Intervista a Loïc Wacquant
pubblicata su Liberazione del 13 ottobre 2002

Lei descrive da anni le trasformazioni del controllo sociale e dei sistemi penali nella società neoliberale. Quale è il rapporto tra questo processo e l'idea di una guerra annunciata oggi in nome di una sorta di "polizia globale"?
     Credo che questi due aspetti siano legati strettamente tra loro. Nel senso che per legittimare in questo momento la propria politica aggressiva nei confronti dell'Iraq, gli Stati Uniti, ma non solo loro, hanno tendenza ad estendere il discorso marziale, la militarizzazione, anche all'interno del paese. In particolare ciò è già emerso nella trasformazione della "lotta al crimine" in una vera "guerra al crimine". Al di là della modifica di vocabolario, si tratta di entrare in una logica di mantenimento dell'ordine per cui i criminali sono pensati come un esercito da combattere, un esercito nemico che si trova però nel nostro territorio. I criminali cessano perciò di avere una fisionomia specifica per divenire degli alieni, che quasi non fanno parte del nostro popolo. Si tratta però anche di un processo più lungo, in atto da tempo: considerare i criminali alla stregua di stranieri significa infatti muoversi lungo una logica di esclusione, decidendo a priori di non considerare in alcun modo il contesto sociale che li circonda. Questo consente poi di applicare contro chi si ritiene "nemico" delle misure di polizia estreme che non si applicherebbero in alcun modo contro un proprio connazionale. Cosi si riesce ad eliminare ogni riflessione razionale sulle cause dei fenomeni, sociali, politici e geopolitici, arrivando di fatto a una dimensione irrazionale in cui i comportamenti giudicati devianti o criminali diventano inesplicabili, assurdi. Del resto è la stessa logica che non consente di capire il perché gruppi di banditi come quello di "Al Qaeda" possano trovare un sostegno presso settori anche non marginali delle società di altri paesi.

Nella sua analisi delle nuove forme dello stato penale lei è partito dalla situazione americana, ma oggi si può forse parlare di una globalizzazione del controllo?
     Innanzitutto credo vada fatta una considerazione preliminare su questo tema. Nel senso che non dobbiamo dimenticare come quella che oggi chiamiamo globalizzazione corrisponda all'imposizione del progetto neoliberista a livello internazionale. Progetto che si può riassumere attraverso tre caratteristiche principali. La prima è quella che considera il mercato come la migliore strada per organizzare tutte le attività umane; la seconda è che per permettere che il mercato giochi questo ruolo, lo Stato si deve ritirare dalle sue prerogative; la terza è la "trappola" della responsabilità individuale, nel senso di non considerare più in alcun modo gli spazi di intervento e di riflessione collettivi. In un simile contesto che cerca di imporre internazionalmente una deregulation di tutto il sistema del welfare, le forme della nuova repressione assumono un valore decisivo. La diffusione internazionale delle politiche e dei progetti penali punitivi va infatti di pari passo con la diffusione di queste politiche di deregolazione dello stato sociale, rappresentano cioè una sorta di complemento necessario all'espansione planetaria delle dottrine neoliberiste. L'accento posto sulle forme repressive serve infatti proprio a contenere gli effetti disastrosi prodotti sul piano sociale da queste dottrine. Quando un paese si converte alla politica neoliberale in economia, ecco che automaticamente si converte anche alla politica di penalizzazione della miseria.

In questo senso si può affermare provocatoriamente che quella della repressione rimane una delle poche prerogative ancora esercitate dallo Stato?
     Nello stesso momento in cui lo Stato ammette la propria incapacità ad agire sui temi economici e sociali, sembra rifarsi una sorta di verginità intervenendo proprio sul nodo dell' "insicurezza". Questo anche nel senso che la discussione intorno ai temi del crimine e dell'insicurezza diventa il luogo in cui si ritrova un dibattito pubblico, collettivo: si chiede allo Stato e lo Stato risponde. Si arriva a fare di questa questione una questione centrale, perché è il solo terreno sul quale lo Stato accetta di rispondere alla domanda di sicurezza e di ordine dei cittadini che è però in realtà una domanda di ordine e di sicurezza in senso ampio, che riguarda a ben vedere la vita stessa. Domande che riguardano la sanità, il lavoro, l'educazione, le case... Nel momento in cui sono le aspettative di vita che diventano insicure, i cittadini chiedono sì più sicurezza, ma in questo senso. E lo Stato risponde invece solo sull'aspetto ristretto delle politiche che si occupano dell'insicurezza "criminale". Ma, da parte dei cittadini, si tratta di una partita ben più ampia. Per fare un esempio concreto: oggi in Francia si parla molto della violenza nelle scuole, specie quelle di banlieue, ma sia i genitori degli studenti che i professori che intervengono su questo tema se ne servono in realtà per chiedere più mezzi, più strutture e riflessione sull'avvenire delle scuole stesse. Dunque è attraverso il tema della violenza e dell'insicurezza a scuola che si pongono una serie di quesiti che non hanno nulla a che fare con la questione criminale e che chiedono in realtà un ritorno dell'intervento dello Stato nella società.

La metropoli è il luogo in cui le diverse forme di controllo trovano la loro realizzazione. A partire dalle sue ricerche quale modello di città ci attende nel futuro?
     Credo che si vada verso un modello di città divisa tra un centro pulito, con vestigia storiche, accogliente, che diviene un luogo di consumi, anche culturali, per le classi medio alte e un'altra parte della città che si abbandona invece completamente, nella quale non si fanno più investimenti e che diventa il luogo in cui si accumulano tutti i problemi sociali, la povertà, l'emarginazione. Dunque uno sdoppiamento tra un lato prospero e ricco e un altro miserabile e violento: dei quartieri nei quali viene gettato l'insieme dei problemi sociali che sono legati alle ineguaglianze sociali e che vengono sottoposti a una sorveglianza sempre più forte, perché tutti i problemi restino localizzati in quelle zone. In qualche modo si può dire che da un lato ci sia un ghetto dorato in cui i ricchi si richiudono e si proteggono con la videosorveglianza e le polizie private e dall'altra ci sono invece i quartieri da cui la gente vorrebbe solo fuggire, ma in cui è invece costretta, spesso per l'intera vita. È in questo aspetto duale dello sviluppo delle città attuali che si può parlare infine di "americanizzazione" dello spazio urbano, nel senso che differentemente dalle città europee nate nel segno dell'incrocio e della contaminazione, quelle statunitensi si sono sviluppate proprio secondo questa idea di separazione e divisione molto netta.

Nello spazio della metropoli lei identifica due luoghi centrali per le forme del controllo, il ghetto e la prigione. Quale è la situazione oggi?
     Il modello del ghetto è oggi in crisi, perché nelle nostre società liberali l'idea stessa del ghetto diviene inaccettabile. A partire dall'esperienza statunitense si osserva però che è proprio quando questa vecchia forma di controllo che era il ghetto, va in crisi, che il sistema repressivo muta. Nel caso americano in particolare, quando i ghetti diventano in qualche modo superflui perché non servono più per controllare la forza lavoro dei neri, visto che ci sono oramai nuove ondate migratorie che hanno preso il loro posto nella società americana, e perché le trasformazioni produttive non necessitano più di quel tipo di controllo, si apre una nuova fase. Naturalmente è poi anche ai vasti movimenti afroamericani degli anni Sessanta che si deve questa modifica. È allora, nel corso degli anni Ottanta in particolare, che il sistema penitenziario comincia ad apparire come il più valido sostituto del ghetto. Questo fino ad oggi, quando oltre un milione di afroamericani adulti sono dietro le sbarre.