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«O prisoneiro». La telecamera in prigione

Alessandra Flora

Carta settimanale n.32, 2003

Quando il buio cala sui tetti delle case popolari e sui lussuosi grattacieli, quando penetra attraverso le sudicie pareti delle fabbriche o s’infila nell’abbacinante indigenza delle favelas, c’è un luogo che risplende più di ogni altro punto della città, diffondendo settemila piccole luci. Ogni sera l’altoparlante sprigiona le note dell’Ave Maria di Schubert per gli smisurati padiglioni e le luci alle finestre si accendono improvvisamente di speranza. Gratia plena. Quelle luci provengono dalle celle di Celso, Jonas, José, Rubens, Adeir, Reginaldo.
Persone normali, se non fosse per il fatto che l’orizzonte possono ammirarlo solo attraverso le sbarre. O prisioneiro de Grade de Ferro è il nome che il regista Paulo Sacramento ha dato a chi ha trascorso un periodo di permanenza forzata nell’ex penitenziario di San Paolo.
Sino al giorno del suo smantellamento, per il quale sono stati impiegati venti lunghi anni, Carandiru si è fregiato di un triste primato: essere il più grande carcere dell’America latina. Almeno una volta – sostiene Celso in uno degli «autoritratti» – tutti gli esseri umani dovrebbero fermarsi a pensare come sarebbe trascorrere cinque anni lontano dalla propria famiglia e dagli amici. Dalla sua minuscola stanza Celso vede arrivare in lontananza la metropolitana. Il suo più grande desiderio sarebbe salire sulla carrozza e tornare a casa con la prossima corsa. Da quel pertugio che impropriamente chiama finestra Celso intravede il palazzo di San Paolo, simbolo della borghesia capitalista.
«Qualcuno – afferma Celso – è stato arrestato perché desiderava troppo qualcosa del genere». Il mondo aldilà delle sbarre di ferro è l’unica cosa per cui valga la pena di sperare. Quando non è impegnato nel suo lavoro, Celso trascorre la maggior parte del tempo a contemplare il paesaggio, ad osservare i minimi particolari che possono fare la differenza nella lenta scansione del tempo. La vista di Celso purtroppo non può raggiungere ogni punto dell’orizzonte. Così ha dovuto inventarsi un trucco. Basta infilare una mano fuori dalle sbarre e roteare uno specchietto per vedere, riflesse, le immagini che altrimenti nessun detenuto potrebbe scorgere con i suoi occhi.
Questo documentario di due ore è composto dagli autoritratti realizzati dai protagonisti stessi. Paulo Sacramento ha munito cinquanta detenuti di telecamere affinché riprendessero i loro compagni. Fin qui nulla di nuovo: non è certo la prima volta che ciò accade in un documentario. Il regista di solito costruisce questo tipo di film utilizzando immagini che non ha girato direttamente, spesso riconoscibili per l’estrema spontaneità e naturalezza di chi non è mai stato dietro una macchina da presa. In questo film, invece, le immagini sembrano essere raccolte da mani esperte. Sarà perché Sacramento ha insegnato ai detenuti come usare la telecamera, o forse perché i loro occhi sono abituati, come quelli di nessun altro, al costante contatto con la televisione, loro unica finestra sul mondo.
Alla fine, è impossibile distinguere il girato dei reclusi da quello del regista o della troupe.
«Non volevo insegnare loro a girare un film, ma al contrario mi sono impegnato affinché potessero riconoscersi davvero nel documentario», sottolinea il regista Sacramento.
Costato circa centottantamila euro, «O prisioneiro de Grade de Ferro» è stato presentato tra i lungometraggi non fiction nella sezione «Nuovi territori» nell’ambito della sessantesima Mostra di Venezia.
Il microcosmo di Carandiru, fatto di detenuti, secondini e direttori, rispecchia in piccolo la contraddittoria società brasiliana. In una cella si prega, in un’altra si lavora alacremente, nel campo di calcio si corre e si gioca, in infermeria pochi medici assistono troppi malati. In un’altra stanza c’è chi invoca la libertà a ritmo di rap o chi esegue alla chitarra acustica la versione portoghese di Knocking on heaven’s door. Claustrofobiche stanze affollate, celle d’isolamento prive delle minime norme igieniche, se non della stessa acqua potabile.
L’idea di girare il documentario è venuta in mente al regista sette anni fa. Se le riprese sono durate un anno, ben due sono serviti invece per la delicata fase di montaggio. Oggi la metà degli interpreti ha finito di scontare la pena. Una volta fuori, molti hanno potuto finalmente assistere alla proiezione del film ed accorgersi di quanto tutto fosse realistico.
Ciò che maggiormente colpisce del regista e del produttore Gustavo Stemberg, entrambi molto giovani, è la serietà con cui hanno spiegato al pubblico della Mostra le diverse fasi della lavorazione, per la quale si è reso necessario non soltanto il placet governativo, ma soprattutto il tacito assenso dei settemila detenuti dell’ex penitenziario di San Paolo, per lo più nella fascia d’età che va dai diciotto ai venticinque anni, a causa del dilagare della violenza tra le nuove generazioni.
Ho chiesto al regista cos’è accaduto nel momento in cui le telecamere si sono spente e la troupe si è separata dai detenuti. Sacramento ha precisato di aver mantenuto un contatto con i reclusi. Una volta fuori dal carcere, alcuni lo hanno chiamato per proporsi come elettricisti o per svolgere qualche piccolo lavoro nei suoi film. Altri lo hanno semplicemente salutato.
«Nonostante le innegabili distanze sociali chi intercorrono tra noi e loro – ribadisce Sacramento – abbiamo continuato anche dopo la fine delle riprese a scambiarci parole di stima e di affetto».
Non è la prima volta che il cinema si avvale del carcere come metafora della società, o che una telecamera tenti di esprimere il punto di vista dei detenuti. Ecco la differenza: in questo film i prigionieri si raccontano senza degenerare nei luoghi comuni, cercando semplicemente di esprimere il sogno di tutti: trovarsi dall’altra parte del muro.