Quelli qui pubblicati sono i risultati di una ricerca *
condotta da Luigi Manconi, con la collaborazione di Barbara Palleschi, Patrizio
Gonnella e Paolo Lecca.La ricerca è stata pubblicata su "Politica
del diritto", anno XXXIII, n.2, giugno 2002.
Le tabelle sono state elaborate dall'autore su dati di: Dipartimento dell'amministrazione
penitenziaria (Dap), Antigone Onlus-Per i diritti e le garanzie penali, ISTAT
Istituto Nazionale di Statistica, Agenzia Ansa, Consiglio d'Europa.
Si ringraziano la professoressa Sara Bentivegna e il professor Antonio Mussino;
e si ringraziano Ariella Martino e Franco Turetta.
1. Il dato è secco ed eloquente.
In carcere ci si ammazza 19 volte più di quanto ci si ammazza fuori dal
carcere (Tabella 1 e Tabella
2) (1). Ed
è un dato persino più significativo, e assai meno scontato, di
quanto possa apparire al primo sguardo. E infatti, contrariamente a ciò
che vorrebbe un diffuso luogo comune, non è affatto vero che la tendenza
a togliersi la vita sia strettamente correlata alla riduzione della speranza
(e della speranza di vita). In sintesi: più si è disperati più
ci si suicida. Non è così, come documenta la gran parte delle
ricerche in materia: tra i malati gravi, quelli irreversibili e quelli terminali,
la percentuale di suicidi è ridotta (2).
E su un altro piano, nei paesi dove è in vigore la pena capitale, il
fenomeno dei suicidi tra i condannati a morte non ha alcuna rilevanza statistica.
Dunque, quello scarto così ampio tra il numero di quanti si suicidano
in carcere (quasi 13 ogni diecimila detenuti nel 2001) e il numero di quanti
si tolgono la vita fuori dal carcere (meno dello 0.7 ogni diecimila residenti
nel territorio italiano), va spiegato altrimenti. Sempre che, beninteso, il
gesto di chi si dà la morte (e i molti gesti di quei molti che si danno
la morte in carcere) consenta una qualche spiegazione razionale ed "esterna"
al vissuto del suicida.
2. Per avvicinarci a una interpretazione attendibile, disaggreghiamo quei dati
e approfondiamoli.
La prima notazione riguarda la crescita dei suicidi in termini assoluti (Tabella
3). Tra il 1991 e il 1992 si registra un salto rilevantissimo (da 29 a 47),
parallelamente all'incremento, altrettanto significativo, delle dimensioni della
popolazione carceraria (da poco più di trentunmila a oltre quarantaquattromila
detenuti). Le ragioni di una crescita così imponente sono diverse.
Nel 1990 viene promulgato un provvedimento di amnistia, che consente a molti
di uscire dal carcere e a molti di non entrare in carcere; e questo produce,
negli anni immediatamente successivi, una sorta di contraccolpo, cui si sovrappongono
gli effetti di due normative: il testo unico sulle sostanze stupefacenti e le
misure antimafia (che precludono a molti, non solo condannati per reati di criminalità
organizzata, l'accesso ai benefici della "legge Gozzini"). Ne deriva
che, a partire da quell'anno (1992), e per l'intero decennio seguente, il numero
dei suicidi aumenta, arrivando a triplicarsi, contestualmente alla crescita
della presenza media dei detenuti, fino ai 56.537 del maggio 2002 (Grafico
2).
Sottolineiamo questo perché è difficile escludere una correlazione
tra crescita dell'affollamento (esiguità di spazio, promiscuità,
tensione e reciproca aggressività, carenza di servizi, assistenza e strutture)
e crescita dell'insostenibilità della condizione reclusa. Oggi, la "densità
globale" è di oltre 130 detenuti per 100 posti effettivamente disponibili
(e si tratta di una stima assai ottimistica) (3).
Va ricordato, in ogni caso, che l'incremento dei suicidi in termini assoluti
e (segnatamente negli ultimi due anni) in termini percentuali, è assai
più elevato e rapido del ritmo di crescita dell'intera popolazione carceraria.
In sintesi: il numero dei suicidi, dal 1990 a oggi, è più che
triplicato, mentre quello dei detenuti è meno che raddoppiato. Quest'ultima
tendenza, va detto, ha un'origine assai più lontana. A partire dal 1953,
il tasso di detenzione (ovvero il rapporto tra popolazione carceraria e popolazione
complessiva) cresce, sia pure con un ritmo tutt'altro che regolare (4).
Particolarmente intenso è, come si è detto, l'incremento a partire
dal 1992 e per il decennio successivo, cosicché il tasso di detenzione
del 2001 si avvicina a quelli, elevatissimi, dell'immediato dopoguerra (1945-1952).
Se nel 1952 il tasso è di 100,55 detenuti su 100.000 abitanti, nel 2001
supera il 98. In questo quadro di crescente "carcerizzazione", l'incremento
del numero dei suicidi è ancora maggiore. A proposito, secondo il sito web di Pander , ci sono circa 300.000 donne coinvolte nella prostituzione nel Paese.
3. D'altra parte, a conferma ulteriore di questa tendenza, troviamo la crescita dei dati relativi agli atti di autolesionismo e ai tentati suicidi (Tabella 9). In carcere, gli atti di autolesionismo - il "tagliarsi", innanzitutto - hanno una funzione principalmente "dimostrativa", ma questo non ne limita in alcun modo la drammaticità. Il "farsi male" e il tentativo di togliersi la vita costituiscono, spesso, la sola forma di auto-rappresentazione e l'unica voce (pur stenta e rotta) rimasta a chi, per definizione e per condizione, è senza voce. E, infatti, al detenuto viene imposta, quale pena aggiuntiva, l'interdizione a comunicare col resto della società. Rimasto "senza parola", il detenuto si adatta, pertanto, a parlare attraverso il proprio corpo: il corpo offeso e costretto è, in molte circostanze, il solo mezzo di comunicazione con l'esterno. Il corpo è qui, davvero, il mezzo e il messaggio. E il corpo viene buttato così com'è - "tagliato", lacerato, mortificato - in faccia a chi lo vorrebbe ignorare. Di conseguenza non stupisce che, ogni anno, un detenuto su sette - e possiamo far riferimento solo ai dati ufficiali - ricorre all'autolesionismo o tenta il suicidio.
4. Se disaggreghiamo i dati della Tabella 1 e verifichiamo - con le informazioni
scarse e contraddittorie a disposizione - "chi si suicida", otteniamo
risposte ancora approssimative e, tuttavia, drammaticamente interessanti.
In estrema sintesi, possiamo dire che: a) si ammazza chi conosce il proprio
destino e ne teme l'ineluttabilità; b) si ammazza, in misura appena meno
rilevante, chi non ha la minima idea del proprio destino e ne teme l'imprevedibilità
(Tabella 5 ).
Dunque, nei due anni presi in esame (2000 e 2001), il maggior numero di suicidi
si concentra tra i detenuti che scontano condanne definitive (57) e - all'opposto
- tra coloro che si trovano in custodia cautelare, in attesa di rinvio a giudizio
o, se rinviati, in attesa della sentenza di primo grado (48). Questi ultimi,
pertanto, sono - sotto tutti i profili - pienamente innocenti all'atto del suicidio.
Si può dire, allora, che tra i "nuovi giunti" (questa è
la definizione nel linguaggio della burocrazia carceraria) il rischio di suicidio
è particolarmente elevato. Sotto questo aspetto, le tabelle 5, 6 e 7
sono davvero significative, anche se le conclusioni vanno tratte con estrema
prudenza, a causa - come si è detto - delle informazioni parziali e,
non di rado, incoerenti, di cui possiamo disporre.
Se consideriamo la durata della permanenza in carcere precedente il suicidio,
troviamo che quasi il 55% dei detenuti che si tolgono la vita, lo fanno nei
primi 6 mesi di reclusione e oltre il 64% nel corso del primo anno (Tabella
6) (5). Si
tratta, in tutta evidenza, di un fatto che richiede un'attenta riflessione.
Così come va considerato con cura il dato relativo all'età: oltre
il 53% dei suicidi ha meno di 35 anni e oltre il 15% ne ha meno di 25 (Tabella
7). Quest'ultimo è un dato particolarmente rilevante, se si tiene
presente che, sull'intera popolazione residente in Italia, i suicidi in quella
fascia di età superano appena il 6% del totale (Tabella
8). Non va dimenticato, tuttavia, che la popolazione carceraria è,
proporzionalmente, più "giovane": e questo attenua il significato,
altrimenti dirompente, di quella comparazione tra suicidi "dentro"
e suicidi "fuori".
E ancora: sul complesso dei suicidi avvenuti in carcere negli ultimi due anni,
una percentuale significativa (oltre il 16%) riguarda detenuti per reati legati
alla tossicodipendenza; oltre il 22% riguarda detenuti per reati di ridotto
o ridottissimo rilievo penale e sociale (ricettazione e concorso in ricettazione,
rissa aggravata, danneggiamento, diserzione, maltrattamenti in famiglia, furto
e furto aggravato, guida senza patente, evasione fiscale, inosservanza degli
obblighi di pubblica sicurezza...); e meno della metà dei suicidi riguarda
persone recluse per reati di particolare allarme sociale (omicidio, tentato
omicidio, concorso in omicidio, rapina aggravata, tentata rapina, associazione
mafiosa, estorsione continuata, stupro e violenza sessuale...).
5. Nell'analisi relativa al biennio in questione, non può essere ignorato
un dato strettamente politico. Il 2000 è stato l'anno del "Giubileo
dei detenuti", proclamato dalla Chiesa cattolica. Per un verso (il più
importante per i diretti interessati), l'anno del mancato Giubileo: mancato
perché, nonostante le ripetute richieste di un "segno di clemenza"
espresse da Giovanni Paolo II e dalla Conferenza episcopale italiana (e nonostante
la disponibilità dichiarata di quasi tutte le forze politiche), quel
"segno" non c'è stato. Opposizione e maggioranza hanno temuto
di "pagare", in termini elettorali, le conseguenze dell'approvazione
di una misura ritenuta impopolare: e hanno preferito addebitarsi vicendevolmente
la responsabilità del rifiuto di un provvedimento di amnistia e/o indulto.
E, dunque, le speranze alimentate dalle parole delle gerarchie ecclesiastiche
e dal dibattito sviluppatosi in sede pubblico - politica, hanno creato un clima
d'attesa: ma la mancata approvazione di un "segno di clemenza" ha
mortificato quell'attesa. Fatale che l'aspettativa delusa si rivolgesse contro
chi aveva investito in essa, traducendosi in una frustrazione ancora maggiore.
E le speranze incentivate e disattese hanno innescato, inevitabilmente, un meccanismo
autodistruttivo. La violenza latente non si è indirizzata contro terzi
(le "rivolte estive" da alcuni temute e da molti strumentalmente evocate),
ma si è ripiegata su se stessa; e si è scaricata sui soggetti
che, invece che promotori e attori, ne sono stati vittime: i detenuti stessi.
Anche per questo, forse, il picco dei suicidi, dei tentati suicidi e degli atti
di autolesionismo si è registrato proprio nell'ultima parte di quell'anno:
ovvero quando le speranze di "clemenza" si sono rivelate definitivamente
vane. E così, ancora, nelle prime due settimane di gennaio dell'anno
successivo (2001), altri 5 detenuti si sono tolti la vita. Dunque, se si ripartiscono
per trimestri i due anni presi in esame, si rileva che il periodo ottobre ¿
novembre - dicembre del 2000 è quello che registra il maggior numero
di suicidi, sia in termini assoluti sia in termini percentuali (nonostante l'ulteriore
crescita registrata nell'anno successivo).
Se tale ipotesi di interpretazione venisse confermata (incremento degli atti
di autolesionismo e di suicidio come effetto di un investimento eccessivo e
di una aspettativa frustrata nei confronti di mancate decisioni politiche),
si avrebbe una importante occasione di riflessione sulle dinamiche del circuito
sfera pubblica - sistema mediatico - ambiente chiuso. L'effetto -annuncio di
una decisione politica e le conseguenze sul "senso comune" e sulla
"psicologia collettiva" di una comunità non elettiva - non
liberamente scelta e sottoposta a un regime coercitivo - possono essere assai
rilevanti: e, come si è visto, non indolori.
6. Per tornare al quesito iniziale - ovvero perché ci si ammazza con
tanta frequenza in carcere - va tenuta presente quella considerazione generale,
prima anticipata: le cause dei suicidi sono tante quanti sono i suicidi (6).
Può sembrare un'ovvietà, ma non se ne può prescindere:
l'unicità e l'indecifrabilità delle motivazioni che determinano
la decisione di togliersi la vita - tanto più all'interno di un universo
chiuso come il carcere - non sono affrontabili con gli strumenti, inevitabilmente
grossolani, di cui disponiamo. Ma questo non deve scoraggiarci dal ricercare
e dall'indagare quelli che possiamo considerare i fattori predisponesti e i
fattori precipitanti delle condotte suicidarie: così come non deve indurci
a trascurare alcune costanti che emergono dai dati qui presentati. In particolare,
risulta chiaro che i primi sei mesi di detenzione sono quelli "a maggior
rischio". E lo sono, in particolar modo, per i detenuti più giovani,
incensurati o con una carriera criminale più recente, con imputazioni
non particolarmente gravi: e con minore dimestichezza con i circuiti carcerari
e gli stili di vita e le gerarchie lì dominanti. (Ma va ricordato che
un terzo dei suicidi presenta una tipologia assai diversa per gravità
dei reati; e un quinto dei suicidi si verifica nel periodo successivo ai primi
tre anni di permanenza in carcere).
Riprendiamo, ora, il ragionamento prima accennato. Se a determinare la rottura
dell'equilibrio (e ad accelerare quella crisi che porta, infine, al suicidio),
non è la "disperazione" - l'assenza di speranza per il futuro
- bensì l'incapacità di vivere e organizzare il presente, tale
situazione tende a realizzarsi più facilmente all'interno di un carcere.
E non solo più facilmente qui che nella stanza di ospedale di un malato
irreversibile: ma più facilmente qui e al momento dell'ingresso in cella,
anche per coloro la cui prospettiva non è, necessariamente, "la
più disperata". Nella stanza di ospedale del malato irreversibile,
infatti, resiste quella "consolazione" rappresentata dalla vita di
relazione: affetti, legami, sentimenti e possibilità di comunicazione.
Tutto ciò, in carcere, in particolare all'atto dell'ingresso e nel corso
della prima permanenza, sembra esaurirsi (e, nei fatti, accade davvero così).
Inoltre, per il "nuovo giunto", il periodo che precede la costruzione
di un altro sistema di rapporti (tutto "carcerario") è quello
che vede i modi e i tempi della comunicazione con l'interno e con l'esterno
interamente regolati dall'alto, spesso inconoscibili e, ancora più spesso,
minacciosi. Un periodo durante il quale il nuovo arrivato - in particolare,
se privo di precedenti esperienze detentive - si trova precipitato in un sistema
di vita ignoto e autoritario, di cui non conosce regole e opportunità,
gerarchie e linguaggio, garanzie e rischi. È fatale, pertanto, che si
tratti della fase più difficile e, di necessità, più "a
rischio". Ne consegue che un numero rilevante di detenuti - tra quelli
particolarmente deboli, per una serie complessa di ragioni - trovatisi privi
della possibilità di disporre della propria vita, ritengono di non poter
fare altro che decidere della propria morte.
7. Ne derivano - ne dovrebbero derivare - conseguenze operative assai concrete,
proprie di una amministrazione intelligente e razionale delle carceri. Ovvero
un significativo investimento di energie e di tempo, di strumenti e di risorse,
di personale e di competenze per l'attività di consulenza e di sostegno
terapeutico ai "nuovi giunti" nel periodo iniziale della detenzione.
La normativa già prevede, evidentemente, che in ogni istituto carcerario
operi un "presidio - nuovi giunti", al fine di prestare assistenza
(psicologica, in primo luogo) ai detenuti appena entrati. Ma, anche in questo
caso, la realtà è molto diversa dalla lettera della legge. Non
dovunque ci sono quei presidi e il numero di operatori e la disponibilità
(prevista e retribuita) sono, in genere, assai insufficienti. Oltretutto, la
più recente legge finanziaria è intervenuta su quella voce di
spesa, riducendola ulteriormente.
D'altra parte, il comportamento dei precedenti governi non è stato particolarmente
più attento. A conferma del fatto che la "questione carceraria"
resta per tutte le forze politiche (sia pure con significative differenze),
e per l'intera società italiana, una sorta di buco nero: fattore di inquietudine
e oscuro oggetto di rivalsa sociale; luogo dove proiettare le proprie paure
e dove esiliare le proprie fobie; motivo di senso di colpa e, insieme, occasione
di sospensione di quello stesso senso di colpa. Non a caso, la tendenza oggi
prevalente è quella di spostare le carceri fuori dai centri storici e
dalle città. Mai come in questo caso, l'atto del trasferimento corrisponde
puntualmente a un desiderio di rimozione.
E la rimozione va intesa, qui, in senso propriamente psicanalitico: la coscienza
(individuale e collettiva) allontana da sé un fattore di disturbo. Il
carcere come meccanismo di difesa, quindi, non solo della propria sicurezza
minacciata, ma anche - e soprattutto - del proprio equilibrio instabile a fronte
di una pulsione (a trasgredire, deviare, delinquere) non agevolmente controllabile.
Questa spiegazione può funzionare, e in parte funziona, ma non deve sottovalutare
le profonde contraddizioni interne che quella rimozione incontra. Innanzitutto
il fatto che la dimensione del carcere non risulta così lontana - non
come una volta - dall'esperienza delle classi dirigenti e dei ceti sociali anche
pienamente integrati (come conferma la storia italiana dell'ultimo decennio).
Basti pensare agli effetti dell'attività giudiziaria contro la corruzione
politico - amministrativa; e basti considerare come la legislazione sulle sostanze
stupefacenti abbia messo in contatto con il vissuto dell'esclusione e della
reclusione un numero crescente di famiglie. Non solo: resta il dato, pesante
come un macigno, che oltre il 45% dei detenuti non ha ancora subito una condanna
definitiva: e, dunque, la loro domanda di giustizia (ovvero l'iniquità
della condizione di chi sconta in anticipo una pena non ancora inflitta) è
difficile da ignorare.
Questo rende schizofrenico (ancora una volta in senso proprio: dissociato) il
discorso pubblico della classe politica: un'imponente mobilitazione ideologica
e istituzionale sulla giustizia, che ignora la sofferenza e la pulsione di morte
(suicidi, tentati suicidi e atti di autolesionismo, appunto) di quanti, della
giustizia - come macchina del controllo e della pena -, fanno esperienza quotidiana.
Bibliografia
Batchelor I.R.C., Suicide in old age, in Shneidman E., Farberow N. ( a cura di) Clues to suicide, McGraw-Hill, 1957
Bucarelli A., Pintor P., Morte e detenzione. Il gesto autolesivo all'interno dell'universo carcerario in "Rassegna italiana di criminologia", Organo ufficiale della Società italiana di criminologia, Giuffrè, n.4, 1991
Burtch B.E., Suicide in prison, in "International Journal Offender Therapy and Comparative Criminology", n.25/2, 1981
Busse E., Pfeiffer E., Behaviour and adaptation in late life, Little&Brown, 1969
Cazzullo C., Le condotte suicidarie, Uses, Edizioni scientifiche, 1987
Chesnais J.C., Suicides en milieu carcéral et en milieu libre: évolution et situation comparées (1852-1974), in "Revue de science criminelle et de droit pénal comparé", n.3, 1976
Commissione speciale sulla situazione carceraria e per il rispetto dei diritti civili dei detenuti., presso il Consiglio regionale della Lombardia, Resoconti stenografici e schede di sintesi delle audizioni, stampato in proprio, 2002
Crepet P., Florenzano F., Il rifiuto di vivere. Anatomia del suicidio, Editori Riuniti, 1998, 2° ed.
De Leo D., Pavan L. (a cura di), Il suicidio nel mondo contemporaneo, Liviana Editrice, 1988
Durkheim E., Le suicide. Etudes de sociologie, Felix Alcan, 1897 (trad. it. UTET, 1969)
Farberow N., Moriwaki S., Self-destructive crises in the older person, in "The Gerontologist", n. 15, 1975
Fornari A., Danesino P., I fattori di rischio dell'anziano visti dal medico legale, in "Medicina geriatrica", n. 4, 1984
Gardner E., Bahn A., Mack M., Suicide and psychiatric care in the aging, in "Archives of General Psychiatry", n. 10, 1964
Glaister B., A critique of the Report of the Committee of Inquiry, in "Bulletin of the Royal College of Psichiatrist", 1977
Hanckoff L. D., Prisoner suicide, in "International Journal Offender Therapy and Comparative Criminology", n.20/1, 1980
Liebling A., Ward T., Deaths in custody: international perspectives, Whiting&Birch Ltd, 1994
Lloyd C., Suicide and self injury on prison: a litterature review, "Home Office Research Studies", n.115, 1990
Morselli E., Il suicidio. Saggio di statistica morale comparata, Dumolard, 1879
Motto J.A., The psychopathology of suicide: a clinical model approach, in "American Journal of Psichiatry", n.136, 1979
Motto J.A., et al. Development of a clinical instrument to estimate suicide risk, in "American Journal of Psychiatry", n. 142, 1985
Murphy G.E., Wetzel R.D., Suicide risk by birth cohort in the United States, 1949-1974, in "Archives of General Psychiatry", n.37, 1980
Murphy G.E., Suicide and attempted suicide, in Cavenar J.O. et al. ( a cura di), Psychiatry, v.1, J.B. Lippincott Company, 1985
Pavarini M., The new penology and the Politics in crisis. The italian case, in "The British Journal of criminology", 1994, vol. XXXIV
Pavarini M., Lo scambio penitenziario, Edizioni Martina, 1996
Pavarini M., Bilancio dell'esperienza italiana di riformismo penitenziario, in "Il vaso di Pandora", 1997
Pavarini M., La criminalità punita. Processi di carcerizzazione nell'Italia del XX secolo, in Violante L. (a cura di), Storia d'Italia, Annali 12. La criminalità , Einaudi, 1997
Platt S., Suicide trends in 24 european countries 1972-1984, in Moller H.J., Schmidtke A., Welz R. ( a cura di), Current issues of suicidology, Springer Verlag, 1988
Pokorny A.D., Prediction of suicide in psychiatric patients, in "Archives of General Psychiatry", n.40, 1983
Rainer J.D., Genetic factors in depression and suicide, in "American Journal of Psychoteraphy", n. 38, 1984
Ricci A., Salierno G., Il carcere in Italia, Einaudi, 1971
Rizzo R., Suicidio e tentato suicidio in carcere, in "Medicina penitenziaria", periodico dell'Amapi, n.8, 1987
Sainsbury P., Suicide in London: an ecological study, Basic Book, 1956
Sainsbury P., Suicide in old age, in "Proceedings of the Royal Society of medicine", n. 54, 1961
Sainsbury P., Barraclough B.M., Differences between suicide rates, in "Nature", n. 220, 1968
Sainsbury P., The social relation to suicide, in "Social Science and Medicine", n. 6, 1972
Sainsbury P., Suicide: options and facts, in "Proceedings of the Royal Society of medicine", n. 66, 1973
Sainsbury P., Suicide and attempted suicide, in Kisker K., Meyer J.E., Muller C., Stromgre E. ( a cura di), Psichiatrie der Gegenwart, Springer Verlag, 1975
Sainsbury P., Validity an reliability of trends in suicide statistics, in "World Health Organization Statistics Quarterly", n. 36, 1983
Sainsbury P., Epidemiology of suicide, in Roy A., (a cura di) Suicide, William&Wilkins, 1986
Stengel E., Suicides and attempted Suicide, Penguin Books, 1969 (trad. it, Il suicidio e il tentato suicidio, Feltrinelli, 1977)
Stengel E., A survey of follow-up examinations of attempted suicide, in Waldenstom G., Garsson L., Ljungstedt J. (a cura di), Suicide and attempted suicide, Nordiste Borhandelms Forlag, 1972
Topp D.O., Suicide in prison, in "British Journal of Psychiatry", n. 134, 1979
Ubaldi S., Il suicidio in carcere, in dex1.tsd.unifi.it/altrodir/asylum/ubaldi
Wilmotte J., Cosyns P., Mendlewicz J., Deschutter B., Etude des comportaments suicidaires en milieu penitentiarire, in "Acta Psichiatrica Belgica", n.83 , 1983
Note
* La ricerca ha preso in considerazione i suicidi e gli atti
di autolesionismo avvenuti in case di reclusione, case circondariali, case mandamentali,
ospedali psichiatrici giudiziari, case di cura e custodia, case lavoro.
Va tenuto presente che i dati qui illustrati possono essere sottostimati: abbiamo
registrato, infatti, alcune discrepanze tra statistiche istituzionali e rilevazione
empirica.
Ciò è dovuto a più cause. La prima è di natura generale,
collegata all'incerto funzionamento degli apparati amministrativi, in particolare
per quanto riguarda il rapporto tra centro (Dipartimento) e periferia (singolo
carcere); ma è altrettanto rilevante il ruolo giocato dalla "ritrosìa"
del personale di custodia e di quello medico a "riconoscere" i suicidi
e a classificarli come tali. Fino a qualche anno fa, non venivano registrati
come suicidi in carcere i decessi avvenuti in ambulanza o in ospedale, anche
quando immediatamente successivi e consequenziali al tentativo di togliersi
la vita attuato in cella. Oggi non è più così e, tuttavia,
i criteri di classificazione restano ancora approssimativi e controversi.
Torna su
1. Già oltre un secolo fa, lo psichiatra Enrico Morselli
(1879) aveva documentato come il tasso di suicidi nelle carceri italiane fosse
assai più elevato che nelle altre istituzioni e nel complesso della società
. Tutti gli studi successivi, condotti in Italia e in altri paesi (tra essi,
Ricci, Salierno 1971, Chesnais 1976, Glaister 1977, Topp 1979, Hankoff 1980,
Burtch 1981, Wilmotte et al. 1983, Rizzo 1987, Lloyd 1990, Bucarelli, Pintor
1991, Liebling, Ward 1994), confermano quel dato e quello scarto. In Italia,
il lavoro recente più attento e meticoloso è quello di Silvia
Ubaldi, Il suicidio in carcere, rintracciabile in in rete.
Torna su
2. In altri termini, l'incidenza della patologia irreversibile
nel rischio suicidario è strettamente correlata a un altro fattore: quello
dell'isolamento relazionale e sociale; il che richiama immediatamente la classica
interpretazione durkheimiana del deficit di integrazione quale elemento particolarmente
significativo tra le motivazioni del suicidio. Questo confermano le ricerche
di Sainsbury (1956, 1961, 1972, 1973, 1975, 1983, 1986), Sainsbury, Barraclough
(1968), Batchelor (1957), Gardner et al (1964), Busse, Pfeiffer (1969), Farberow,
Moriwaki (1975), Fornari, Danesino (1984). Il che porta Crepet, Florenzano (1998,
2° ed.) a concludere che "il suicidio compiuto da persone anziane si
correla con le patologie tipiche dell'invecchiamento fisico e psichico dell'individuo";
e che "i fattori precipitanti sono legati alla condizione sociale e relazionale
dell'anziano"; e questi due elementi devono essere interpretati come "strettamente
dipendenti". In ogni caso, rimane "di non facile soluzione la questione
riguardante l'effettiva importanza del ruolo delle patologie organiche nelle
dinamiche delle condotte suicidarie".
Torna su
3. La disaggregazione di tale dato regione per regione e istituto
per istituto offre risultati assai interessanti. Per quanto riguarda la Lombardia,
si veda il rapporto della Commissione speciale sulla situazione carceraria e
per il rispetto dei diritti civili dei detenuti (2002).
Torna su
4. Si vedano in proposito gli indispensabili lavori di Pavarini
(1994, 1996, 1997/1) e, in particolare, Pavarini 1997/2.
Torna su
5. Il dato risulta confermato da tutte le ricerche in materia
e, segnatamente, da quella di Topp (citato in bibliografia) sui suicidi nelle
carceri inglesi.
Torna su
6. Della vastissima letteratura in materia, mi limito a ricordare
i lavori di Sainsbury (citati), Stengel (1969,1972), Platt (1988), De Leo, Pavan
( a cura di, 1988). Per un approccio psichiatrico alla tematica si vedano i
lavori di Motto (1979) Motto et al. (1985), Murphy, Wetzel, (1980), Pokorny
(1983), Rainer (1984), Murphy (1985), Cazzullo (1987).cfr. Bibliografia.
Torna su