Lo sviluppo della civiltà si è compiuto all'insegna del carnefice; in ciò si accordano la Genesi, che racconta la cacciata dal paradiso, e le Soirées de Saint-Pétersbourg. All'insegna del carnefice sono il lavoro e il godimento. Voler negare questo è andar contro a ogni scienza e a ogni logica. Non ci si può disfare del terrore e conservare la civiltà. Attenuare il primo è già l'inizio della dissoluzione. Di qui si possono trarre le conseguenze più diverse: dal culto della barbarie fascista alla fuga rassegnata nei gironi infernali. Ma se ne può trarre anche un'altra: non curarsi della logica, quando è contro l'umanità.
HORKHEIMIER e ADORNO, Dialettica dell'illuminismo.
Louis de Jaucourt era una felice e prolifica penna illuminista; enciclopedista e poligrafo, gli fu chiesto di stendere per l'Encyclopedie la voce "Supplizio". Lì, a quanto pare, la sua vena s'inceppò, sconvolta dalla fantasia umana in fatto di tortura, dettaglio inammissibile in piena Erklarung dacché proprio l'illuminismo tentò per la prima volta di sradicare l'identità di potere e sapere. Tentativo fallito: Robespierre condanna la tortura nel momento stesso in cui instaura il terrore e la parabola del marchese de Sade testimonia il bene della relazione, tutt'altro che semplice o solo strumentale, che il potere intrattiene con la violenza e con la tortura. Nel saggio Per la critica della violenza Benjamin contrappone una violenza creatrice, che pone il diritto, a una violenza conservatrice, che lo amministra e lo riconferma attraverso la sanzione della pena giusta. La tortura inquisitoria, applicata dal potere costituito sopra i corpi degli individui, appartiene per eccellenza a questa seconda categoria: è violenza conservatrice che mantiene o che riporta, si presenta sempre con le vesti della legalità e della razionalità e ha una relazione inquietante con la pedagogia. La sua storia s'intreccia alla storia del controllo dei corpi, distinguendola in modo sostanziale tanto dalla violenza privata quanto dalla pena di morte, con le quali tuttavia si trova a coabitare in talune zone del diritto e della semantica. La tortura non è violenza privata, per quanto atroce quest'ultima possa essere; intesa in senso ampio come dolore forzato sopra un individuo da un altro individuo, o da un gruppo di individui, la violenza privata rimanda all'odio, all'interesse, alla pazzia, comunque a qualcosa contro cui ci si può legittimamente appellare alla legge o alla razionalità, e da cui ci si può e ci si deve difendere; è elemento di forza all'interno di qualcosa che, giuridicamente parlando e anche quando le forze materiali in campo siano impari, è una lotta inter pares. Contro l'agente che ricorre alla violenza resta infatti fermo il diritto di sottrarsi al dolore con ogni mezzo, di chiedere la protezione della legge e infine di difendersi ricorrendo a propria volta alla violenza. La tortura in senso proprio, invece, non rimanda né all'odio né all'interesse e neanche a un singolo individuo (o gruppo di individui) incattivito o impazzito, ma è la manifestazione più temibile ed esemplare del potere di coercizione che la volontà generale impersonale e legale può esercitare sopra ciascuno. Entro un sistema che ne ammetta l'uso, il ricorso alla tortura si presenta sempre al contempo come razionale e legale: razionale perché è violenza diretta a uno scopo preciso, stabilito a priori in base a un ragionamento, non già nell'accecamento dell'odio o tra i fumi della pazzia; legale perché il suo uso è normato dalla stessa autorità che decide dello stato d'eccezione. Ne segue che, contro la tortura, è strutturalmente impossibile tanto il ricorso all'autorità o alla legge, quanto il richiamo al buon cuore o al buon cervello dell'avversario: il torturatore non si sta vendicando, non odia la vittima, non vuole il suo male e non agisce in vista di un interesse privato, ma si attiene alla norma sancita da un'autorità legittima; non c'è pertanto alcuna ragione supplementare che possa indurlo a interrompere l'applicazione sistematica della violenza. La tortura è una misura legale. Legalità e legame con la volontà generale non sono peraltro le uniche caratteristiche peculiari della tortura rispetto alle altre forme di violenza. Il suo carattere più strano, anzi, è un altro: la tortura si distingue dalla pena di morte o da qualsiasi altra forma di punizione violenta del reo perché non è una pena comminata per un reato. La sensibilità contemporanea associa spesso la tortura con la pena di morte e, più in generale, con le forme estreme di punizione; ma lo scopo originario della tortura non è affatto punitivo, né il suo uso da parte dell'autorità è finalizzato all'uccisione della vittima: essa ricerca il crimine, lo scova e lo snida, ma non lo sanziona né lo punisce. Non si dà per la tortura l'ipotesi di applicazione su innocente: chiunque la può subire, come un controllo dei documenti o una perquisizione. Proprio in ciò risiede, peraltro, la sua allucinante temibilità: il dolore che infligge non è espiazione (che, per quanto barbara e crudele, sarebbe almeno riferibile a una colpa) ma ricerca scientifica e, per così dire, disinteressata, della prova. La tortura ha a che fare con la verità, con la sua ricerca e la sua affermazione - ed è questo, di tutti, il particolare più indigesto. E il mezzo con cui l'autorità ricerca la verità che si nasconde nelle pieghe della coscienza del torturato e che solo il dolore può portare fuori; è il modo in cui il gruppo rivendica la propria verità mitica marcando il corpo dell'iniziato, che solo dopo la prova entra (o rientra) a buon diritto a far parte della comunità. Non era punitiva la tortura del tribunale dell'Inquisizione come non lo è quella praticata nei riti d'iniziazione. . Nel caso dell'iniziazione la tortura è violenza pedagogica che media fra il sistema della collettività e il singolo che a tale sistema vuole, o deve, accedere; la violenza sul corpo è ciò che trasforma un individuo in una persona, l'atto che sancisce l'appartenenza e il diritto. Ma anche nel caso della ricerca della prova e dell'indagine sulla verità, la tortura mantiene un legame non secondario con la pedagogia, sebbene si tratti, in questo caso, della più spettrale forma di educazione immaginabile. La tortura si pone infatti come violenza salvifica che, nel portare a galla la verità, al contempo pone il diritto che la contempla e salva l'anima del condannato. Come l'iniziazione, la tortura è il volto estremo del potere legittimo sopra gli individui all'interno di un sistema in cui la confessione è il mezzo principe di accesso alla conoscenza e la verità è innanzi tutto "disvelamento di sé".". E proprio la legittimità è concetto chiave, attorno a cui si gioca l'intera partita: sia nell'iniziazione che nella ricerca della verità, ciò che fonda lo statuto della tortura è che torturato e torturatore condividono un medesimo sistema di riferimento nei confronti del potere e della verità, di cui entrambi riconoscono la legalità e la vigenza. Uno dei racconti più sconvolgenti della letteratura novecentesca è Nella colonia penale di Kafka. Pressoché impossibile da leggere senza esserne feriti e finanche disgustati, contiene un'intuizione sulla tortura che, nell'eccesso romanzesco, disvela un nesso oscuro che probabilmente gli occidentali portano ben saldo nell'inconscio. Il racconto descrive, con tono piano tanto più agghiacciante, la tortura ultimativa, l'incubo della repressione allo stato puro. Un'apposita macchina incide sul corpo del condannato la legge che questi ha infranto; per lungo tempo il condannato non capisce il senso dei movimenti degli aghi sopra la sua pelle; la rivelazione della colpa arriva, insieme alla morte, quando il condannato comprende che la macchina sta scrivendo qualcosa su di lui, decritta le lettere scavate nella sua carne e si accorge infine che è la norma stessa a cui ha contravvenuto e che lo condanna. Comprensione, e quindi soggezione, alla legge e morte si complicano. Gli elementi notevoli del racconto sono molti e lo studio del suo impianto è più istruttivo di un intero corso di criminologia. Per cominciare, si può notare che a infliggere la tortura è una macchina: l'implacabile ed equanime meccanica toglie al supplizio l'ultima delle ambiguità - il fatto che ciò che agisce sia ancora una mano umana - e rimanda alla perfetta razionalità del dispositivo: per essere assolutamente sicuri che alla tortura non si mescoli alcun elemento di odio, di vendetta o di sadismo (ciò che sarebbe estraneo alla sua essenza e contrario al suo scopo) la soluzione migliore è di affidarne il gesto a una macchina. In secondo luogo, ed è meccanismo narrativo perfetto, il funzionamento della macchiná converge verso un punto finale, completamente collassato, in cui vengono a coincidere la decrittazione della legge violata, la comprensione del crimine commesso, la rivelazione della necessità della tortura fino a quel momento inflitta, l'inevitabilità della punizione capitale e la morte. La norma rende tutto necessario: il passato, il presente e l'annullamento del futuro; si legittima applicandosi e si applica legittimandosi. Giocando narrativamente coi rapporti tra legge, tortura e punizione, Kafka mette in cortocircuito diverse regole implicite del rapporto fra i soggetti e la verità. La prima è quella secondo cui il dolore darebbe accesso a una verità più profonda o normalmente nascosta: è la sofferenza, nell'immaginario occidentale, che rivela la verità del soggetto a se stesso e al mondo. Dagli adagi popolari all'intero impianto della psicoanalisi, la risposta al dolore resta campo privilegiato per scovare e misurare le qualità reali e la storia nascosta degli individui. In quest'ontologia tragica di noi stessi, la verità dei soggetti non coincide mai con le loro manifestazioni ordinarie, e men che meno con il processo che li rende soggetti, ma è inscritta nel profondo e risalente al passato; ha bisogno, per essere rivelata, di un surplus d'indagine, di un agente rivelatore che fa cadere le apparenze fenomeniche e disvela l'essenza noumenica. Il passato è la verità e questa è nel passato - e pertanto è eterna e immodificabile. Il dolore è reputato mezzo eccellente - se non addirittura d'eccellenza -per oltrepassare l'ingannevole che si manifesta alla ricerca del sostanziale che si cela. Inoltre, e ancora come tradizione comanda, la verità del soggetto non è alcunché di dinamico o di mutevole ma un nucleo solido, concrezione immodificabile che a un tempo riassume e sostituisce il passato, che rende piena ragione del presente e che dev'essere mantenuta (magari opportunamente spezzettata) per garantire l'identità nel futuro. La verità del condannato è nel crimine commesso, quella del nevrotico nel trauma infantile, quella di tutti nei desideri inconfessati. In ogni momento presente, la tortura è giustificata dal crimine (anche se ancora inconfessato), il tic dal trauma (anche se ancora avvolto nell'oblio), la personalità dalle pulsioni represse. La seconda regola implicita rivelata dal racconto di Kafka riguarda la necessità non solo di sottomettersi ma di assentire alla giusta punizione, anche quando questa prenda le forme della pena capitale. La legge è dispositivo cui non è pensabile opporsi salva veritate, al punto tale che è proprio la decrittazione della norma ciò che infine obbliga il reo a riconoscere la propria morte come giusta: la necessità e la sacralità della legge valgono più della vita individuale. Meglio: valgono più della mia stessa vita, o comunque muovono da un regno di necessità superiori a quelle meramente biologiche. lvov.natashaescort.com La necessità suprema, da Socrate a Kafka, è ovunque la legge e il dolore è il tramite per comprendere la verità dell'adeguamento del soggetto alla necessità della legge. "Giuro di dire la verità, solo la verità, nient'altro che la verità". Con la messa in chiasmo di queste idee Kafka ottiene una delle pagine letterarie meno sostenibili dell'intera storia della letteratura, evidenza narrativa della posizione cruciale della tortura entro un sistema inquisitorio che lega la necessità implacabile della legge e la verità come rapporto immutabile dei soggetti con lo stato di cose del mondo e con se stessi. Il racconto di Kafka perderebbe il suo senso se il condannato, al momento della rivelazione della legge infranta, la dichiarasse ingiusta o illegittima, o gridasse il suo odio nei confronti della macchina o si proclamasse ancora innocente. Ma attraverso questo dispositivo è la morte del condannato a costituire la prova inappellabile della sua colpevolezza e, al contempo, quella della raggiunta consapevolezza: conoscere la propria colpa equivale ad attingere a una verità immutabile e ad accettare la punizione. La tortura che il diritto usa per far luce sulla verità è perfettamente equanime; per uscire dalla sua angosciosa legalità, occorre ripescare strumenti oggi in disuso.
Fonte: Stefania Consigliere, Sul piacere e sul dolore, Derive Approdi, 2004, pagg. 207-211