
spesso la barella con entro cadaveri...." .
E ancora con agghiacciante denuncia: ".... le nostre
leggi a pochi delitti danno la pena dell'ergastolo: non di meno vi sono ora più
di 700 ergastolani e in venti anni ne sono morti 1200 dei più di 1000
uccisi" .
Dal momento dell'ingresso, alle angherie, alle punizioni
corporali, sino al penoso ripetuto spettacolo delle morti più o meno naturali è
tutto un susseguirsi di cupe sensazioni che neppure il chiarore abbagliante
dell'isola riesce a stemperare: "Non si può dire che tumulto di affetti
sente il condannato prima di entrare; con che ansia dolorosa si sofferma e
guarda i campi, il verde, le erbe e tutto il mare e tutto il cielo e la natura
che non dovrà più rivedere .... e null'altro vede perchè null'altro v'è fuorchè
il mare, ed il cielo, e le isole lontane, ed il continente più lontano ancora a
cui vanamente il misero sospira ...." .
Inoltre proprio per la strutturazione a panottico del carcere,
i detenuti sono costretti a vedere e a vivere le punizioni degli infelici
compagni di sventura: ".... il colpevole è disteso bocconi sopra uno
scanno in mezzo al cortile e da due aguzzini con due grosse funi impiastrate di
catrame e immolate con l'acqua, è battuto fieramente sulle natiche e sui fianchi
ancora e sui femori. Il comandante prescrive il numero dei colpi ed è presente
col medico e col prete; i soldati stanno sulla loggia con l'arme al braccio: i
condannati devono riguardare; il battuto urlando chiama la Vergine e i Santi,
che poc'anzi bestemmiava ....; dopo le battiture è incatenato ad un piede e
messo al puntale, cioè l'altro capo della catena è fisso ad un grosso anello di
ferro che sorge sul pavimento di una segreta o è fisso ad un cancello di una
finestra: e così sta assai giorni e mesi. Talvolta gli si mettono ancora le
traverse, che sono due semicerchi di ferro messi ai piedi e fermati da un
grossissimo pezzo che pesa sui talloni e rende difficile e doloroso stendere un
passo ....".
Sono ancora di Settembrini alcune parole che ricreano
perfettamente il senso di stasi incombente e di monotonia allucinatoria
suggerita dalla forma "rotante" dell'edificio e del suo vasto spazio centrale:
"Qui il tempo è come un mare senza sponde, senza sole, senza luna, senza
stelle, immenso ed uno"; gli fa' eco Silvio Spaventa, suo compagno di
cella: "sotto la cappa dell'ergastolo non c'è mai niente di nuovo".
Ma Settembrini che in questo caso dà voce all'intensità della sua emozione e
della sua angoscia, in altri momenti conserva intatta la sua lucidità. Entrambi
ci offrono, Settembrini e Spaventa, nella diversità dei loro temperamenti, uno
specchio molto significativo delle possibili e alterne reazioni di fronte alla
durezza della pena carceraria, percorrendo entrambi l'ampio arco che va dalla
disperazione allo struggimento, alla riconquistata serenità, alla speranza che
qualcosa accada.
Altra stagione di intensa presenza di detenuti a S. Stefano fu
il periodo fascista, soprattutto negli anni successivi ai processi dei Tribunali
Speciali del 1928 e 1929. I nomi appartengono alla storia del nostro tempo:
Umberto Terracini, Sandro Pertini, Mauro Scoccimarro, Athos Lisa, Emilio
Hofmaier, Rocco Pugliese ed altri ancora. Quasi un secolo separa la generazione
degli antifascisti da quella di Settembrini e Spaventa, ma dietro le mura
dell'ergastolo il tempo è fermo e non è cambiato niente: si possono leggere a
questo proposito le pagine famose del Settembrini sulle "battiture" inflitte
agli ergastolani, o si leggano le parole piene di orrore dello Spaventa su "lo
strazio della carne battezzata", e si confrontino con le espressioni di uomini
vissuti in momenti e con sensibilità tanto diverse e si vedrà come in esse
ricorrano addirittura le stesse parole: "Se ci fosse l'Inferno, ei saria
come l'ergastolo .... un vastissimo teatro scoperto" ; "è in un
certo modo bello a vedersi, e dentro vi è chiuso l'inferno"; "....
l'inferno all'ergastolo, è fatto a guisa di anfiteatro .... "; o ancora
si leggano le parole, ricche di un'incrollabile certezza morale, di Silvio
Spaventa: "Non si parli mai più tra voi di grazia di alcun uomo al mondo
per me: io non desidero, non voglio grazia .... io mi sentirei degradato e
perduto innanzi a me stesso .... essi vogliono appunto questo degradare i loro
avversari, non avendo avuto il coraggio di distruggerli", e si mettano a
confronto con la famosissima lettera che Pertini scrisse alla madre da Pianosa
il 23 Febbraio 1933 : vi domina la stessa inflessibile coerenza, non indebolita
ma anzi rafforzata dalla durezza degli anni trascorsi a S. Stefano. Se con il
tempo si stemperò il duro scenario delle angherie fisiche non verrà, viceversa,
meno il tentativo di affidare al penitenziario di S. Stefano il compito di
cercare di soffocare con il confino ogni velleità di libera espressione
contrapposta a qualsiasi forma di tirannide.
6. Gli ultimi anni del penitenziario.
Dopo la seconda guerra mondiale, S. Stefano riprese la sua
normale funzione di carcere giudiziario per ergastolani finchè, il 2 Febbraio
del 1965, fu definitivamente chiuso. Averlo chiuso è stato, comunque, un atto di
civiltà indipendentemente dai motivi contingenti per cui si lo si è fatto, ma
adesso l'intero complesso, che pure appartiene al demanio dello Stato, è ormai
prossimo alla rovina, esposto com'è alle aggressioni del tempo, del clima e,
soprattutto, del cieco vandalismo.
Nel 1968 un privato aveva preso in affitto l'edificio per un
canone annuo si dice, di sei milioni da versare allo Stato: pare che
l'intenzione fosse di realizzarvi un grande complesso alberghiero, pur
conservando integre le strutture settecentesche. Il progetto non è mai andato in
porto, l'affitto è stato revocato, e il processo di disfacimento continua.
Anche se la privatizzazione non sarebbe la soluzione migliore,
sia la qualità architettonica dell'opera, l'unica in Italia a tradurre così
fedelmente lo schema panottico, sia il dovere civile verso coloro che hanno
consumato parte più o meno grande della propria vita dietro quelle mura,
imporrebbero di salvare comunque l'edificio dalla distruzione. Perchè conservare
la memoria degli uomini e delle cose, cioè il senso della nostra storia.