Quando il buio cala sui tetti delle case popolari e sui lussuosi grattacieli,
quando penetra attraverso le sudicie pareti delle fabbriche o s’infila
nell’abbacinante indigenza delle favelas, c’è un luogo che
risplende più di ogni altro punto della città, diffondendo settemila
piccole luci. Ogni sera l’altoparlante sprigiona le note dell’Ave
Maria di Schubert per gli smisurati padiglioni e le luci alle finestre si accendono
improvvisamente di speranza. Gratia plena. Quelle luci provengono dalle celle
di Celso, Jonas, José, Rubens, Adeir, Reginaldo.
Persone normali, se non fosse per il fatto che l’orizzonte possono ammirarlo
solo attraverso le sbarre. O prisioneiro de Grade de Ferro è il nome
che il regista Paulo Sacramento ha dato a chi ha trascorso un periodo di permanenza
forzata nell’ex penitenziario di San Paolo.
Sino al giorno del suo smantellamento, per il quale sono stati impiegati venti
lunghi anni, Carandiru si è fregiato di un triste primato: essere il
più grande carcere dell’America latina. Almeno una volta –
sostiene Celso in uno degli «autoritratti» – tutti gli esseri
umani dovrebbero fermarsi a pensare come sarebbe trascorrere cinque anni lontano
dalla propria famiglia e dagli amici. Dalla sua minuscola stanza Celso vede
arrivare in lontananza la metropolitana. Il suo più grande desiderio
sarebbe salire sulla carrozza e tornare a casa con la prossima corsa. Da quel
pertugio che impropriamente chiama finestra Celso intravede il palazzo di San
Paolo, simbolo della borghesia capitalista.
«Qualcuno – afferma Celso – è stato arrestato perché
desiderava troppo qualcosa del genere». Il mondo aldilà delle sbarre
di ferro è l’unica cosa per cui valga la pena di sperare. Quando
non è impegnato nel suo lavoro, Celso trascorre la maggior parte del
tempo a contemplare il paesaggio, ad osservare i minimi particolari che possono
fare la differenza nella lenta scansione del tempo. La vista di Celso purtroppo
non può raggiungere ogni punto dell’orizzonte. Così ha dovuto
inventarsi un trucco. Basta infilare una mano fuori dalle sbarre e roteare uno
specchietto per vedere, riflesse, le immagini che altrimenti nessun detenuto
potrebbe scorgere con i suoi occhi.
Questo documentario di due ore è composto dagli autoritratti realizzati
dai protagonisti stessi. Paulo Sacramento ha munito cinquanta detenuti di telecamere
affinché riprendessero i loro compagni. Fin qui nulla di nuovo: non è
certo la prima volta che ciò accade in un documentario. Il regista di
solito costruisce questo tipo di film utilizzando immagini che non ha girato
direttamente, spesso riconoscibili per l’estrema spontaneità e
naturalezza di chi non è mai stato dietro una macchina da presa. In questo
film, invece, le immagini sembrano essere raccolte da mani esperte. Sarà
perché Sacramento ha insegnato ai detenuti come usare la telecamera,
o forse perché i loro occhi sono abituati, come quelli di nessun altro,
al costante contatto con la televisione, loro unica finestra sul mondo.
Alla fine, è impossibile distinguere il girato dei reclusi da quello
del regista o della troupe.
«Non volevo insegnare loro a girare un film, ma al contrario mi sono impegnato
affinché potessero riconoscersi davvero nel documentario», sottolinea
il regista Sacramento.
Costato circa centottantamila euro, «O prisioneiro de Grade de Ferro»
è stato presentato tra i lungometraggi non fiction nella sezione «Nuovi
territori» nell’ambito della sessantesima Mostra di Venezia.
Il microcosmo di Carandiru, fatto di detenuti, secondini e direttori, rispecchia
in piccolo la contraddittoria società brasiliana. In una cella si prega,
in un’altra si lavora alacremente, nel campo di calcio si corre e si gioca,
in infermeria pochi medici assistono troppi malati. In un’altra stanza
c’è chi invoca la libertà a ritmo di rap o chi esegue alla
chitarra acustica la versione portoghese di Knocking on heaven’s door.
Claustrofobiche stanze affollate, celle d’isolamento prive delle minime
norme igieniche, se non della stessa acqua potabile.
L’idea di girare il documentario è venuta in mente al regista sette
anni fa. Se le riprese sono durate un anno, ben due sono serviti invece per
la delicata fase di montaggio. Oggi la metà degli interpreti ha finito
di scontare la pena. Una volta fuori, molti hanno potuto finalmente assistere
alla proiezione del film ed accorgersi di quanto tutto fosse realistico.
Ciò che maggiormente colpisce del regista e del produttore Gustavo Stemberg,
entrambi molto giovani, è la serietà con cui hanno spiegato al
pubblico della Mostra le diverse fasi della lavorazione, per la quale si è
reso necessario non soltanto il placet governativo, ma soprattutto il tacito
assenso dei settemila detenuti dell’ex penitenziario di San Paolo, per
lo più nella fascia d’età che va dai diciotto ai venticinque
anni, a causa del dilagare della violenza tra le nuove generazioni.
Ho chiesto al regista cos’è accaduto nel momento in cui le telecamere
si sono spente e la troupe si è separata dai detenuti. Sacramento ha
precisato di aver mantenuto un contatto con i reclusi. Una volta fuori dal carcere,
alcuni lo hanno chiamato per proporsi come elettricisti o per svolgere qualche
piccolo lavoro nei suoi film. Altri lo hanno semplicemente salutato.
«Nonostante le innegabili distanze sociali chi intercorrono tra noi e
loro – ribadisce Sacramento – abbiamo continuato anche dopo la fine
delle riprese a scambiarci parole di stima e di affetto».
Non è la prima volta che il cinema si avvale del carcere come metafora
della società, o che una telecamera tenti di esprimere il punto di vista
dei detenuti. Ecco la differenza: in questo film i prigionieri si raccontano
senza degenerare nei luoghi comuni, cercando semplicemente di esprimere il sogno
di tutti: trovarsi dall’altra parte del muro.