Le abbiamo viste tutti le foto uscite da Abu Ghraib, e siamo rimasti a bocca
aperta per l’orrore. In tutte le trasmissioni radiotelevisive, parole
come “disgustoso”, “degradante”, “umiliante”,
“disumano” si sprecano. Quei poveri ragazzi di vent’anni o
poco più, costretti con l’inganno a credere che cose del genere
erano consentite, messi in un ambiente in cui pensavano di poter posare per
una foto accanto alle persone che maltrattavano, dovranno essere puniti in modo
esemplare. Pochi ufficiali, invece, subiranno la stessa sorte.
Ma non prendiamoci in giro. Se non ci fossero state le foto - se avessimo solo
le parole, o le deposizioni registrate di testimoni e vittime - la coscienza
pubblica non avrebbe fatto una piega, o quasi. Della notizia si occuperebbe
qualche giornale di sinistra e liberal; ne leggeremmo su The Nation o in un
appello di Amnesty international, e la cosa finirebbe lì. Se 60 minutes
avesse mostrato solo interviste e mandato in sovrimpressione qualche citazione
tratta dai vari rapporti, non sarebbe successo granché. Naturalmente
ci sarebbero state delle smentite, ma per lo più si sarebbe reagito minimizzando:
e non solo da parte delle persone coinvolte, ma anche dei mass media e di una
buona fetta dell’opinione pubblica americana. Nei telegiornali, invece
di sentire “disgustoso”, “degradante” e “disumano”,
sentiremmo dire “inquietante”, “angoscioso”. O anche
quell’altra parola, usata spesso per ridimensionare le nostre atrocità:
“increscioso”.
Quel giorno, dopo la messa in onda del servizio su 60 minutes, è facile
immaginare le chiacchiere nelle redazioni: “La guerra è un inferno”,
avrebbe osservato saggiamente qualcuno, “cose del genere succedono”.
Qualcun altro (ce n’è uno in ogni ufficio) avrebbe liquidato gli
episodi con una risatina, e avrebbe esclamato, con l’aria del guerriero
che sa sporcarsi le mani: “Sapete che vi dico? Dopo quello che hanno fatto
loro ai nostri ragazzi a Falluja, non me ne frega proprio niente!”.
Vi sembro cinica? Be’ sono vent’anni che ascolto i miei connazionali
parlare di maltrattamenti contro i detenuti, e in particolare di abusi sessuali.
E non su detenuti stranieri: su carcerati americani. Non su terroristi o assassini,
ma sui colpevoli di crimini non violenti che sono la maggioranza della nostra
popolazione carceraria: autori di piccoli furti, reati di droga e vandalismo.
E non solo detenuti adulti, ma minori di vent’anni. Ebbene, da vent’anni
la convinzione diffusa è che gli abusi sessuali nelle galere non sono
cose di cui il cittadino medio deve preoccuparsi. Anzi: spesso sono considerati
divertenti. Non molto tempo fa, dopo un processo di cui si è parlato
molto che si è svolto qui in California e che ha suscitato un’ondata
di forti emozioni, un giornale locale ha pubblicato una spiritosissima vignetta
in cui la donna condannata in quel processo rischiava di essere violentata da
un compagno di reclusione: da piegarsi in due dalle risate.
Se non resisti al carcere, non commettere il reato
L’unico momento in cui ci togliamo dalla faccia il sorrisetto compiaciuto
e prendiamo sul serio lo stupro in carcere è quando lo usiamo per spaventare
i giovani spiegandogli cosa può capitargli se si fanno beccare con un
sacchetto di marijuana. Negli anni settanta - non avevo neanche diciott’anni
- fu introdotto nella nostra scuola un programma che si chiamava Scared straight
(raddrizzato con la fifa). Ricordo che ci fecero ascoltare un tizio condannato
per reati di droga che raccontava di quando gli altri detenuti se l’erano
fatto. Seduti un po’ da parte c’erano funzionari delle carceri e
dirigenti scolastici che annuivano con ripugnante approvazione. Davvero una
lezione di moralità. Lo stupro, abbiamo imparato, va benissimo e resta
impunito se la vittima è in galera. Ricordo di essermi chiesta se quei
secondini avrebbero annuito altrettanto compiaciuti ascoltando il racconto del
condannato, se l’uditorio, anziché di liceali, fosse stato composto
da militanti per i diritti umani.
Insomma, molti americani accettano l’idea che i loro connazionali siano
vittime di abusi sessuali in carcere. Qualche anno fa un agente mi ha detto:
“Lo conosci il detto: ‘Se non cela fai a scontare la condanna, allora
non commettere il reato’”. Si riferiva al caso di un quindicenne
che aveva arrestato. Mentre scontava una pena per essersi introdotto nella casa
di due anziani e averli terrorizzati, era stato stuprato per tre notti di fila
dal suo compagno di cella ventenne. Avrebbe potuto dire la stessa cosa a proposito
di Rodney Hulin jr, un sedicenne condannato a otto anni di reclusione (in un
carcere per adulti) per aver appiccato un incendio e provocato danni per 500
dollari. Due settimane dopo l’inizio della detenzione era stato stuprato
da un altro carcerato. Le sue richieste di essere trasferito in un luogo più
sicuro sono state respinte ed è stato vittima di percosse e aggressioni
sessuali per diversi mesi. Alla fine si è impiccato in cella, ma è
morto solo quattro mesi dopo. Era entrato in corna e non ne è più
uscito.
E ora eccoci tutti turbati, ma che dico, sconvolti dalle foto venute dall’Iraq.
Ma come si fa a pensare che simili abusi sui prigionieri siano accettabili?
Be’, gente, fatela finita. Qualche americano a cui frega qualcosa di questi
fatti c’è. Ma le loro voci tendono a essere soffocate dal coro
dei cittadini che, di fronte ai racconti di stupri in carcere, proclamano di
non provare compassione per la “feccia” che affolla le nostre galere.
L’ondata d’indignazione di questi giorni non ha niente a che fare
con la compassione. Ha a che fare con il nostro imbarazzo: qualcuno ha scattato
delle foto sessualmente esplicite per far sembrare gli americani una manica
di pervertiti.
Ecco che cosa ci vuole per darci un cazzotto in pancia e richiamare la nostra
attenzione: un po’ di chiappe e di uccelli resi irriconoscibili nelle
immagini sfocate.
* Pamela Troy è una scrittrice californiana