clicca qui per andare al sito Filiarmonici, per un mondo senza galere

Le prigioni degli altri

Adriano Sofri

Sellerio editore Palermo, 1993

(estratti dal capitolo Finalmente in carcere sulla detenzione a Bergamo nell’estate del 1988)

[...]

Prendo un'aspirina e mi metto a dormire. Mi sveglio che è notte piena. Passa la conta, e penso all'avversione carceraria per la notte. Per esempio, la semilibertà - termine grottesco, che immagina di dimezzare la libertà, la quale, com'è noto, è indivisibile - in cui la metà esclusa è quella che va dal tramonto all'alba. Si chiama semilibertà quella concessione “premiale” che consente a chi abbia scontato gran parte della pena di uscire dal carcere per andare a lavorare di giorno, tornando a dormire dentro, oltre che a trascorrere dentro i giorni di festa. Idea lavorativa e diurna della libertà, che è per eccellenza notturna e lunare. Si dovrebbe suggerire al ministero competente un regime opposto, di reclusione diurna e produttiva, e di liberazione notturna.

10 agosto. Io lo so perché tanto. Il cielo notturno è dunque vietato ai prigionieri. Anche ora, d'estate, quando c'è un'uscita supplementare e le ore d'aria sono ben cinque. Il cielo notturno non si vede all'aperto, né dalle finestre. Il tempo delle tenebre è attissimo a ogni male. Niente cielo stellato sopra di noi - dentro di noi, niente. Compilo una domandina: “I sottoscritti detenuti, ristretti presso codesta Casa Circondariale (seguono 289 firme) fanno ossequiosamente istanza alla S. V. .Ill.ma per essere condotti nottetempo in data odierna sul terreno del campo di calcio onde contemplare le stelle cadenti ed esprimere ciascuno un desiderio che sa lui. Con osservanza ecc.”.

È l'inferno, un luogo senza stelle, come in Dante:

Quivi sospiri, pianti e alti guai
risonavan per l'aere sanza stelle

(che Jacqueline Risset ha tradotto così:

Là pleurs, soupirs et hautes plaintes,
résonnaient dans l'air sans étoiles).

Nessun luogo comune è più fuorviante di quello secondo cui il carcere è silenzioso. Cerco di dormire, ma i vicini tengono la televisione a tutto volume, o stendono fra cella e cella il loro bucato di conversazioni gridate; e poi dormire presto è un errore, perché alle undici passa una guardia e chiude fragorosamente la seconda porta di ferro detta “blindata” (la prima è una grata di ferro massiccio, con lo spazio per sporgere la testa), poi a mezzanotte un paio di guardiani, quando non un terzetto, passa e fa la conta rumorosamente e, disponendo da un interruttore esterno della tua luce interna, accende se hai spento e spegne se hai acceso. (Come l'allumeur de reverbeurs del Piccolo Principe: la consigne c'est la consigne). Questa cerimonia dell'accensione della luce, preannunciata dal passo boiardo del guardiano di turno, si ripete per tutta la notte ogni ora, e a volte più frequentemente. Galera, amici miei. Non fatevi beccare.

Spedisco molti telegrammi, per ragioni varie. Bisogna fare così: prendere il modulo per far domandina (si chiama così, per sottolineare l'infantilizzazione coatta del tutto; la domandina è la regina di questo regno; uno grida “voglio morire”, o “voglio una donna”, e l'altro gli risponde “fai domandina”; in una domandina tesa all'acquisto di un chilo d'uva ho scritto: “In attesa di una Vs. sollecita rispostina, con ossequio mi firmo” ecc. - siamo in ballo); prendere il modulo del telegramma, compilare il telegramma, compilare la domandina in cui si chiede l'autorizzazione a inoltrare il telegramma, voltare la domandina e sul retro riscrivere destinatario mittente e testo completo del telegramma, far infilare il plico così ottenuto in una cassetta e augurarsi che vada. La mattina dopo, con tempestività telegrafica, un brigadiere riceverà e inoltrerà. Lo stesso brigadiere detiene in un suo sgabuzzino al primo piano un codice di avviamento postale nel quale, su richiesta, cerca la località, senza essersi accorto che c'è un reparto alfabetico, così la cerca rileggendo ogni volta tutto, e dopo averci pensato ho deciso di non dirgli niente, e lasciar perdere il CAP. Da tre giorni, con evidente riferimento a me, è comparso sui muri di tutte le sezioni un cartello scritto a pennarello grosso che ricorda drammaticamente le norme per l'inoltro dei telegrammi compresa, testualmente, la necessità di “mettere il numero di codice di avviamento postale, che, se questi si sconosce, può essere richiesto presso il brigadiere” ecc.
In cambio, rispetto alla vecchia galera che ricordavo, non ci sono più le odiose limitazioni al numero di lettere, che costringevano a scegliere fra le persone care, e non c'è più la censura. Prima le leggevano i direttori, o i cappellani, ci stampigliavano sopra una C, e rubavano avidamente i baci degli amanti.
Compilo venti domandine al giorno (delirio di querela, credo che si chiami tecnicamente): per essere autorizzato all'acquisto di numero 2 (due) palle da tennis di colore giallo; per essere autorizzato all'acquisto di uno scopetto per il wc; perché, previa la debita ispezione, mi venga consegnata la cassetta dei Preludi di Chopin depositata a tal fine dal mio difensore; per l'acquisto di kg 1 (uno) di uva. Le domandine vengono accolte e respinte con assoluta regolarità statistica, ciò che annulla praticamente l'arbitrio. Due domandine accolte, una respinta. Oppure una palla gialla sì, una no. Anche in un carcere che passa per modello la mimesi del naufragio, della sopravvivenza robinsoniana, intrecciata con l'insensatezza burocratica, è inevitabile. Mi occorre uno spago da far correre da un capo all'altro della cella, per fare da stenditoio. Ma spaghi, corde, e tutto ciò che si attorciglia (chissà come lo definisce il regolamento) sono vietati. In compenso basta strappare a strisce sottili i lenzuoli dell'Amministrazione, prima di restituirli per il cambio: fanno tutti così. Ma non è assurdo? Sì, ma non è vietato.

Il ragazzo Tiriamo a campar ha preso confidenza. Mi chiama a squarciagola dalla cella. “Ricordati di segnare i pompelmi alla spesa”, mi raccomanda. Quando ci aprono, mi sbuca addosso per dire lui per primo: “Com'è che va?”, e io, docile: “Tiriamo a campar”. Mi vendico facendogli delle gran prediche. Non è mai andato con una donna, ne ha una gran voglia, ha trent'anni. Mai nessuna mi ha voluto, dice. Adesso ha messo su superbia perché qualcuno gli ha promesso di preparargli un'istanza. Va in giro annunciando: “Go fatt l'istanza”. L'istanza per cosa?, gli chiedono. L'istanza, dice lui. Quando nessuno vede si avvicina e domanda discretamente: “Ma l'istanza, cos'è che l'è?”. Di un altro nostro coinquilino, anche lui bizzarro, e sparatore - senza conseguenze - della propria sorella, mi ha detto con comprensione che è “fermo mentale”.

Anche le vere disgrazie si compiono nel linguaggio. Qui non peccat in lingua perfectus est. Ora che non sono più con gli isolati, dopo la chiusura dell'ultima aria, passa la guardia e proclama: “Socialità”. Vuol dire che i detenuti possono scambiarsi di cella, preparare la cena in comune, stare insieme per un paio d'ore. Buona pratica - benché io preferisca astenermene - losco nome. La guardia si ferma davanti alla mia inferriata: “Sofri fai socialità?”. Un giorno, se e quando finalmente ci si arriverà, diranno: “Sessualità”. È la neolingua. C'è un'altra espressione di conio riformatore così pazzesca che quando la sento la prima volta non credo alle mie orecchie: poi scopro che è lessico ministeriale e legale. La pronuncia un mio compagno di passeggiata, illustrandomi la sua storia carceraria: “Ho un presofferto di nove anni...”. Scusa...? Che cos'è un presofferto? È la pena già scontata. Il presofferto; come il pregresso, o il precotto. Anche la sofferenza - nove anni di sofferenza, 365 giorni all'anno - è diventata impronunciabile. Potrebbe essere un tempo del verbo; l'imperfetto, il passato prossimo, il presofferto, il trapassato.

Di nuovo. Un detenuto distinto, di mezza età, che se ne sta di solito per conto proprio, mi si accosta con discrezione e chiede di Jacqueline Bisset. Risset, gli spiego, Risset.

Sorprendente tranquillità dei politici, traditi solo da qualche dettaglio: una foga negli esercizi coi pesi in palestra, un accanimento improvviso nella partitella di tennis. Mi raccontano la storia, o la leggenda, della sorella di un detenuto politico cieco che, ignara di tutto, sperando di esser messa in cella con suo fratello, fuori da San Vittore schiaffeggiò due carabinieri.
G. mi racconta una storia del sottosuolo di Badu 'e Carros. Lì un detenuto si faceva un punto d'onore di preservare un suo spillo con la capocchia colorata, lo nascondeva con ogni stratagemma. Era la bandiera della sua resistenza. Veniva la perquisa, mettevano il prigioniero nel camerone d'aspetto, stavano dentro il tempo che ci voleva, e se ne andavano senza fiatare. Rientrava e trovava tutte le sue cose per aria, e lo spillo posato in evidenza sul tavolino al centro della cella. Lui ricominciava a studiare il nascondiglio, loro tornavano a trovarglielo, e glielo rimettevano in mostra.

Non è raro, all'aria, sentir motteggiare il povero Silvio Pellico. Pochi, comprensibilmente, l'hanno letto, ma tutti hanno sentito dire che “se la cantò”: un infame, insomma. Così la secolare questione viene sbrigata. Rileggerò le Mie prigioni - come chi, arrivato a Praga, rilegga Ripellino, o, a Procida, più pertinente alla geografia carceraria, l'Isola di Arturo.

Ogni volta che dico che questo in fondo è un carcere comodo, che non è più il carcere di una volta eccetera, gli astanti mi guardano dubbiosamente; poi qualcuno si avvicina e dice piano: “La galera è galera”; “Sempre galera è”. Non dimenticarlo: le tue finestre hanno grate, le tue porte - hai due porte infatti - sono di ferro e fanno un fragore di ferro; di notte, a ogni ora, passa con passo greve un ceffo di guardia, accende la luce e guarda dentro; non dimenticare che tutti urlano; che se vuoi farti consegnare un paio di scarpe portate dai tuoi devi compilare un modulo con su scritto: “Prega...”; che è vietato ricevere delle uova; che è vietato ricevere dell'olio di oliva. Che sei prigioniero.
Mi hanno suggerito, per vedere la luna, di sporgere il braccio con uno specchietto dal buco della rete metallica che sta oltre la grata della finestra, quello da cui Silvio Pellico passava un tozzo di pane al suo mutolo.

[...]

Sabato, 13 agosto. Il ragazzo Fiore, un presofferto di otto anni, racconta un aneddoto della sua insipienza di combattente. Preso per la prima volta, è in una camera di sicurezza in questura, e dialoga ad alta voce con un rapinatore della cella accanto. “Quando ti hanno preso eri accavallato?”, gli chiede il vicino. “Come?”, fa Fiore prendendo tempo. “Quando ti hanno preso eri accavallato?”. “No, ero a piedi”, tira a indovinare Fiore, sommerso dalle risate. (Accavallato: munito di pistola. Voce sconosciuta, oltre che a Fiore, al Nuovo Zingarelli e al Gergo della Malavita). D'altra parte mi pare che qui dentro meritino più interesse certe locuzioni che il lessico, ormai meno originale - dev'essere perché tutta la vita sta diventando mala. Nel '70, alle Nuove, all'isolamento, c'era un tipo bizzarro, che mandava al diavolo guardie e detenuti, e camminava freneticamente all'aria. Riuscii a farci un po' di amicizia, era poverissimo, gli davo da fumare. Con le donne è tutto tempo perso, mi disse. All'uscita si sarebbe preso la prima donna di strada, e si sarebbe fatto una bruciapelo, e via. Così disse: una bruciapelo. Lui poi non uscì. Fu legato al letto di contenzione, la balilla, il materassino prese fuoco - forse stava tentando di accendere una sigaretta, in quello stato - e quando arrivarono ad aprire era già morto asfissiato.

Tutti conoscono la barzelletta del carcerato che ammaestra per anni nella sua cella due pulci saltatrici, e affida a quel numero il proprio futuro. Il portone della galera si chiude finalmente alle sue spalle, lui respira fondo e attraversa la strada fino al caffè di fronte. Lì si siede e ordina un bicchiere. Aspettando, decide di fare del cameriere il primo spettatore della sua meraviglia, tira fuori di tasca la scatolina con le pulci, le posa sul tavolo, e riprova con loro: “Oplà, Marie, Juliette, oplà..,”. Arriva il cameriere col vassoio, e l'ex galeotto indica: “Vede queste due pulci?”. “Oh, scusi”, dice il cameriere, e d'un colpo di tovagliolo schiaccia le pulci.
Tutte le barzellette mi rendono ansioso. Questa mi getta nell'angoscia.

C'è un “politico”, si chiama P., benvoluto da tutti, che ha conosciuto la Legione, e una galera francese in cui i prigionieri all'aria camminano ancora per uno in tondo, come in Van Gogh, e non possono pronunciare una parola. Tiene inflessibilmente allenato un corpo segnato di cicatrici. È di pochissime parole, e quelle poche riservate per lo più, in francese, a un invisibile cammello che gli sta sempre a fianco. “Le chameau”. “Avanti, mon capitaine”, dice. “Non ce ne sono più banane per il prigioniero”. “Ti hanno cucito un bel cappottino di cemento”, mi dice.

All'aria R. - presofferto di nove anni - mi spiega che quando uscirà in permesso per la prima volta, forse fra un anno, sarà spaventato dal rischio dell'Aids.

14 agosto, domenica. Mi alzo alle sei e mezza. Metto in ordine. Mi prudono le mani: le rimprovero severamente, e loro si mettono giù ciondoloni, come bravi cani. Hanno un callo di penna e uno di matita. Leggo i documenti degli animatori del comitato dei detenuti. Il gergo burocratico fa sentire il suo contagio: il “tessuto socioaffettivo” eccetera. Dalle statistiche da loro curate deduco che io faccio parte dello 0,33% laureato - cioè sono l'unico; appartengo al 67% che ha già subito carcerazioni; non appartengo al 52% di tossicodipendenti. Infine, appartengo al 15% più anziano. Troppo in età dunque non solo per un romanzo, anche per il carcere.
Più tardi assisto a una partita di pallone e ammiro la bella presa del portiere della sezione sesta: è imputato di aver strozzato la moglie con le sue mani. È molto giovane, agile e tranquillo.

[...]

Storie di persone se ne ascoltano in continuazione, come in una crociera. Parecchi hanno intenzioni letterarie, e le confidano: sono le confidenze da cui mi schermisco con più fermezza. Uno qui vicino, con una vera testa rotonda e rapata da galeotto, è stato per due anni al confino nel paese ciociaro in cui si rifugiarono durante la guerra Elsa Morante e Alberto Moravia, e ha scritto un romanzo: Il tesoro di Sant'Agata. Il tesoro poi era l'acqua. Distruggeva e ricominciava il romanzo perché non gli veniva il finale. Non importa il finale, dico io. Altro che se importa, dice lui, per esempio prendi Salgari, la montagna dell'oro, il finale c'è, eccome. Allora, dico io, scrivi che sei come la gente del paese che cerca il tesoro e non lo trova perché era l'acqua, anche tu cerchi il finale e non lo trovi - scusa, mi interrompe disgustato, devo andare a fare un servizio.

Racconti di sogni, anche. Ex terroristi che non farebbero più la minima violenza, ma in sogno continuano a commettere delitti assurdi e angosciosi.
Vite che fanno il nodo in un punto, e forse non lo scioglieranno più.

Sera: come fa sempre più spesso, nonostante che gli raccomandi di no, il ragazzo Tiriamo a campar dalla sua cella grida: “Sofri, Sofri”. Sono sul letto, scrivo, ascolto la mia musica, decido di non sentirlo. Ma questa volta insiste straordinariamente, continua a chiamare alto, con una voce quasi allarmata. Vado alla porta. Ha la testa completamente sporta fuori dallo spioncino. “Vado a casa” grida “domani mattina presto. Me l'ha detto la guardia ora”. Sono contento, gli dico. Sono contento davvero. Adesso, una volta fuori, non fare più scemenze. “Eh no” dice lui. “Vienimi a trovare. Ti manderò ventimila lire”. Dev'essere un forfait per le mie spese cui ha attinto. Lo minaccio, e gli mando la mia Lacoste blu un po' a malincuore, perché è una Lacoste di una volta (ma all'aria mi aveva detto: “Bella questa, e chissà quanto è costata”). Poi me ne torno a scrivere, e ad ascoltare musica.
C'è una seconda notte di tuoni e pioggia. Dunque l'estate finisce. Il ragazzo Tiriamo a campar mi ha promesso di passare a salutarmi la mattina, da liberante, e intanto mi ha mandato un biglietto col suo recapito: Casali Fernando, via Cosmo Damiano - sic. I liberanti infatti escono la mattina di buon'ora. La mattina il temporale continua, e intravvedo un pezzo di cielo nero e rimbombante: le nuvole corrono a un loro appuntamento tempestoso. Ma il ragazzo non passa. Lo chiamo, è ancora nella sua cella. Come mai? Non so, dice, ieri sera me l'ha detto la guardia che ero liberante. Non può che essere così, gli dico. Mi vesto civilmente, un po' per il maltempo, un po' perché improvvisamente ne ho abbastanza di sport, e mi avvio alla palestra coi Puritani nelle orecchie. Casali Fernando era pronto, con una specie di giacchetta, forse l 'ha tenuta indosso tutta la notte, ma sono quasi le nove ed è ancora lì. Chiedo alle guardie: non sanno niente. Sarà stato uno scherzo, dicono distratti. Altri detenuti della sezione dicono: sarà stato uno scherzo del Francese, sono cose che succedono in carcere. Il Francese è un giovane omosessuale tunisino, fa lo scopino in sezione, nega ma si capisce che è stato lui, d'intesa con un disgraziato di agente. La maggior parte dei detenuti se ne indigna. Lui, Tiriamo a campar, non esce per tutta la mattina. Quando ripasso vedo che si è messo a letto, tutto vestito, e si è tirato il lenzuolo fino al mento. Dopopranzo, quando lo forziamo a venire fuori, se ne resta zitto, e alla fine dice: “Sono scherzi che non si fanno”.
Cose che succedono in carcere. Fisiologia di una comunità maschile infantilizzata per regolamento, che espone la sua anima in un'anatomia a vista. Mediamente aitanti, nerboruti, energumeni. Uno, tarchiato e poderoso come un toro, tira al pallone cannonate potenti: alla gamba sinistra, nel luogo di una frattura tibia-perone, ha un ferro e due bulloni. Il ferro si è storto, e la gamba è arcuata in avanti. Fra i politici, L. ha i segni di cinque pallottole. P. è coperto di cicatrici come una vecchia pelle rammendata. A F. manca un rene, residuo di una rivolta e di un pestaggio a Trani. C'è un calciatore brizzolato e soffiante, senza un polmone: l'avevano dato per spacciato, e operato al Centro Clinico di San Vittore. W. ha una calotta di metallo sul cranio, per un comune incidente di moto, e sta molto male - ma le autorità competenti non gli credono, o mostrano di non credergli. (Ebbi un'impressione simile quando, nel 1959, andai per la prima volta in Germania, e restai sbalordito dalla quantità di corpi mutilati e straziati di uomini adulti che si vedevano nelle piscine). Ho detto come in questo ci sia qualcosa di primitivo, di fanciullesco e di sventatamente valoroso: di omerico. Le partite di calcio sono battaglie campali, anche se l'agonismo è tenuto a bada. Il conflitto più tradizionale qui oppone i calabresi ai bergamaschi, ma ora è sotto pelle. Nel 1985, proprio al rientro da una partita di pallone, le due etnie si affrontarono e un giovane morì accoltellato. Dopo di allora vennero chiuse le celle in ciascuna sezione. Non ci sono qui, per ora, le tensioni tremende che oppongono nei grandi carceri i detenuti italiani a quelli nordafricani.

Un paio di anni fa ero stato colpito da una storiella romana. Polacchi giovani, istruiti, gentilissimi ed efficienti pulivano i vetri delle auto agli incroci. La storiella era questa, che un gruppo di zingari di Tor Bella Monaca aveva deciso di tingersi i capelli di biondo: per sembrare polacchi, e riguadagnarsi la simpatia degli automobilisti. Era una storia vera.

Le rondini sembrano fare gli ultimi preparativi: sono eccitate, volano insieme, visitano i nidi rimasti vuoti. Le guardo. Ho letto che durante una migrazione muoiono il 60 per cento degli adulti, e 1'80 per cento dei giovani. Piove ancora. Naufragio nel naufragio, dalla finestra che ho lasciato aperta è piovuto su lettere, quaderni, libri.

Ciascuno si tira dietro il proprio passato con qualche fatica. Mi raccontano di G., per qualche tempo combattente della lotta armata, oggi da essa lucidamente distante, che in prigione si era tatuato sul braccio una donna con la pistola puntata, che era la sua compagna, combattente anche lei. Stanno insieme, si sono rifatti una vita, ma lei è rimasta lì, con la pistola in pugno, sull'avambraccio di lui - fino alla morte.

Mercoledì, 24 agosto. Ricomincio a godere della Grande Sorveglianza, cioè un poveruomo coi baffi che mi viene sempre dietro, e dice sconsolato: “Vi debbo venire sempre dietro”.

C'è un nuovo arrivato. Capelli e barba incolti, una tuta da jogging spiegazzata e ciabatte, aria ottusa e stravolta, nonostante un paio di occhialini rotondi dalla stanghetta d'oro. Cammina barcollando, all'aria: due volte è stramazzato a terra. Mostra una cinquantina d'anni, ne ha quaranta. Ha ammazzato, dieci giorni fa, la sua donna, che voleva lasciarlo: così le cronache. L'hanno trovato - ancora le cronache - inebetito, che girava nei pressi di una caserma dei carabinieri. L'hanno portato in ospedale, l'hanno imbottito di psicofarmaci, avrebbe cercato di impiccarsi un paio di volte. Poi l'hanno trasferito in carcere, e continuano a riempirlo di psicofarmaci. Chiedo all'infermiera fino a quando pensano di trattarlo con simili dosi. Non so, risponde, se non lo facciamo s'impicca. Ma in qualche momento, dico, uno dev'essere lasciato libero di decidere se impiccarsi o no. Già, dice lei, ma poi se s'impicca ci andiamo di mezzo noi, e loro - indica le guardie. Hanno dato all'uomo un piantone, che qui significa un detenuto che si prenda cura di lui. Cammina, all'aria, sorretto dal piantone, un giovane paziente, in calzoncini e canottiera nera, e zoccoli. L'uomo, fuori, era un gioielliere; il piantone un rapinatore di gioiellerie.

Accostamento troppo facile, troppo melodrammatico? Ma il carcere è un teatro dell'orrore patetico. Che cosa dite dell'uomo che, al colmo di un'esasperazione, ammazza il proprio figlio tossicodipendente, e viene messo in una cella a due con un giovane tossicodipendente?

C'è una tensione forte ai colloqui, e bisogna saperlo. Se ne può uscire snervati. Dipende dallo squilibrio fra chi è dentro e chi è fuori, e dall'ansia di chi è fuori. Ma anche da chi è dentro, e cerca in ogni modo di simulare naturalezza e calma, ma non riesce a fare a meno di pensare, e magari di dire: guardate che io sto in galera. È la sensazione che si prova nelle visite fra i malati e i loro cari. Al colloquio, accanto a me c'è A., anarchico e capo spesino: ha di fronte un suo figlio diciottenne, e si tengono per mano.

Miracoli di gentilezza efficiente dei “politici”. Qualche giorno fa avevo detto scherzosamente che un'estate non è estate senza fichi e fichi d'India. Stasera mi arriva un pacco con due fichi d'India e sei fichi.

26 agosto, venerdì. C'è una nitida luce di tramontana che, dalla finestra dell'infermeria, avvicina il profilo delle montagne. Guardo una partita di pallone e intanto, al solito, ascolto racconti e confidenze di detenuti. P. - il mio pubblico ministero - mi dice uno, si mette il fondo tinta. Rido: ma va’. Sul serio, insiste, una volta che aspettavamo una sentenza per cui occorreva poco tempo, e ci portarono in una stanzetta dietro l'aula, vidi coi miei occhi che si metteva il fondo tinta su quella faccia butterata. Vera non sarà, ma è ben trovata. C'è uno che si descrive ladro, pranoterapeuta, occultista e scrittore automatico: ha evocato anche Einstein, ma il risultato è andato sprecato, dice, perché aveva dimenticato di togliere il cappuccetto alla biro. Lo guardo bene, e non capisco se mi sta sfottendo o no: forse non lo sa neanche lui. Storie di botte, minacce, torture fisiche di polizia e carabinieri ce le hanno tutti, spesso assai credibili. Pistole puntate, come quella da cui è scappato giorni fa un colpo a un maresciallo dei carabinieri durante un interrogatorio in caserma, facendo secco un ragazzo.

Mi arriva un telegramma che porta le firme di sei operai della Fiat. “Ettore o Achille, siamo tutti teco”. Per un momento non ho capito, poi mi sono ricordato. Una sera, dopo una cena, in una casa amica di Torino, una di quelle sere in cui si sta in compagnia lasciando che il tempo passi, chiesi a ciascuno di loro se preferisse Ettore o Achille. Ricordo il tono sicuro della risposta di Roby: “Io sto con Achille, perché vince”. Dovevamo aver bevuto un po'. Sostenni che la risposta a quella domanda spartisce gli uomini: di qua o di là. Quello di Roby era un falso cinismo: aveva dalla sua la scoperta fresca della propria forza, e che l'onore reso ai vinti faceva comodo ai vincitori di sempre. Gli operai in quegli anni avevano voglia di vincere, e di riscattare generazioni di antenati vinti. Da ragazzo ero stato con tutto me stesso per Ettore, perché si deve stare dalla parte di chi perde, di chi ha umanamente paura e tuttavia la vince e si batte. Ora, dissi, provavo una pena e una simpatia più profonda per Achille, fatalmente condannato a vincere. Mi figuravo Achille disperato di non poter affrontare un duello col più prode dei nemici dubitando della vittoria. La discussione si trascinò, sconclusionata e appassionata. Non ricordo bene il seguito, qualcuno era attratto dall'idea che la classe operaia avesse un destino ineluttabilmente vittorioso come quello di Achille, qualcun altro dall'idea che la rivoluzione sia comunque magnanimamente destinata a perdere, come Ettore. Questo era successo una sera, forse quindici anni fa. Adesso mi arriva il telegramma: Ettore o Achille, siamo tutti teco. Adesso, io mi dichiarerei per Ettore, il difensore. Colui che era privo di risentimenti.
(Per quasi tutto un canto dell'Iliade dura la triplice rincorsa attorno alle mura e il duello fra Achille ed Ettore. Pochi anni fa degli archeologi, presumo americani, calcolarono in un sopraluogo che tutta la faccenda era durata una mezz'ora).

A volte, per trastullo, gli uomini al passeggio fanno prigioniera una cavalletta, e la tormentano ridendo.

Martedl, 30 agosto. Mi vesto bene, viene mia madre. È magra, scarna, ha messo una spilla che le portai dalla Polonia. Sto bene e deve notarlo: sono abbronzato, snello - un po' smunto, dice lei.
In un articolo sui vent'anni dal '68 avevo scritto una bella frase: “I decennii volano, sono certi pomeriggi che non passano mai”. In realtà era una frase rubata a mia madre.

Passa P., che è un politico, e tiene i conti dei libretti per la spesa. Ha un aspetto chiuso e malinconico, da correttore di bozze, ma è il più elegante calciatore del carcere. Ora ha una camicia bianca pulita, la barba ben rasata, uno sguardo significativo. È la tua festa?, gli chiedo. Proprio così, è il suo compleanno; non l'ha detto a nessuno, ma si è messo bene. Gli regalo il primo libro che trovo sottomano - ormai nella mia cella si è accumulata una bibliotechina -: Dumézil, La fuga del monaco in nero dentro Varennes. La mattina dopo lo avrà già letto.

È settembre. Sono stato arrestato a luglio.

Chiacchiere. Una guardia, scherzando sulle evasioni possibili, dice: “Come quelli di Alcatraz, facendo i pagliacci nella branda”, e intende: i fantocci. Pettegolezzi su una guardia malvista perché è fidanzata con la figlia del maresciallo: versione basso-bergamasca di Fabrizio e Clelia a Parma. Un detenuto dice: alla sezione ottava si sta bene, si vedono i monti, e Città Alta, e le automobili...
Il gioielliere, che era stato imbottito di sedativi - “perché non si impicchi” - oggi si scatena in euforiche allegrie: gioca a palla, corre di qua e di là, va a farsi barba e capelli (e pretende di dare la mancia, ma non sa come: promette...), gioca a carte sul cemento con i caratteristi della sezione seconda. Stanotte urlava: “Sto morendo”. Qualche tempo fa aveva aperto il fuoco contro due ladruncoli. Dimestichezza con la pistola, poi impiegata a fini di proprietà amorosa. Eccita in me sentimenti duri, e antipatia benché un assassino fresco abbia diritto alla pietà.
Di notte, gran scrosciare di pioggia, buono per il sonno. Ma frastuoni umanoidi e clangori di ferrate, cattivi per il sonno.

2 settembre. Giornata insignificante, se non per la vicenda del cielo, tempestoso, nero, pieno di stormi di colombi disorientati, poi ripulito dal vento, turchino e luminoso. Il giovane Fiore cucina penne al radicchio e fagioli, riusando i fagioli del carcere. La pasta e fagioli della mensa è infatti saporita, ma ha un misterioso difetto: metà dei fagioli sono cotti fino a disfarsi, l'altra metà sono duri e crudi. Se ne discute: qualcuno dice che usano contemporaneamente due tipi di fagioli; qualcuno che a metà cottura un detenuto cuoco esclama: “Non ne avremo mica messi giù troppo pochi” e versa l'altra metà del sacco.

L'orefice continua a giocare e ganzeggiare, poi crolla a terra di schianto, e si frattura un braccio.

3 settembre, sabato. C'è un agente che si chiama Franco, detto Ciccio, baffoni e faccia bonaria, grasso, che apre la blindata con delicatezza, per fare piano.

All'aria di mattina, la diafana luna diurna. Le rondini sono ancora lì: ho esteso loro l'ansiosa e involontaria attesa del detenuto, che ogni giorno sia quello buono per andarsene.

9 settembre. Gioco a pallone, vado dal dentista. Il dentista funziona così: che tre giorni alla settimana ci vanno i sieropositivi, e due giorni gli altri. Naturalmente, è una notizia drammatica sul numero di sieropositivi. Mi scopro a interrogarmi sull'adeguatezza delle misure per tutelare “gli altri”, cioè me, dal rischio di contagio. In realtà, a rischiare di più sono i sieropositivi, per i quali una qualsiasi “banale” infezione trasmessa dai “sani” può essere micidiale.

10 settembre, sabato. Al passeggio R., che ha poco più di trent'anni: “Non ho mai visto la televisione a colori”. Si calcoli da quanti anni almeno R. è chiuso dentro.
Sono irritabile, sgarbato a torto con le guardie. Mi spazientisco per il frastuono becero delle voci dei miei compagni. Poi cambio d'improvviso umore. Mi arriva una mela granata, e la mangio: non mi piace tanto la mela granata, mi piace l'idea.

11 settembre, domenica. Scade la concessione dell'ora d'aria supplementare pomeridiana: una specie di ora legale carceraria. Andava dalle 16,30 alle 17,30: era la meno lontana dalla sera. D'ora in poi, dalle tre e mezza di pomeriggio fino alla mattina alle nove, si sta chiusi.
Ci sono turni di guardia infelici. Alle quattro di notte le guardie di turno si sono radunate nella rotonda - centro, se non del panopticon, del panakustikon - per una lunga e combattuta gara di rutti.

I detenuti, quando gli si chiede qual è il momento peggiore, rispondono unanimi: la mattina, quando ci si sveglia. Ogni volta ci si accorge di nuovo di dove si è.
(“Lo svegliarsi la prima notte in carcere è cosa orrenda”. Pellico).

12 settembre, lunedì. Gioco per un po' a calcetto, poi mi siedo a guardare. Mi si siede accanto Y., e mi racconta la storia della sua innocenza, scrupolosamente, in un italiano faticoso. Appena ha finito, ricomincia, e mi racconta in un dialetto stretto, che sono io a seguire con fatica, la stessa storia, con molti dettagli inediti, e questa volta lui è colpevole.
Nel pomeriggio sono al campo, e un tam tam di voci mi richiama fin sotto una finestra dell'ultimo piano: di là un detenuto che è rimasto a guardare la televisione mi grida che mi hanno dato gli arresti domiciliari. Dunque me ne vado, prima delle rondini.

Comincia il corteo dei saluti e dei rallegramenti. Ci si sente in colpa, quando si esce dal carcere. Si scherza: proprio ora che avevi passato il turno al torneo di tennis. C'è commozione. Fiore, al momento dei saluti, scompare. L'attesa si riempie frettolosamente con la distribuzione delle cose a chi rimane: la mantellina a Fiore, la racchetta a Diego, la coperta a Dario, libri e stoviglie a molti, le scarpe da tennis allo jugoslavo calciatore scalzo, qualche indumento e i generi alimentari a Tiriamo a campar. La piantina di kiwi torna al giardinetto di Alunni: non ho avuto il tempo di veder spuntare la nuova foglia. Vado dal direttore, ad aspettare la scorta che mi porterà via. È affabile, deve fargli un doppio piacere che esca - una grana in meno - chiacchieriamo mentre lui continua a firmare domandine. Mi confermo nell'impressione che le accolga e le respinga con un imparziale metodo statistico: sì sì no sì sì no. Finalmente la scorta arriva: quattro carabinieri giovani e villani, che rifiutano di caricare sul furgone blindato due sacchetti di quaderni e carte - superano il peso - e mi ammanettano le mani dietro la schiena.