La società messa sotto controllo
Per lei c'è una "simbiosi mortale" tra il neoliberalismo
e la politica penale punitiva incentrata sul carcere. Questo vuol dire che se
un modo di produzione diventa globale, altrettanto globale diventano le politiche
di controllo sociale?
Dai suoi libri emergono due modelli di controllo sociale, tali da rappresentare
due facce della stessa medaglia. Uno è il ghetto, cioè una prigione
a cielo aperto, dove il controllo si applica alla limitazione della libertà
di movimento. L'altro è la "tolleranza zero", dove le "classi
pericolose" sono costruite su parametri statistici in base ai vincoli del
lavoro e del reddito. Entrambi i modelli hanno molto a che fare con i mutamenti
della forma-metropoli. Non è che assistiamo al proliferare di modelli
di controllo sociale che vengono applicati a seconda della caratteristiche della
città in cui devono diventare operativi? Ma il ghetto non era solo povertà e segregazione. Lei ha
già accennato alle tendenza a stabilire regole sociali. Ma il ghetto esportava
anche cultura, era cioè un laboratorio di innovazione sociale, culturale.
Quando parlo di innovazione non do un giudizio positivo, ma riconosco che l'industria
dell'abbigliamento ha tratto spunto dalla vita di strada, così come l'industria
culturale, penso alla musica, ha avuto nel ghetto una fucina quasi inesauribile
di nuovi prodotti musicali. Ora che il ghetto è destinato a scomparire,
cosa accadrà? Arriviamo alle tecnologie del controllo. Mi riferisco alla videosorveglianza,
alle tecnologie della comunicazione, alle tecnologie di identificazione. Sono
state magari progettate per un compito specifico - maggior sicurezza - ma
poi diventano strumenti di controllo sociale. Lei che ne pensa?
intervista di Benedetto Vecchi a Loïc Wacquant
il manifesto 13 ottobre 2002
La politica di aggressione all'Iraq viene giustificata come una operazione tesa
a colpire dei criminali. In tutti i loro discorsi i militari e gli esponenti politici
dell'amministrazione Bush hanno sottolineato che i leader politici iracheni hanno
compiuto dei crimini. La costruzione del criminale da consegnare alla giustizia
è rafforzata con altri argomenti, dal sapore razzista: non parlano la nostra
lingua, non hanno le nostre abitudini, sono cioè degli alieni. Questa costruzione
del nemico ricorda molto la stigmatizzazione di settori della popolazione che
ha preceduto le politiche di esclusione rappresentato dal ghetto. Allora erano
i neri, ora sono i militanti di Al Qaeda, gli iracheni, domani chissà.
Manca completamente una analisi dei motivi geopolitici e economici che sono dietro
le azioni di Al Qaeda o delle posizioni prese dal governo iracheno. Io mi limito
a registrare che è all'opera la costruzione teologica di un nemico, così
che qui da noi c'è il bene, là il male, da noi i buoni, là fuori
il diavolo. Non c'è la volontà di ricondurre a una qualche razionalità
politica ciò che sta accadendo".
Io parleri di un progetto neoliberale che si basa sul presupposto che le leggi
del mercato sono i migliori strumenti per produrre e redistribuire la ricchezza.
Quindi è un processo che coinvolge lo stato nazionale e le relazioni
sociali. Potremmo dire che l'obiettivo finale è la completa mercificazione
dei rapporti sociali e che alla "politica" è riservato il ruolo
di controllare le condizioni affinché questo obiettivo venga raggiunto.
È un vero paradosso quello che è accaduto. L'ideologia neoliberale
considera le leggi del mercato come le leggi migliori, ma chiede allo stato
di garantire la loro operabilità.
Prendiamo ad esempio l'Europa: la creazione di un mercato
europeo non è scaturita dalle forze economiche, ma è frutto di
una decisione politica. È ovvio che questa situazione, cioè la
mondializzazione di un modo di produrre la ricchezza, ha avuto il contraltare
nella omogeneizzazione delle politiche nazionali. È ciò che sta
accadendo con le politiche di controllo sociale, sia che si tratti dei migranti,
che del mercato del lavoro che della sicurezza. Allo stesso modo, la globalizzazione
delle nuove politiche penali procede di pari passo con l'internazionalizzazione
del neoliberismo. Anzi io propendo a considerare le politiche penali come complementari
alle politiche neoliberali. Ripeto: quello neoliberale è un progetto,
e come tale è costellato anche di contraddizioni. Infatti, ci sono paesi
che possono prendere altre strade od opporre resistenza. La Norvegia, l'Olanda,
la Svezia non pensano proprio di rinunciare allo stato sociale e le loro economie
nazionali vanno meglio di altre che hanno abbracciato il credo neoliberale.
Io penso che il ghetto non sia più funzionale in una società che punta
sull'individualismo. Il ghetto vede la presenza di un gruppo più o meno
omogeneo dove applicare politiche di controllo omogenee. Inoltre, il ghetto
aveva la funzione di ingrossare le file dell'esercito industriale di riserva.
Forniva cioè forza-lavoro a basso prezzo da utilizzare contro la classe
operaia organizzata e magari sindacalizzata. Nelle società neoliberali assistiamo
a un abbandono delle risposte collettive, oserei dire sociali ad alcuni problemi.
Diverso è il caso della "tolleranza zero".
Per workfare society si intende una società
il cui principale meccanismo di integrazione è il lavoro. Chi è
fuori dal mercato del lavoro difficilmente ci rientrerà e così non accede
ai diritti di cittadinanza. La tolleranza zero interviene per togliere di mezzo
gli esclusi. Solo così si spiega la crescita delle economie criminali
e la crescita della carcerazione. Soltanto che la carcerazione riguarda non
solo chi commette un reato, ma anche gli homeless, i vagabondi, i poveri,
i migranti. Il risultato immediato della "tolleranza zero" è
l'aumento della popolazione carceraria. La conseguenza secondaria è la
definizione di cosa è compatibile con l'ordine sociale e cosa no. Questo
secondo aspetto a molto a che vedere con la disciplina della forza-lavoro e
con il governo coatto del mercato del lavoro. Chi sgarra è fuori, entrando
così nell'universo degli esclusi che ha come probabile orizzonte il carcere.
Il ghetto a suo modo era una risposta collettiva. Sbaglia chi considera il ghetto
come regno del disordine. Negli slums o nelle banlieu erano vigenti
regole, modi di essere, relazioni sociali ben particolari. Certo tutto era il
risultato di una stigmatizzazione di un gruppo sociale o etnico e il modo di
autorganizzarsi del ghetto era dipendente da questa costruzione "esotica"
della subalternità. Ma era pur sempre una dimensione collettiva, che prevedeva
forme di tutela di chi viveva nel ghetto. La tolleranza zero non contempla neanche
questo. Il passaggio dal welfare state alla workfare society è
costellato di contraddizioni e di compresenze. Ci può essere il ghetto
e la costruzione statistica della devianza, ma il primo modello di controllo
sociale è destinato a finire.
Si, il ghetto ha funzionato come laboratorio di innovazione. Il blues, il jazz,
l'abbigliamento, certo. Ora io penso che il carcere abbia preso il suo posto.
Può sembrare provocatorio, ma provi a pensare alla cultura del tatuaggio
e della decorazione del corpo, del modo di portare in un certo modo i pantaloni.
Pensi, infine, al fenomeno della musica gangnstrap. Sono tutte espressioni
"culturali" nate in prigione e che poi si sono diffuse in tutto il
mondo. Tra i criminologi c'è stato una aspra discussione se la prigione
importava modelli culturali provenienti dall'esterno e se c'era un processo
di produzione di una specifica cultura carceraria, adattando modelli provenienti
dall'esterno. Io penso che c'è un processo di produzione e esportazione
di modelli culturali.
Io vedo che la sorveglianza ha due aspetti: uno hard, duro, rappresentato
dal carcere. L'altro soft, morbido, che ha a che fare con i comportamenti
di consumo, le scelte individuali sulla sessualità, sulla vita in genere. In
entrambi i casi, le tecnologie svolgono un ruolo di supporto. Si possono creare
profili individuali in base a ciò che si acquista al supermercato o se
si ricorre ad alcune cure per determinati tipo di malattie, e così via.
In ogni caso le tecnologie digitali svolgono un ruolo, potremmo dire, di raccolta
e elaborazione dati. Detto questo, accade sempre più spesso che la polizia
richieda i dati individuali e li usi per costruire la biografia di una persona
indagata, arrivando magari a stabilire propensioni o meno alla devianza o ricavando
la sua colpevolezza o meno dall'elaborazione di quei dati. Il confine tra controllo
hard e quello soft è sottile. A renderlo così labile
ci pensano proprio le tecnologie digitali.