Carceri private
di Carmine Vistola
Il carcere è al centro di un paradosso: è allo stesso tempo un fallimento e un successo. È un fallimento in quanto l'istituzione penitenziaria in due secoli di onorato servizio non è riuscita a perseguire nessuna della finalità che ne legittimano pubblicamente l'esistenza. Si sono scritte montagne di libri per dimostrare che il carcere non riabilita, ma violenta, distrugge e annienta l'identità dell'individuo. È noto che il carcere non è una giusta misura di pena perché al detenuto in prigione non viene tolta solo la libertà, ma vengono inflitte altre pene altrettanto dure e feroci che, anche se non sono scritte in nessun codice penale, fanno parte intrinsecamente del carcere come istituzione totale: dall'impossibilità di vivere l'affettività e la sessualità, alla mancanza di privacy, alla scarsa sicurezza personale.
È infine noto che il carcere non ha una grande funzione deterrente, in quanto non ha mai contribuito a diminuire la criminalità e non ha mai dissuaso soprattutto i criminali d'alto bordo dal compiere reati impuniti spesso più gravi di quelli per i quali la maggioranza delle persone sono in carcere. Basti pensare ai reati ambientali, alle frodi alimentari, al non rispetto della sicurezza nei posti di lavoro, che producono nel nostro paese molti più morti degli omicidi.
Eppure il carcere è una istituzione in grande salute: gli istituti di detenzione sono sempre più pieni, stracolmi di detenuti e non si trova più un posto libero, tanto che recentemente il carcere di Torino ha dovuto bloccare gli ingressi per un giorno perché incapace di accogliere altri ospiti. L'Italia ormai viaggia su un tasso di carcerazione vicino ai 100 detenuti ogni 100.000 abitanti, il doppio di quello di solo 25 anni fa. Ci sono ormai 56 mila detenuti per una capienza complessiva di 42 mila posti. Gli ospiti delle patrie galere sono sempre più uomini, di basso livello scolastico, disoccupati.
Ormai quasi un 30% è immigrato (la cifra raddoppia negli istituti di pena delle grandi città del centro-nord), altrettanti sono i tossicodipendenti, senza dimenticare che vi sono più di mille sieropositivi, più di 15 mila persone con epatite virale e non si contano più i casi di autolesionismo. Insomma un inferno per tutti: per i detenuti, per gli operatori che vi lavorano e per i familiari dei detenuti che sono spesso costretti a subire una pena che non hanno cercato.
Il paradosso di una istituzione che proprio nel momento della sua massima espansione manifesta il suo fallimento è in realtà solo apparente: il carcere che riabilita, che è una giusta misura di pena, il carcere deterrente sono solo maschere ideologiche che servono a mistificare e nascondere la natura e le funzioni reali del carcere: quelle di depurare la società dalle classi pericolose, soprattutto se composte da immigrati e da disoccupati; di delimitare, come diceva Foucault, il confine tra la devianza e la normalità, tra la legalità e gli illegalismi; di rendere i detenuti inoffensivi, di neutralizzarli; di distrarre l'opinione pubblica da reati e violenze di Stato per mostrare al contrario che lo Stato agisce, si dà da fare per combattere il crimine e proteggere i cittadini. La domanda di penalità è però oggi talmente elevata che anche una istituzione di successo come il carcere non riesce ad esaudirla. Da un po' di anni negli Stati Uniti in primo luogo, ma anche in alcuni paesi europei, si è adottata una soluzione geniale e pericolosa: privatizzare il sistema delle carceri per garantire allo stesso tempo un controllo sociale più pervasivo ed efficiente ed aumentare i profitti delle imprese che si occupano del controllo del crimine. Un piano a dir poco perfetto. Un'idea della serie: niente sprechi per favore, anche un detenuto può essere utile per far soldi. Si riciclano plastiche, lattine, pile, per quale motivo non si possono riciclare i marginali, gli immigrati, i poveri, i disoccupati, i tossicodipendenti?
Il nostro governo non poteva non essere sensibile al richiamo della privatizzazione ad ogni costo e sta cercando di aprire le porte del carcere ai privati in tre modi. In primo luogo, i privati potranno entrare nel business dell'edilizia penitenziaria attraverso la compravendita o la costruzione di nuovi edifici penitenziari, magari da edificare in zone a bassa rendita immobiliare e da barattare con i ben più redditizi vecchi e nobili edifici che ospitano le carceri spesso in pieno centro storico e che potranno essere trasformate in filiali di banca, alberghi, centri commerciali. È inoltre noto come l'ultima finanziaria abbia stanziato 800 miliardi delle vecchie lire per la costruzione di 22 nuovi edifici penitenziari e per la ristrutturazione dei vecchi. Nella scorsa primavera, il ministro Castelli si era dichiarato favorevole ad acquistare in leasing da costruttori privati edifici da adibire a carceri senza verificare se quelle costruzioni sono dotate dei necessari accorgimenti architettonici che rendono un carcere vivibile e dignitoso per chi ci vive e ci lavora. Se l'ingresso dei privati si limitasse a questo, l'effetto sarebbe grave perché porterebbe ad un'espansione del sistema carcerario e probabilmente al peggioramento delle condizioni di vita dei detenuti, ma in fondo limitato in quanto i privati non entrerebbero direttamente nell'ambito dell'esecuzione penale.
Ma i privati, ed è questa la seconda direzione della privatizzazione, potrebbero essere interessati ad un contatto con il carcere nell'ambito dell'applicazione della legge Smuraglia, che concede alle imprese sconti fiscali se investano nel lavoro intramurario ed esterno.
Potrebbero essere numerosi gli imprenditori che, attirati dagli sconti fiscali e dalla possibilità di avere manodopera a basso costo, potrebbero investire in attività industriali necessarie ad esempio alla sopravvivenza del carcere, come le lavanderie industriali. È di pochi giorni fa la notizia che una cooperativa sociale torinese investirà nella costituzione di una lavanderia industriale all'interno del carcere. Si potrebbe pensare che questo sia un ingresso virtuoso dei privati e sia in fondo da incoraggiare.
Ci siamo sempre lamentati che in carcere i detenuti si annoiano e che non c'è lavoro ed ora facciamo i difficili?
Nessuno nega che l'investimento imprenditoriale in carcere non possa avere ricadute positive sui detenuti, ma a quali condizioni? Con quali costi per i diritti di cittadinanza dei detenuti? Il lavoro in carcere o in generale il lavoro dei detenuti è fino ad ora un lavoro con meno diritti rispetto al lavoro dipendente tradizionale. Vengono spesso lesi il diritto ad un giusto salario, quello elementare alla sicurezza, quello di sciopero, quello alla privacy (è diffusa la presenza di telecamere nei luoghi di lavoro). In carcere non esiste nemmeno un sindacato che difenda il detenuto e la protesta può avere come contropartita il licenziamento. Senza dimenticare, e su questo l'esperienza straniera di privatizzazione delle carceri ha qualcosa da insegnarci, che i privati, gestendo il lavoro in carcere, hanno voce in capitolo sulle procedure di esecuzione penale. Un privato applicherà al lavoro criteri che sono quelli manageriali dell'efficienza e della produttività ad ogni costo, diminuirà ogni forma di garanzia e di tutela, controllerà i detenuti affinché rendano e siano produttivi (vedi il test sulla droga così diffusamente utilizzato negli Stati Uniti o l'utilizzo di sistemi tecnologici di controllo dai video al braccialetto) e la prima volta che un detenuto lavoratore farà un errore, arriverà in ritardo, salterà un giorno di lavoro senza avvertire perché magari è al colloquio dal giudice verrà licenziato, perché tanto manodopera a basso costo non manca mai in carcere. Il più delle volte inoltre il lavoratore detenuto non imparerà un mestiere, non acquisirà una professionalità, ma eseguirà mansioni a bassi livelli di qualificazione che non lo renderanno più forte sul mercato del lavoro una volta uscito.
Dove sta il trattamento in un progetto industriale del genere che riporterebbe in carcere condizioni di lavoro che ledono diritti e dignità e non danno professionalità? Il lavoro dovrebbe essere uno strumento o forse lo strumento principale della risocializzazione e diventa la semplice mistificazione ideologica di un progetto di sviluppo industriale senza respiro. Il detenuto, solitamente disoccupato ed espulso dai processi produttivi, diventa, come afferma Christie, allo stesso tempo materia prima di fatto inesauribile e consumatore passivo di un sistema industriale, quello che costruisce carceri, tecnologie per la custodia dei detenuti ed altro, che è interessato a sfruttarlo per espandere la propria redditività. Controllo sociale e sviluppo industriale in un colpo solo. C'è poi un terzo aspetto, potenzialmente più pericoloso ed innovativo della privatizzazione delle carceri. È quello di cui si è incominciato a parlare con il progetto di Castelfranco Emilia, vecchia casa di lavoro riadattata a struttura a custodia attenuata per tossicodipendenti, in procinto di passare in gestione alla Comunità di San Patrignano che dovrebbe trasformarla in una comunità terapeutica per tossicodipendenti in esecuzione penale.
I rischi di un progetto del genere sono numerosi, in quanto quello che potrebbe accadere è una vera e propria concessione o appalto al privato sociale del trattamento del detenuto.
Sostanzialmente una strisciante e non dichiarata privatizzazione delle carceri Italiane. È un'idea che potrebbe far gola a numerosi enti di privato sociale che si occupano di comunità per tossicodipendenti. Negli ultimi anni le comunità hanno avuto un crollo netto di utenti a vantaggio dei SERT che, anche con modalità differenti, da tempo stanno perseguendo politiche vicine alla riduzione del danno.
Concedere di trasformare le comunità in carceri private per tossicodipendenti in trattamento coatto potrebbe essere un modo per risanare un settore in crisi, con rischi evidenti di speculazioni economiche sulla pelle dei detenuti tossicodipendenti.
La privatizzazione porterebbe difatti ad un netto peggioramento nelle modalità di esecuzione della pena.
È noto che i processi di remissione dalla droga attraverso la comunità possono riuscire (se riescono) se il tossicodipendente ha una motivazione ad uscire dalla droga, e se comunque non è costretto ad andare in comunità semplicemente per non finire in galera e quindi in qualche modo vi è costretto. Quali possibilità reali hanno di uscire dalla tossicodipendenza ragazzi che non ne sentono necessariamente il bisogno o la voglia? E poi siamo sicuri che la galera sia peggio della comunità? In galera in fondo la droga si trova, se rimani in carcere e non vai in comunità forse non vieni considerato un traditore, un venduto, un infame dai tuoi vecchi compagni e poi il carcere, nella sua follia e violenza ha regole, prassi che sono meno rigide, costrittive e totalizzanti di una comunità.
La comunità solitamente offre maggiori comodità, alloggi migliori, vitto migliore, ma ha l'ambizione di trasformare il tossicodipendente in un uomo diverso, pretende di cambiare il suo modo di pensare, di concepire se stesso e la vita. Il carcere, per quanto totalizzante possa essere, non ha l'ambizione di cambiare nessuno. Per quanto violento non ti obbliga a rimettere in discussione la tua vita. Il carcere non rieduca e non pretende di farlo. Senza dimenticare l'effetto simbolico di tutto questo: il tossicodipendente o diventa un soggetto senza capacità di intendere e volere da curare in maniera coattiva oppure è un soggetto da punire non attraverso il carcere, ma attraverso la cura. In sintesi coazione e volontà, punizione e cura, psicologi e poliziotti penitenziari in uno stesso ambito. Si mischiano saperi, prassi operative e strategie di controllo, in modo tale da rendere più difficile al tossicodipendente detenuto qualsiasi strategia di adattamento o rifiuto. Si verrebbe in questo modo a configurare un sistema di controllo penale a due velocità: da un lato, il carcere tradizionale destinato al disciplinamento con regimi severi per detenuti con pene più alte, per quelli ritenuti più pericolosi e per extracomunitari verso i quali non si può fare altro che chiuderli dentro e buttare via la chiave e, dall'altro, un carcere diffuso sul territorio, e quindi ancora più pervasivo, che non si presenta con quattro mura di cemento armato, ma con l'apparenza rassicurante e pacifica della cascina sul colle in campagna. Il controllo sociale e l'espansione penale sembrerebbero in quel modo diminuire, ma in realtà aumenterebbero considerevolmente. Il carcere sembrerà scomparire, ma invece sarà più diffuso e più terribile, gestito da quelle associazioni che fino all'altro ieri hanno predicato la solidarietà e che ora potrebbero essere disposte a lucrare sull'inflizione di una pena.
Probabilmente non aumenterà il numero di detenuti in cercare, ma aumenteranno quelli che in qualche modo saranno sotto l'ombrello del controllo penale. La diffusione e la dispersione del controllo sociale: ecco lo spettro che c'è dietro alla privatizzazione delle carceri. Lo Stato che apparentemente si ritira dal controllo dei crimine, in realtà si espande sotto altre spoglie. C'è solo da augurarsi che il privato sociale, inevitabile destinatario di questa "offerta che non si può rifiutare", abbia la forza e l'autonomia progettuale per dire no e per proporre insieme ad altri un'alternativa al carcere che porti a liberarsi dalla necessità della sua presenza.
Fonte: pubblicato sulla rivista "Cannabis", Marzo 2003.