clicca qui per andare al sito Filiarmonici, per un mondo senza galere

Due storie di vita in Sardegna, in Brasile, nel carcere del 2000

Intervista con Nicola Valentino (Sensibili alle foglie) sul libro “Sos camminos della differenza” di Annino Mele e Valdimar Andrade Silva

Liberiamoci del carcere, Radiondarossa, 7 aprile 2001

Raccontaci di Sos camminos della differenza?
Il libro è la storia di un incontro. Tutto infatti nasce dall'incontro tra Annino Mele, detenuto da molti anni e tuttora in carcere a Bergamo con una condanna all'ergastolo, e Valdimar Andrade Silva, transessuale venuto dal Brasile in Italia e qui arrestato. Annino e Valdimar si incontrano nel carcere di Bergamo in un modo molto particolare: Annino, condannato all'ergastolo, aveva fino a poco tempo fa l'obbligo dell'isolamento diurno, quindi di giorno doveva stare sempre da solo con il divieto di parlare a chiunque. Per questo Annino andava all'aria, nel passeggio del carcere di Bergamo da solo. Una mattina d'inverno, fredda, vede che nel passeggio a fianco al suo c'è un ragazzo in maglietta a maniche corte, con quel freddo cane! Allora Annino si rivolge a questo ragazzo e gli dice: "Ti serve qualcosa? Hai bisogno di qualcosa? Non hai un maglione?" e lì nasce questo contatto umano, un contatto di solidarietà perché Valdimar aveva praticamente bisogno di tutto. L'unico suo maglione lo aveva lavato e per il resto non possedeva assolutamente nulla.
Questo libro nasce da quest'incontro. Dopodiché Annino e Valdimar cominciano a conoscersi e a parlare. Tutte le mattine, andando all'aria e stando uno nel passeggio in isolamento a fianco all'altro, anch'egli in isolamento, danno vita a questo rapporto di solidarietà. Annino raccoglie la storia di Valdimar: di come questo ragazzo brasiliano arriva in Italia e finisce nelle carceri italiane.
È un libro interessante sia per capire il carcere del 2000, sia per analizzare i percorsi attraverso le altre istituzioni sociali che conducono i protagonisti in carcere. Ci sono testimonianze, lettere scritte da Annino all'istituzione carceraria, al Direttore che inquadrano bene la condizione della reclusione carceraria in questo momento. Annino dice alcune cose che secondo me mettono bene a fuoco la condizione carceraria in questo momento che è in realtà una situazione di indifferenza e di abbandono da parte dell'istituzione verso le persone recluse. Persone che non vengono viste come persone, ma come cose, come numeri, oggetti accatastati dentro questo contenitore.
Il fatto che questo contenitore raccolga l'incontro tra un pastore sardo e un transessuale venuto dal Brasile in Italia testimonia che nel carcere del 2000, così come nella società italiana, si intrecciano persone e storie di tutto il mondo.

È un approccio diverso da quello che spesso troviamo quando si affrontano i temi del controllo sociale, della sicurezza e del carcere.
Come Sensibili alle foglie abbiamo sempre affrontato il tema della reclusione e dell'istituzione carcere dal lato dell'esperienza umana. Secondo noi partire dalle esperienze singolari che le persone fanno in questa istituzione è il modo migliore per approcciarsi al tema. È un modo di incontrare un'istituzione sociale come quella carceraria fuori dai luoghi comuni, fuori dall'immaginario consueto che ci viene filtrato dai media o dall'immaginario che ogni cittadino ha di un'istituzione come questa.
Queste due storie, l'incontro tra Annino e Valdimar, due esperienze umane molto diverse, due persone di culture, di storie, tradizioni, esperienze sociali diversissime ci dà un'idea concreta di quella che è l'esperienza umana che in carcere si fa e delle torsioni (1) che lì oggi le persone subiscono. Si vivono torsioni diverse rispetto al passato, oggi l'atteggiamento è diverso da quello che aveva l'istituzione nei confronti delle persone recluse anni fa
L'altra cosa che con questo libro ci preme mettere in evidenza esula in parte dal problema carcerario. Questo libro ci fa vedere sia nella storia di Annino sia in quella di Valdimar come una persona finisce in un'istituzione carceraria. Ciò pone degli interrogativi a tutti i cittadini, implica la responsabilità della società nel suo insieme.
Molto prima di finire in carcere Valdimar da ragazzino in Brasile si scopre gay e vive in una famiglia con delle regole e una cultura molto definita. Il padre di Valdimar dice che i maschi devono fischiare, un bambino che non fischia non cresce nel mito della virilità, il mito del maschio per come è visto in quella cultura. Valdimar invece aveva altri modi di fare, non fischiava come suo fratello. Così Valdimar comincia ad essere emarginato all'interno della famiglia, il fratello più grande si vergogna di lui e alla fine Valdimar è costretto ad andarsene via.
Valdimar viene anche escluso dalla scuola. Riesce a fare fino alla seconda elementare. Successivamente cerca di lavorare, ma siccome alla fine scoprono che lui è omosessuale lo buttano fuori da tutti i lavori che lui cerca di fare. È molto chiaro dal racconto che Valdimar che non vuole scegliere la strada della prostituzione, ma non riuscendo più a trovare lavoro per vivere l'unica opportunità che gli viene data è quella dell'Istituzione della prostituzione che al pari della famiglia, del mondo del lavoro, della scuola, è un'istituzione sociale. Lui entra in questa istituzione gestita da altri transessuali e alla fine dal Brasile emigra in Italia. L'istituzione della prostituzione è violentissima, Valdimar subisce soprusi come li subiva nella famiglia, nel mondo del lavoro e nella scuola. In seguito Valdimar insieme ad altri si ribellano alle persone che li sfruttavano e finisce in galera. Per un episodio minimo prende otto anni di condanna.
La storia di Valdimar fa capire come ci sia una progressiva esclusione da tutte le istituzioni sociali che spinge una persona a finire in carcere. Annino Mele ha un ergastolo per sentenza, Valdimar per così dire subisce un ergastolo sociale.
Poi dentro il carcere ha luogo l'incontro tra i due. Per capire qual è il carcere del 2000 basti dire come agisce l'istituzione su Valdimar e Annino che avevano trovato un contatto umano di solidarietà. L'istituzione carceraria prende Valdimar e lo trasferisce: prima lo cambia di cella e poi lo manda via dal carcere di Bergamo. Questo perché in carcere non considerano i contatti umani che le persone costruiscono tra loro. Valdimar tenta il suicidio per reagire a questa situazione, ma non muore perché la corda non regge. Valdimar aveva già tentato diverse volte il suicidio, un gesto che testimonia la morte sociale che in qualche modo lui ha subito da tutte le istituzioni sociali. Quella raccontata nel libro è una storia che co-responsabilizza tutti rispetto a come si finisce in carcere.

È possibile per il linguaggio della quotidianeità reclusa scardinare il linguaggio della propaganda sicuritaria?
Le storie che noi proponiamo, il nostro lavoro di ricerca possono aiutare a costruire un immaginario sociale diverso che poi arrivi alla società. Questo dipende da come la società, almeno nelle sue parti più attente e sensibili, riesce a costruire una rete sociale, ma soprattutto un immaginario sociale diverso che preluda e cerchi di sedimentare politiche sociali diverse rispetto all'istituzione carceraria. È un lavoro lungo e complesso e non so in concreto che tipo di risvolti riesca ad avere rispetto all'immaginario prevalente che è il mito della sicurezza, cioè il mito che l'istituzione reclusiva dà di sé per creare nella società il bisogno di se stessa. Questa è sempre stata una prerogativa di tutte le istituzioni e in particolare delle istituzioni totali: per riprodursi costruiscono nella società un mito di sé e il bisogno di se stesse. Il mito della sicurezza è un mito nel vero senso del termine. Le cifre e le statistiche, anche quelle di fonti governative dicono che in Italia in realtà non c'è questo grosso problema di reati, però viene comunque sollecitato e sollevato continuamente il mito della sicurezza al quale poi fa seguito il mito che la soluzione risieda in una carcerizzazione estesa.
Il nostro lavoro in generale tende anche a una riflessione sociale sul dispositivo reclusivo, ovvero sul recludere e sul recludersi, che non riguarda solo il carcere. È un dispositivo che attraversa la nostra società e la nostra civiltà anche nella sua profondità storica. La nostra civiltà nasce attorno alle prime polis, sorte erigendo un muro di cinta, stabilendo così una distinzione tra gli inclusi nella polis e gli esclusi fuori dalle mura, considerati degradati, fuori dalla specie umana, semi-umani, barbari. Questo mito dell'inclusione-esclusione che ci portiamo dietro dalle origini della civiltà è un archetipo che opera dentro tutte le relazioni sociali e dentro le istituzioni che caratterizzano la società di oggi. Quindi gli interrogativi che ci poniamo, anche con queste storie che partono dal carcere, riguardano i dispositivi relazionali, le istituzioni sociali nelle quali viviamo e che contribuiamo a riprodurre.
Il nostro lavoro vuole essere una sollecitazione a interrogarci sui dispositivi reclusivi perché sono dispositivi che fanno star male le persone. Al di la di tutto è importante interrogarsi sul dispositivo reclusivo perché esso è un dispositivo di malessere sociale. Di malessere sociale in giro ce n'è tanto, basti considerare come indicatore di questo malessere la produzione e vendita di psicofarmaci. Questi sono tra i farmaci più venduti e negli ultimi anni la loro vendita e consumo è aumentato del 50%.

Estratti dal libro

L'incontro
Ai primi di novembre ebbi modo di conoscere meglio questo ragazzo che era finito alle celle di punizione. Si chiamava Valdimar Andrade Da Silva. Era una mattina molto fredda. Il filo della puntuale disciplina s'era momentaneamente spezzato come qualche volta capitava. Non arrivai per primo nei cortili né fui messo all'ultimo come avrebbe dovuto essere. Nel cortile a fianco a quello in cui entrai c'era Valdimar, con una maglietta mezze maniche, tutto infreddolito. Che un ragazzo abituato a un clima caldo venisse al passeggio in mezze maniche, con il freddo che faceva, mi stupì. Gli chiesi allora perché fosse senza maglione e lui rispose che lo aveva lavato e stava asciugando sul termosifone. "Non ne hai un altro?". Aveva solo quello, mi rispose timidamente. A quel punto, rompendo la disciplina che pretendeva ch'io non parlassi con anima viva gli chiesi cosa gli servisse oltre al maglione. Aveva bisogno di tutto. Tutto.

Indifferenza e abbandono
La situazione dei detenuti oggi è più fragile di quando le guardie ci orinavano nel minestrone e alcuni di noi che non resistevano ai morsi della fame erano costretti a mangiarlo perché in cella non avevano altro. I detenuti di allora erano più vivi malgrado le angherie. Oggi le angherie sono altre, più sottili, puntano direttamente ad annullare.

Fisquando
AI mio paese è tradizione dei maschi girare per la casa "fisquando": "L'uomo che nasce uomo deve far sentire il fischio, e chi non fischia non è uomo", così andava ripetendomi mio padre. Io purtroppo non fischiavo e non m'interessava fingere di farlo.

Gli autori
Annino Mele, nato il 20 novembre 1951 a Mamoiada, in Sardegna. Fina da piccolo ha fatto il pastorello per aiutare il padre a mandare avanti la famiglia numerosa. In carcere dal 1976 al 1980. Poi latitante fino al 1987 e mai più uscito. Ha pubblicato, per la GIA Editrice, nel 1996, Il passo del disprezzo.

Valdimar Andrade Silva, nato il 14 dicembre 1975 a Paulo Ramos, paesino dello stato di maranhao, in Brasile. Cacciato di casa dopo la scoperta della sua omosessualità e costretto a girovagare fin da piccolo. Ora in carcere, condannato in primo grado a 8 anni per tentato omicidio contro il magnaccia, al cui sfruttamento si era ribellato.

Nota

La parola torsione sembra idonea a metaforizzare l'esperienza del corpo recluso nelle istituzioni totali involontarie perché apparentata nell'etimo alla parola tortura. La torsione, infatti, come la tortura, viene agita sul corpo che è costretto a subirla ed opera senso dopo senso, linguaggio dopo linguaggio. Come il corpo sotto tortura è nelle mani del carnefice, così il corpo sottoposto a torsione è tra gli artigli dell'istituzione: l'esperienza è analoga, analogo è lo scopo di mortificazione dell'identità personale del recluso e del torturato. La parola torsione implica inoltre una trasformazione del corpo in relazione, dell'intera unità psicofisiologica, dovuta sia alla specifica azione torcente che alle risposte dissociative conseguenti.
"Nella città di Erech". Renato Curcio, Nicola Valentino. Sensibili alle foglie, 2001