La fine dell'emergenza
Tratto da: "Massima Sicurezza - Dal carcere speciale allo stato penale"
Salvatore Verde
Odradek ed. 2002
Nell'ottobre del 1986 entra in vigore la legge n. 663 di riforma dell'Ordinamento
Penitenziario, meglio conosciuta come "legge Gozzini". Il 18 febbraio
del 1987 viene varata la legge n. 34, recante "misure a favore di chi si
dissocia dal terrorismo".
La coincidenza dei due provvedimenti legislativi non è affatto casuale
ma segna, anzi, un punto di approdo importante del processo di trasformazione
del nostro carcere. Nel corso del dibattito parlamentare sull'approvazione di
questi due provvedimenti, diversi relatori riconoscono il peso che il movimento
della dissociazione dalla lotta armata ha avuto nel promuovere l'approvazione
della Gozzini (1). È lo stesso Mario Gozzini, primo firmatario della
legge, a sostenerlo nel suo intervento in aula durante la discussione: "Il
clima è profondamente mutato, in tutti i carceri, e credo che il disegno
di legge che discuteremo consecutivamente a questo, la seconda riforma penitenziaria,
undici anni dopo il '75, sia il risultato ed il frutto delle aree omogenee"
(2).
Gozzini è anche firmatario della proposta di legge sui dissociati, che
la sinistra presentò al Senato nell'86. La prima firma posta in calce
a questa proposta è quella del senatore Ugo Pecchioli, il ministro degli
interni ombra del Partito Comunista Italiano negli anni del compromesso storico
e delle politiche dell'emergenza (3).
Quando vengono emanati questi due provvedimenti gli echi delle rivolte carcerarie
sono ormai impercettibili. Le irruzioni dei corpi speciali negli istituti, gli
omicidi ed i sequestri degli uomini dell'apparato penitenziario sono definitivamente
consegnati ad una storia archiviata nelle cancellerie delle Procure della Repubblica.
Il vortice repressione-rappresaglia in cui si era chiusa la "prospettiva
rivoluzionaria" e l'isolamento dei quadri del movimento carcerario nel
circuito degli speciali avevano progressivamente allontanato le avanguardie
dalla massa dei reclusi, mentre il nuovo carcere riformato cominciava ad applicare
diffusamente gli istituti decarcerizzanti della riforma penitenziaria.
Nei primi tre anni dall'entrata in vigore del nuovo ordinamento vengono concesse
11.409 semilibertà e 3.918 affidamenti. Una cifra rilevante, se si considera
che nell'agosto del '78 un indulto ridusse notevolmente proprio quella fascia
di detenuti che avrebbero potuto accedere alle misure alternative. È
estremamente interessante il dato riguardante il numero di richieste accolte
dalle Sezioni di Sorveglianza sul totale delle richieste presentate: il 45%
degli affidamenti ed il 70% delle semilibertà (4).
I destinatari di queste misure erano prevalentemente persone detenute per reati
contro il patrimonio. La presenza di recidiva non costituiva un fattore significativo
di discriminazione, così come anche la provenienza geografica. Anzi,
fu proprio il Sud del paese che sembrò cogliere con maggiore entusiasmo
le nuove opportunità (il 49% del totale dei provvedimenti fu emesso dai
tribunali meridionali). È illuminante il caso della Sezione di Sorveglianza
di Napoli, che da sola concesse il 24% del totale delle semilibertà dell'intero
paese, segno evidente che la Magistratura e l'Amministrazione Penitenziaria
fecero largo uso dei nuovi strumenti per intervenire nella drammatica situazione
di sovraffollamento delle carceri di quella città.
Sottratta al conflitto la massa dei detenuti comuni, l'emergenza carceraria
rimase esclusivamente un problema del circuito degli speciali, dove era ospitata
la quasi totalità dei militanti delle formazioni politiche armate detenuti.
Ed è proprio dalla variegata area dei detenuti politici che tra l'81
e l'83 prese corpo il "movimento per la dissociazione dalla lotta armata",
che dimostrerà una grande capacità di penetrazione sia verso il
basso, il popolo dei reclusi, sia verso l'alto, il sistema dei partiti, creando
le condizioni per un rilancio della riforma carceraria (5).
Nel settembre dell'82, 51 militanti politici detenuti nel carcere romano di
Rebibbia, appartenenti a diverse anime del movimento (dalle UCC agli autonomi,
da Guerriglia Comunista a quelli del processo Moro) inviano al quotidiano Il
Manifesto un documento intitolato "una generazione politica detenuta".
In questo documento i firmatari pongono il problema della ricerca di una "soluzione
politica alla questione delle migliaia di compagni oggi detenuti, latitanti,
esiliati in libertà provvisoria. Essa si dà - continuano - a partire
da una pratica politica di netto rifiuto di posizioni e comportamenti combattenti
terroristici" (6). Gli interlocutori di questa posizione sono "quelle
forze sociali e politiche che intendono superare la politica delle leggi speciali
e del terrore ed aprire una fase di trasformazione" (7).
Il documento dei 51, divenuto negli anni un vero e proprio manifesto della dissociazione,
declama due punti di approdo del dibattito sul superamento della strategia della
lotta armata, e formula due proposte per la fuoriuscita dalla fase dell'emergenza.
L'avvilupparsi della lotta di classe nella logica della guerra - sostengono
i firmatari del documento - ha portato lo Stato ad incentivare la bipolarità
tra pentiti e combattenti, misconoscendo una nutrita varietà di posizioni
intermedie che si pongono soggettivamente al di fuori di questa dicotomia. Ciò
che si chiede è che una rinnovata politica repressiva tenga conto di
queste posizioni, dismettendo le armi della rappresaglia.
I movimenti sociali e la lotta armata - continuano - sono ormai separati da
distanze incolmabili, per cui si rende attuale e praticabile una nuova prospettiva
riformista che riconsegni il processo della trasformazione agli strumenti della
democrazia. Il movimento per la dissociazione rivendica una piena legittimità
a porsi come soggetto attivo su questo nuovo terreno, concorrendo a sconfiggere
"la barbarie per il reinserimento attivo di una generazione politica nei
processi di trasformazione sociale" (8).
Il percorso che i dissociati indicavano andava esplicitamente verso la depenalizzazione
del reato associativo della banda armata, la modifica della legislazione penale
speciale ed il superamento della politica carceraria dell'emergenza.
In primo luogo si proponeva la riduzione drastica della carcerazione preventiva,
la revisione dei criteri di imputabilità per i reati associativi, la
riapertura dei processi già definiti su richiesta degli interessati,
maggiori garanzie dei diritti di difesa: in parole povere, il superamento del
diritto da rappresaglia e la conseguente riquantificazione delle pene detentive
erogate dai tribunali dell'antiterrorismo.
C'era poi, non secondariamente, il problema delle condizioni di vita e degli
assetti istituzionali del carcere. E questo era il piano che immediatamente
si proponeva all'azione concreta della nuova prospettiva riformatrice. Nelle
cosiddette aree omogenee, sezioni che accoglievano coloro che avevano espresso
posizioni dissociative, dovevano essere innanzitutto accuratamente selezionati
i soggetti in ragione delle "affinità culturali, politiche, affettive
e processuali" che essi esprimevano, perché soltanto un alto livello
di attenzione e conoscenza dei singoli avrebbe potuto garantire adeguati livelli
di sicurezza.
Le aree omogenee dovevano costituire momenti di sperimentazione e di rilancio
di quella parte della riforma penitenziaria che prevedeva la permeabilità
dell'istituzione totale a quelle istanze della società esterna capaci
di incidere sui meccanismi di isolamento, deprivazione e depauperamento propri
degli universi internanti. Ciò significava attrezzare la vita istituzionale
con attività culturali, lavorative e socializzanti che la riforma del
'75 aveva elencato sotto il titolo di "elementi del trattamento individualizzato".
Doveva essere rilanciata, inoltre, una nuova politica penitenziaria che ampliasse
il ventaglio delle misure alternative alla detenzione, cancellando, al contempo,
quelle norme ostative che impedivano l'accesso ai percorsi decarcerizzanti alle
categorie dei criminali pericolosi.
La piattaforma politica del movimento per la dissociazione dalla lotta armata
incontrò nell'Apparato Penitenziario un inatteso ed influente interlocutore,
che darà un apporto importante al percorso ed agli esiti di questo progetto.
La dialettica interna all'Amministrazione Penitenziaria tra l'anima borbonica
e forcaiola ed i tecnocrati della modernizzazione trovò nel fenomeno
della dissociazione una forte accelerazione. Mentre il dibattito politico tra
i partiti era concentrato sui ritorni immediati di consenso delle politiche
giudiziarie emergenziali, l'apparato mostrò di avere uno sguardo più
lungimirante, ed intuì, prima ancora dell'intellighentia e della classe
politica, l'enorme potenzialità innovativa che la dissociazione esprimeva.
Se la stagione della specialità del diritto e del carcere duro ha avuto
nel generale dei carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa il suo uomo simbolo,
la fase della sconfitta politica della lotta armata ebbe nell'ex pubblico ministero
del tribunale di Roma, Nicolò Amato, un sicuro protagonista.
Esponente di punta di quella nuova schiera di magistrati cresciuti nelle aule
dei tribunali dell'antiterrorismo, Nicolò Amato arrivò alla Direzione
Generale degli Istituti di Prevenzione e Pena direttamente da quello straordinario
palcoscenico che fu il primo processo Moro (9).
Dalla requisitoria contro i NAP, a quella per l'attentato a Giovanni Paolo II,
fino al processo permanente contro le BR del caso Moro, il Pubblico Ministero
romano era stato uno dei più spregiudicati ed inflessibili inquisitori
degli anni dell'emergenza, tra i più disinvolti intellettuali organici
di quel giustizialismo che non esitò a consumare il più feroce
scempio dello stato di diritto, in ragione delle esigenze di consenso di un
sistema politico in profonda crisi di transizione.
Dopo aver alacremente lavorato alla accumulazione di quell'incredibile patrimonio
di secoli di carcere realizzatosi in meno di un decennio, il più famoso
PM del paese arrivò alla Direzione delle carceri con un preciso mandato:
dare continuità, nel campo dell'esecuzione penale, a quei principi dell'arbitrio
e della discrezionalità che avevano fatto la fortuna del diritto penale
speciale.
Nicolò Amato si insediò al vertice del sistema penitenziario del
nostro paese per gestire proprio quel patrimonio di pene che aveva così
tenacemente concorso ad accumulare. Strano destino per un inquisitore: quelle
sentenze non dovevano avere fine, non potevano semplicemente concludersi con
la chiusura dei cancelli dietro le spalle dei militanti della lotta armata.
Oggetto del processo, di quei processi, fu l'uomo, non il reato; il pensiero,
oltre all'azione; la soggettività politica, oltre alla singolarità
del soggetto.
Quel carcere, sempre più illimitato nella sua durata, sempre più
efferato nella qualità della sofferenza che infliggeva, sempre più
invisibile ed ermeticamente sigillato, doveva adesso trasformarsi in una casa
della speranza, un involucro di vetro antiriflesso dove fosse a tutti visibile
lo spettacolo dell'uomo in trasformazione, del criminale in rieducazione, della
sua lotta civile e pacifica per la riconquista del diritto a vivere (10).
Con Nicolò Amato l'Amministrazione Penitenziaria si assunse il compito
di tradurre in domanda politica il disagio che proveniva dalle prigioni, indirizzò
la protesta verso le forme della non violenza e della propositività riformista,
facendosi istanza di mediazione tra "il movimento" ed il sistema politico.
Il nuovo corso della direzione di Amato al vertice delle carceri sarà
segnato, sin dall'inizio, da un inedito protagonismo dell'Amministrazione Penitenziaria,
da una sua forte ed influente presenza politica e da una intelligente capacità
di iniziativa.
Il deciso personalismo del suo uomo guida guadagnerà a questo apparato
una grande visibilità, e gli assicurerà, per tutto l'arco della
sua gestione, un ruolo di soggetto politico ascoltato ed influente. Amato iniziò
a dialogare direttamente con le rappresentanze dei detenuti, favorendone la
costituzione, contrattando con esse forme e contenuti dei regimi disciplinari,
promuovendo le loro iniziative. Al contempo, presenziava a salotti televisivi,
occupava pagine e pagine della carta stampata, concertava direttamente con le
forze politiche ipotesi legislative di riforma.
Il flirt tra l'ex PM d'assalto e l'area della dissociazione dalla lotta armata
sarà immediato, duraturo e ricco di risultati.
Il primo provvedimento che caratterizzerà il cambio di gestione del sistema
penitenziario fu la istituzionalizzazione paranormativa della realtà
delle "aree omogenee". In piena autonomia dalle indecisioni delle
forze politiche sulla fuoriuscita dalla lotta armata, Amato guidò la
sua amministrazione in un personalissimo ed ambizioso progetto di soluzione
politica, utilizzando la forza propulsiva del ceto politico prigioniero che
si riconosceva nelle nuove posizioni dissociative.
Con una famosa circolare del novembre 1983, che ha i toni più di un proclama
politico che del freddo documento burocratico, l'Amministrazione penitenziaria
istituì formalmente il circuito delle cosiddette "aree omogenee".
Amato parla ai suoi uomini ed indica loro l'opportunità che il momento
storico gli offre di entrare da protagonisti nella fuoriuscita dall'era della
lotta armata. "Ormai, a prescindere da un fenomeno di riproduzione che,
fortunatamente, accenna a diminuire, si trovano ristretti negli istituti di
pena quasi tutti gli esponenti della eversione armata... sia dei gruppi maggiori,
come le BR, PL, NAR, che dei gruppi minori compresi i cosiddetti capi storici
e gli stolti ideologhi che nel corso di questi ultimi anni l'idea ed i programmi
della lotta armata hanno lanciato, sviluppato, propagandato" (11).
Come a dire: il fenomeno della lotta armata è ormai affare nostro; tutti
i militanti sono in carcere ed il problema che si pone, consumata ormai la sconfitta
sul piano militare, è quello della soluzione politica del conflitto.
"Gli obiettivi da perseguire - prosegue la circolare - sono essenzialmente
due. In primo luogo, incoraggiare e favorire al massimo il processo di disgregazione
all'interno del partito armato. In secondo luogo, avviare, dopo la fase della
lotta che è stata... dura ed implacabile, una fase di pacificazione sociale,
attraverso il riassorbimento nelle regole del gioco democratico e la riconversione
al rispetto verso le istituzioni e la Costituzione di quelle tensioni e di quelle
richieste di cambiamento, di rinnovamento e di trasformazione sociale che si
sono poste fuori e contro il sistema" (12).
Beh, niente male come biglietto da visita. Un compito alto per l'amministrazione
delle carceri, chiamata a misurarsi con un mandato nuovo ed impegnativo: recuperare
una generazione politica alle ragioni del sistema democratico. Incredibile,
un uomo che parla ad un apparato istruito all'esercizio della violenza, all'uso
delle celle di isolamento, dei letti di contenzione, delle squadrette punitive,
indicando la necessità di una strategia che deve privilegiare le armi
della persuasione, del convincimento, del cambiamento degli orientamenti etici.
Per Amato bisogna partire dall'attuale articolazione della differenziazione
penitenziaria e dare ad essa piena espansione. Le aree omogenee "vanno
potenziate, incoraggiate, estese, pur con l'attenzione e la cautela necessaria
ad evitare inquinamenti che ne vanificherebbero e ne frustrerebbero il senso
e le finalità... In tal modo presentandosi come spazi penitenziari nei
quali concretamente operano e si fanno sentire, per un verso, le istanze del
recupero, della risocializzazione, del rapporto e della comunicazione tra carcere
e comunità esterna, per l'altro, l'ansia di pacificazione sociale che
percorre il paese... Sono situazioni e momenti dai quali la società libera
può trarre utili motivi di riflessione nella ricerca tesa ad individuare
gli strumenti ed i metodi atti a superare nel modo più radicale e sollecito
il fenomeno terroristico" (13).
Contemporaneamente non devono essere assolutamente abbassati i livelli di blindatura
degli speciali: "non si può in alcun modo permettere ai detenuti
politici ed agli esponenti della grossa criminalità organizzata di fare
opera di proselitismo o di affiliazione".
La circolare confermava, nella sostanza, tutti i provvedimenti limitativi in
vigore negli speciali, dai vetri divisori alla censura sulla corrispondenza,
e preannunciava, inoltre, alle Direzioni degli istituti di massima sicurezza
l'arrivo di cinque agenti di custodia di "buona esperienza ed affidabilità"
con il compito, evidentemente, di lavorare specificamente all'opera di induzione
alla scelta dissociativa. Sempre in ragione di questo obiettivo, viene liberalizzata
la diffusione nelle sezioni speciali della stampa e delle pubblicazioni in libera
vendita all'esterno, in modo da "permettere che il dibattito della e sulla
dissociazione raggiunga anche il circuito della differenziazione se e nella
misura in cui questo... approfondisca ed acceleri la crisi e la disgregazione
dall'interno del terrorismo ed estenda il numero di coloro che rinnegano le
ideologie, i progetti e la pratica" (14).
Intelligentemente Amato non teme, ma anzi auspica, la libera circolazione dei
mezzi di comunicazione di massa all'interno delle carceri speciali, immaginando
l'effetto moltiplicatore che il racconto mediatico della sconfitta poteva avere
nell'indebolimento del fronte dei militanti incarcerati.
Amato pensa, a ragione, che il grande racconto della deriva "terroristica"
in cui era impegnato tutto il sistema massmediatico (15) non doveva essere negato
a quella platea. Inoltre, il suo protagonismo riformista, nonché qualche
evidente tratto di megalomania, non poteva rinunciare alla cassa di risonanza
dei mass media, perché la riuscita del suo progetto di normalizzazione
era anche legata alla capacità di bucare il sistema dell'informazione.
Per l'amministrazione dei penitenziari si avvia così la stagione dei
convegni e dei seminari. Nelle diverse aree omogenee istituite nei vari istituti
della penisola si promuovono iniziative politiche, dove vengono chiamati uomini
delle istituzioni, politici ed intellettuali.
In pieno delirio di onnipotenza, così Nicolò Amato racconta il
momento in cui vengono istituite le aree omogenee. "Si è sviluppato
un discorso politico, il processo della dissociazione dalla lotta armata. E
per facilitarne e favorirne lo sviluppo abbiamo addirittura riservato ai detenuti
che vi partecipavano o intendevano parteciparvi apposite sezioni dove potessero
meglio approfondire le loro riflessioni e le loro elaborazioni, sia ciascuno
per conto suo, sia tra di loro, sia nei rapporti con gli operatori penitenziari
e con i rappresentanti del mondo esterno: politici, sindacalisti, sacerdoti,
docenti universitari, registi, attori, musicisti, giornalisti, volontari, dei
quali abbiamo consentito ed anzi incoraggiato l'ingresso" (16).
Potrebbe suscitare una certa ilarità l'immagine di questo piccolo esercito
di intellettuali organici affollarsi ai cancelli delle carceri, ansiosi di timbrare
il loro cartellino marcatempo per misurarsi alla catena di montaggio della coscienza
critica.
Potrebbe apparire ridicolo se non fosse per le delicate e profonde trasformazioni
delle forme del potere che questa esperienza ha sedimentato.
La dissociazione
"Agli effetti della presente legge si considera condotta di dissociazione
dal terrorismo il comportamento di chi, imputato o condannato per reati aventi
finalità di terrorismo o di eversione dell'ordinamento costituzionale,
ha definitivamente abbandonato l'organizzazione o il movimento terroristico
o eversivo cui ha appartenuto, tenendo congiuntamente le seguenti condotte:
ammissione delle attività effettivamente svolte, comportamenti oggettivamente
ed univocamente incompatibili con il permanere del vincolo associativo, ripudio
della violenza come metodo della lotta politica" (art. 1, L. 18-2-1987,
n. 43, recante Misure a favore di chi si dissocia dal terrorismo).
I benefici previsti dalla legge sulla dissociazione sono veramente consistenti.
Le pene vengono ridotte di un quarto o della metà, in relazione alla
gravità dei reati specifici commessi; in sostanza si tratta dell'azzeramento
degli effetti catastrofici delle aggravanti previste dalla legislazione d'emergenza.
Per coloro che hanno subito più condanne, sempre per reati di lotta
armata, e questa è senz'altro la misura di maggiore efficacia, la pena
complessiva non può eccedere i ventidue anni e sei mesi; inoltre, viene
garantita l'applicazione di quelle misure discrezionali comunemente applicate
dalla giustizia ordinaria (quali le attenuanti e la esecuzione delle pene
concorrenti) che consentono un notevole abbattimento delle pene detentive
stabilite nelle singole sentenze e che erano state sempre negate agli imputati
per reati di lotta armata.
A rendere ancor più conveniente la scelta di dissociazione sono le
ricadute che essa ha nel campo dell'esecuzione penale. Come vedremo successivamente,
la legge Gozzini, approvata pochi mesi prima, cancellando il divieto di concessione
dei benefici penitenziari ai delinquenti pericolosi, prometteva una sicura
apertura delle porte del carcere a chi si dissociava, consentendo l'entrata
nei percorsi decarcerizzanti sulla base dell'unico criterio della "pericolosità
sociale" del soggetto deviante. Ed una "dichiarazione di dissociazione"
sarebbe stata una carta di credito che avrebbe sicuramente aperto le maglie
selettive dei percorsi premiali.
Ma quali sono le condizioni necessarie per ottenere il riconoscimento dello
status di dissociato? Formalmente la legge considera dissociati coloro che
tengono "congiuntamente le seguenti condotte: ammissione delle attività
effettivamente svolte, comportamenti oggettivamente ed univocamente incompatibili
con il permanere del vincolo associativo, ripudio della violenza come metodo
di lotta politica" (17).
Sono due i dispositivi di aggressione penale che agiscono in questa norma.
Il primo, cioè l'ammissione delle attività effettivamente svolte,
è tutto dentro la logica della guerra e si pone in naturale continuità
con la normativa sui pentiti. La confessione qui non è soltanto un
atto che attiene alla sfera della coscienza individuale, ma ha anche importanti
risultati pratici nei teoremi accusatori dei processi in corso contro le formazioni
politiche armate. Queste dichiarazioni entrano nella dialettica del processo,
divengono "riscontri oggettivi" di capi di imputazione, concorrendo
attivamente alla costruzione della verità processuale.
Ma, pur essendo questo risvolto per nulla secondario nelle vicende che hanno
segnato la storia dei processi ai partiti armati, ciò che più
interessa qui è la seconda condizione che viene posta come necessaria
al riconoscimento dell'autenticità della scelta dissociativa: cioè
la messinscena di quei "comportamenti oggettivamente ed univocamente
incompatibili con il permanere del vincolo associativo".
Nella scelta di collaborazione del pentito la merce di scambio è ben
concreta e visibile: dichiarazioni di correità, indicazioni di basi,
depositi di armi, strutture organizzative ed organigrammi; così come
è abbastanza agevole valutare l'utilità della "confessione"
dei reati chiesta a chi si dissocia.
Con l'osservanza della seconda condizione posta a chi compie questa scelta
si ha l'impressione che venga chiesta la disponibilità di un bene diverso,
difficilmente riconducibile a criteri materiali di misurazione: la rinuncia
alla propria "scelta di devianza" e il disinnesco della carica conflittuale
ad essa connessa.
Lo status di dissociato, cioè il giudizio di cessata pericolosità
sociale che viene pronunciato, è qui validabile evidentemente sul piano
discorsivo, ed è funzione della capacità del singolo di produrre
rappresentazioni rassicuranti di sé, utilizzabili per le esigenze di
legittimazione del potere. Con questo dispositivo le istanze del controllo
cercano di penetrare fin dentro la coscienza del reo, nei suoi desideri di
vita e di felicità, nei suoi sogni di liberazione, cercando di riconsegnare
al corpo sociale in subbuglio un'anima normalizzata, permeabile ai valori
dominanti e disponibile all'eloquio pacificatore. Qui il potere cerca di affermare
la sua supremazia sul piano dei valori, oltre ad esercitare il dominio della
forza; vuole sedurre il pensiero, oltre a coartare il corpo; cerca di modificare
l'intenzionalità e la direzione dei comportamenti, oltre ad impedire
il loro movimento spontaneo; seduce e premia, oltre a sorvegliare e punire.
La pesante pretesa correzionale di questa norma impone all'individuo di presentarsi
nudo davanti al potere, offrendo la sua singolarità all'azione manipolatoria
dello staff, per concorrere alla costruzione del suo progressivo isolamento,
della sua condizione di fragilità e ricattabilità. Così,
all'individuo atomizzato e disperso, non resta altro che depositare il senso
e l'integrità del sé nei linguaggi dispotici del disciplinamento,
abdicare alle pretese egemoniche dei discorsi normalizzanti, coartando i propri
movimenti e le proprie attese di liberazione nelle scansioni atemporali dei
meccanismi premiali.
Chi deve valutare l'effettività della scelta dissociativa? Da cosa
è orientato questo processo di valutazione?
In linea con la logica dello scambio, affermatasi già con la legge
sui pentiti, questa nuova norma giuridica rappresenta una tappa importante
della costruzione di quel sistema penale premiale centrato non più
sulla valutazione del fatto reato, ma del suo autore, sul giudizio della personalità
del delinquente, delle sue qualità soggettive. Oggetto del processo
sull'uomo sono le dimensioni della coscienza, le scelte di appartenenza, l'attualità
delle motivazioni a delinquere.
La rilevanza di questa legge sta nel suo essere, emblematicamente, espressione
di un mutamento profondo della penalità materiale e del controllo sociale,
dove il processo di formazione del giudizio si emancipa progressivamente dal
sistema di garanzie che il liberalismo aveva posto a contenimento della repressione
penale. Si tratta di un "non diritto" fondato su pratiche fortemente
discrezionali e arbitrarie, che si presentano sotto la forma di atti amministrativi,
ma che comportano pesanti effetti penali.
Il lungo percorso parlamentare della legge sulla dissociazione darà
un contributo importante di pensiero giuridico al dibattito che si era aperto
contemporaneamente intorno all'ipotesi di una seconda riforma dell'ordinamento
penitenziario, che, nell'ottobre del 1986, porterà all'approvazione
della legge n. 663. L'istituto giuridico introdotto dalla Gozzini che meglio
rappresenta questa dinamica di movimento della penalità è, senza
dubbio, l'articolo 30ter, cioè, i permessi premio.
Fonte: pubblicato sul sito http://www.noglobal.org
Note
(1) Commissione Istituzioni. Settore Giustizia e lotta alla criminalità
organizzata. Direzione PCI. Riforma penitenziaria e dissociazione dal terrorismo.
Dossier 16. Dattiloscritto, luglio 1986.
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(2) Commissione Istituzioni. Settore Giustizia e lotta alla criminalità
organizzata. Direzione PCI. Riforma penitenziaria e dissociazione dal terrorismo.
Dossier 16, cit.
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(3) Già in un convegno organizzato a Salice Terme nell'83, il PCI formula
un'articolata proposta che prevede la istituzionalizzazione del regime differenziato
in tre circuiti che si era venuto a creare nel naturale svolgersi delle vicende
storiche che abbiamo raccontato. Un circuito di massima sicurezza destinato
agli appartenenti alla criminalità organizzata, sia politica che mafiosa;
un circuito ordinario dove si sarebbe dato pieno sviluppo al nuovo ordinamento
penitenziario già formulato nella riforma del 1975, a cui destinare
tipologie criminali dai tempi trattamentali medio-lunghi; un circuito, infine,
di custodia attenuata, in cui far transitare condannati a pene brevi, responsabili
di reati a basso contenuto di allarme sociale, da trattare pragmaticamente
con forme sperimentali di esecuzione extramurarie, tendenti ad anticipare
gli esiti depenalizzanti di una improbabile riforma del codice penale, ancora
oggi attesa.
L'intuizione contenuta in questa proposta, presentata da Guido Neppi Modona,
è senz'altro ingegnosa e fortemente anticipatrice. È in essa
contenuta la previsione di una forte espansione dell'intervento penale nella
gestione dei conflitti sociali e la necessità, quindi, di articolare
un ventaglio di risposte che trovino nella soluzione custodiale soltanto un
momento di percorsi punitivi più complessi. La custodia attenuata deve
essere un contenitore elastico e versatile, destinato a funzionare a fisarmonica,
dovendo gestire forme di devianza mutevoli, che si dislocano in un'area di
confine che spazia dalla disobbedienza fino alla illegalità vera e
propria. Sarà questo il settore degli interventi statali che dovrà
affrontare, in prima linea, i rivoli della disgregazione sociale che la perdurante
crisi economica annuncia da tempo.
L'effetto spugna raccoglierà la crescita della domanda di penalità
quando i livelli di allarme sociale cresceranno, e ridurrà i volumi
complessivi dell'internamento nei periodi di pace sociale, territorializzando
il controllo. Alla fascia degli autori di reato a medio indice di gravità,
dovrebbe essere riservato un modello detentivo fondato sui principi e le tecniche
della rieducazione, assicurando, da un lato, la effettiva esecuzione di un
livello minimo di carcerazione adeguato al risarcimento del danno sociale
prodotto e, dall'altro, una tecnologia trattamental-premiale che persegua
il doppio obiettivo di pacificare le prigioni e legittimare l'istituzione
carceraria attraverso un'ideologia utilitaristica della pena.
Resta il residuo della criminalità organizzata, destinata all'impegnativo
ruolo di realizzare l'alta simbologia della funzione penale, la pena come
fatto esemplare, come messaggio di deterrenza, luogo di affermazione della
capacità di potenza dello Stato. Babes are engulfing stripper dudes cocks eag Stud enjoys playing with a large ass Joseline Kelly loves getting her teen pussy eaten and fucked Stripper gets his hard dong delighted by chick A ballet slipper wearing whore gets plowed After interview busty babe fucked Amazing redhead babe with big boobs Jessica R fucks with Latina boy Juan Largo https://www.watchfreepornsex.com/tags/xxnx-india/ Naturally beautiful brunette in fishnets gives a great erotic solo show Pornstar wannabe teen wants to be famous Teen Jesse Parker Gets Spanked Hard Horny mom Saskia is interested in the young guy in towel Leaked Amateur Russian Sextape Porn cd xx porn
Su questo punto vedi A. CHIAIA (a cura di), Il proletariato non si è
pentito, G. Maj editore, 1984.
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(4) L'affidamento in prova e la semilibertà nei primi quattro anni
di applicazione della normativa - 1976/79, Ministero di Grazia e Giustizia,
Quaderni dell'Ufficio Studi, ricerche e documentazione della Direzione Generale
degli II.PP., n. 15, 1983.
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(5) Devo precisare, a questo punto, che non entra nel piano di ricerca di
questo testo l'analisi del lungo ed articolato dibattito politico che si è
sviluppato intorno al fenomeno della "dissociazione". Tentare soltanto
una fugace retrospettiva su questa incandescente materia esporrebbe chi scrive
ad un "fuoco di fila della critica dalla geometrica potenza", cui
non resisterei neanche per un attimo (i protagonisti di queste vicende mi
perdoneranno l'infelice metafora). Ci tengo a puntualizzare che mi è
stato inevitabile affrontare questo fenomeno soltanto perché ritengo
che esso abbia svolto un ruolo importante nelle vicende che hanno segnato
la trasformazione del nostro sistema penitenziario.
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(6) La soluzione politica per una generazione, Il Manifesto, 30-9-1982.
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(7) La soluzione politica per una generazione, cit.
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(8) La soluzione politica per una generazione, cit.
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(9) N. AMATO, Oltre le sbarre, Mondadori, 1998, 93.
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(10) Questo cambio al vertice dell'Amministrazione Penitenziaria avviene nel
1983; ed è sempre dell'83 la prima proposta di legge sulla dissociazione.
A firmarla sono i deputati Boato, Rodotà, Crucianelli, Covatta ed altri.
Nella relazione di presentazione, così viene motivata l'opportunità
del provvedimento: "È infatti facile capire come in una fase come
l'attuale la dissociazione senza collaborazione rappresenti, ancor più
del pentitismo, un segno e insieme un fattore di crisi politica del terrorismo...".
Cfr. A. CHIAIA (a cura di), Il proletariato non si è pentito, G. Maj
editore, 1984, p. 60.
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(11) A. CHIAIA (a cura di), Il proletariato non si è pentito, G. Maj
editore, 1984, p. 269.
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(12) A. CHIAIA (a cura di), Il proletariato non si è pentito, cit.
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(13) A. CHIAIA (a cura di), Il proletariato non si è pentito, cit.
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(14) A. CHIAIA (a cura di), Il proletariato non si è pentito, cit.
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(15) M. Catalano, Lotta armata e soluzione politica: il dibattito attraverso
la stampa quotidiana. Tesi di laurea.
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(16) N. AMATO, op. cit., p. 155.
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(17) L. 18-2-1987, n. 34.
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