I detenuti e il rispetto di sé Fonte: pubblicato in "A doppia mandata" di Adriano
Sofri , Stampa Alternativa, 1997
di Adriano Sofri
1997
La degradazione della stima di sé e dell'interesse reciproco nei detenuti
è molto forte, a paragone del vecchio carcere e dei suoi codici di
valori, sia quello criminale, sia quello "politico". Questa caduta
di dignità e di persuasione "morale" ha due ragioni principali:
la droga e la delazione.
La droga è la causa più o meno diretta per cui si trova in galera
la maggior parte dei detenuti, italiani e stranieri. Ed è per antonomasia
una ragione di irresponsabilità, di vittimismo e di autodistruzione,
di disposizione furbesca e lamentosa a usare gli altri come strumenti. L'ovvietà
che descrive la tossicodipendenza come una malattia offre ai tossicodipendenti
un pretesto all'autocommiserazione e alla deresponsabilizzazione.
L'arrendevolezza e la ribellione più capricciose sono pronte in ogni
momento. Tutta la struttura carceraria, e degli stessi apparati psicologico-sanitari,
ammesso che si ponga il problema, tiene i tossicodipendenti in una condizione
di infantile e ottusa sottomissione. Sovrabbondano i farmaci, di ogni genere
e in ogni dose, che i detenuti spesso incrociano micidialmente con la birra
o il detestabile vino che ci si può procurare in carcere. Questo alcolismo
tumefatto e farmacologico è un enorme flagello. È tollerato, quando
non incoraggiato. Le occasioni di lavoro interne al carcere sono così
rare e ricercate che un cedimento al vino basta a farle perdere. Imminenza
che fa invertire spesso la scena vera. Il detenuto beve e dunque non può
lavorare affidabilmente. La verità è che fra le ragioni che
spingono i detenuti a bere e anestetizzarsi c'è, oltre al dolore del
vivere, l'impossibilità di trovare un lavoro o un'attività.
Ci sono, poi, a proposito della tossicodipendenza, altri strani capovolgimenti
di senso. Per esempio, è ormai rarissimo che qualcuno dica che i drogati
devono stare in galera: non è più così di moda. Molti
dicono però che i tossicodipendenti in galera almeno non si drogano
(salve eccezioni, com'è noto): dunque, "di fatto", "oggettivamente",
"in fondo in fondo", la galera è per loro un male minore
dello sbaraglio della libertà.
Bell'argomento: un'astuzia della provvidenza tramuta l'oltraggiosa usanza
di sbattere i tossicodipendenti in galera in una loro salvaguardia. Non sottovalutate
la presa logica di simili argomenti. In generale, è la stessa che si
applica alla questione della "risocializzazione". (Preferisco non
usare parole come "riabilitazione", a metà tra fisioterapia
spirituale e stalinismo, o "rieducazione", che ha un suono pedagogico
autoritario come un filo spinato). È un fatto che, fra i tanti che finiscono
nel mucchio degli stritolati o dei mortificati per sempre, alcuni detenuti
rafforzino sé stessi nel carcere, migliorino la propria conoscenza,
conquistino rispetto di sé e degli altri, diventino personalmente più
liberi: ma questo avviene non già grazie al carcere, ma nonostante
e contro il carcere.
La dignità umana che sopravvive o si riconosce e si rafforza nel carcere
è solo in minima parte debitrice alla conduzione del carcere, e in
parte soverchiante alla lotta e alla resistenza che i detenuti conducono contro
il carcere. È questo che viene presentato come rieducazione: "oggettiva",
come si vede, quanto l'astinenza dei tossicodipendenti in cella.
Aggiungo una constatazione ovvia, dal momento che ciò che avviene in
galera riproduce quel che avviene fuori, con le deformazioni derivate dalla
compressione e dalla mutilazione: con poche e residuali eccezioni, il disprezzo
nei confronti della droga e del suo spaccio è scomparso. Non sono cose
di cui vergognarsi - neanche lo spaccio più grosso. Nella scala dei
valori, soprattutto dei ragazzi, tanto è crollata l'ignobiltà
dello smercio di droga quanto è andata alle stelle l'ammirazione per
il denaro guadagnato in fretta, e molto. È ovvio, ma è importante:
perché in quella che si chiama crisi dei valori, la parte decisiva
riguarda in realtà la crisi dei disvalori, delle cose di cui un tempo
ci si vergognava, e non ci si vergogna più. Il primo valore a essere
travolto è infatti la vergogna, che dall'antichità fino a poco
fa era la causa di gran lunga più importante dei suicidi.
E questa digressione ci porta diritto al secondo fattore dell'impoverimento
umano del carcere, che è la delazione: inarrestabile quanto la droga,
e a sua differenza libera di ogni proibizione, e anzi incitata e premiata.
Chi si è abituato a considerare il "pentitismo" nel contesto
delle grandi emergenze pubbliche, il terrorismo prima, la criminalità
organizzata poi, non può immaginare quale capillare e spicciola alluvione
esso abbia avuto in ogni ambito di relazione fra repressione e giustizia,
da una parte, devianza e delitto accertato o presunto dall'altra. L'universo
del trattamento criminale si è assuefatto a quella medicina unica.
Questo non vuol dire solo la nozione, ripetuta e largamente vera, per cui
il ricorso ai "pentiti" ha teso a soppiantare le attività
investigative e la concezione delle prove. Questo vuol dire che a ogni imputato,
a ogni condannato, investigatori e giudici chiedono, ben oltre la stessa confessione
o ammissione di proprie responsabilità, la delazione attiva - la "collaborazione".
A quest'ultima, alla sua ampiezza e duttilità, si è venuto piegando
come cera il diritto penale, con una licenza di aperture e chiusure tra carcerazioni
e scarcerazioni, imputazioni e derubricazioni, massimi e minimi di pena, aggravanti
e attenuanti: infine, grazie alla legge cosiddetta Gozzini e con una sua triste
perversione, al di là della stessa condanna. La giusta idea che non
fa della pena una misura immutabile, assunta una volta per tutte, ma le assegna
una possibilità di verifica nel tempo e di adeguamento, viene molto
spesso subordinata al giudizio delle autorità carcerarie e giudiziarie
non solo sulla "disciplina del detenuto", ma sulla sua "collaborazione".
Incitamento e premio alla delazione non si esauriscono fuori dalle mura del
carcere, ma continuano dentro. Come il paesaggio carcerario ne sia stato snaturato
e stravolto, è difficile descrivere.
I "pentiti", gli "infami" di un tempo, i delatori, sono
così numerosi e abituali che, a parte pochi casi di clamore e con speciali
protezioni, sono mescolati alla rinfusa con gli altri detenuti. Un tempo sarebbe
stato impensabile: per ragioni "di principio", e materialissime.
Oggi è pressoché impensabile il contrario. Sono in cella nella
stessa sezione, escono alla stessa aria, detenuti condannati per una delazione
e detenuti che hanno compiuto quella delazione. Questi ultimi andranno fuori
di galera prima, e magari intanto avranno lavoro e altri favori. Lo stesso
governo del carcere, già facilitato dalla caduta di solidarietà
e dall'isolamento reciproco provocati dalla gara premiale della ex legge Gozzini,
si fonda, senza tante ipocrisie, sull'impiego corrente della delazione. Non
c'è bisogno di microspie, dove ci siano spie così a buon mercato.
Disprezzo, diffidenza e sospetto dominano l'esistenza dei detenuti. Non si
reagisce a ciò che si disprezza, si perde la fiducia nell'altro, si
fatica a conservare quella di sé. Non parlo delle grandi strutture
gerarchiche e rigide, che quando si crepano vanno fragorosamente in pezzi,
come le organizzazioni clandestine della lotta armata, o, finalmente e grottescamente
oggi, le piramidi di Cosa Nostra.
Parlo della malavita di un tempo, che era di casa in galera, e sapeva come
ci si comporta. Spero di non attirarmi né l'accusa di abbellire quella
povera e sordida malavita - anche se cambierei un ladro con destrezza di trent'anni
fa con un'intera casa circondariale di nuovo conio - né quella di indulgere
all'omertà. L'omertà è un'ignobile legge di sopraffazione,
intimidazione e avvilimento: ma le pensioni e l'onore resi alla delazione
non sono migliori, e venendo dalle autorità legali, rischiano di essere
peggiori. Aggiungo, per quel che mi riguarda, che come considero odiosa la
delazione - e la sobillazione a farsi spie e traditori dei propri compagni
- così mi rifiuto di mettere al bando le persone, e tanto più
che si usi loro qualunque violenza. In carcere, poi, l'infamia comune della
gabbia in cui si gira in tondo rende più superfluo e quasi dissipatore
il rancore e l'animosità contro gli altri ingabbiati.