SUD: IL CUORE DELLA DISOCCUPAZIONE PULSA!

La tuta bianca comincia a costituire sempre più concretamente e in sempre più città italiane, il simbolo dell'esclusione sociale che si rende visibile. Divenire simbolo significa farsi linguaggio comune, attraverso la mediazione sociale dei significati. Significa dunque mirare a divenire elemento unificante e di ricomposizione per tante figure sociali estremamente eterogenee, e motivo di riconoscimento per le nuove lotte sociali.

Ogni comitato d'azione ha indossato la tuta bianca nella propria città e con le proprie specificità, per rendere visibili le contraddizioni di un sistema economico e politico che vede l'aumento smisurato della ricchezza da una parte, e la scomparsa progressiva delle garanzie sociali minime dall'altra.

Al sud la tuta bianca è divenuta il simbolo dei disoccupati che occupano la disoccupazione, cioè utilizzano il tempo disoccupato per occuparsi della propria vita e della propria sorte.

Il sud è il cuore della disoccupazione. Ebbene, proprio da qui, proprio dalle caratteristiche economico-sociali del Mezzogiorno è possibile ripartire per provare a immaginare una società diversa, in cui l'accesso alle garanzie sociali non sia più mediato dal lavoro "produttivo". Al sud, infatti il lavoro produttivo è stato solamente in minima parte lo strumento d'accesso ai servizi sociali, poiché lo Stato Sociale al sud è stato spesso assente: il lavoro improduttivo, non salariato, la cooperazione sociale e familiare, sono stati il perno dell'organizzazione dei servizi di cura e di mutuo soccorso al sud.

 

UN REDDITO PER RIAPPROPRIARSI DEL TEMPO

Il lavoro precario e flessibile è divenuto ormai la forma moderna del lavoro. E' inutile rimpiangere la piena occupazione o disperarsi perché il lavoro è cambiato. La società del pieno impiego e del lavoro unico a vita, è morta: sta a noi seppellirla. Ciò significa che il problema reale oggi, non è che si cambia lavoro (anzi l'idea ci piace pure), il problema è che si è costretti a farlo, perché non si possiede uno strumento che ci metta nelle condizioni di sceglierlo. Ed è questo che trasforma il lavoro precario e flessibile nelle molteplici forme di sfruttamento che oggi conosciamo. Il lavoro precario rappresenta la "naturale" conseguenza del cambiamento del sistema di produzione capitalistico e del progresso tecnologico.

Non ci addentreremo nell'analisi del post-fordismo, sia perché è stata ampiamente approfondita da tanti economisti illuminati, e dunque non diremmo nulla di nuovo in merito, sia perché rischieremmo di confonderci, visto che non avremmo esempi pratici da osservare in un sud che non ha conosciuto neanche il fordismo.

Quello che ci interessa sottolineare (e forse il sud ne avrà memoria come di una caratteristica della società premoderna) è la sempre crescente difficoltà a distinguere tra tempo di lavoro e tempo di non-lavoro, o meglio la sovrapposizione tra tempi di lavoro e tempi di vita.

Il lavoro diviene sempre più immateriale, dunque non quantificabile in termini di tempo e di spazio: assistiamo alla perdita progressiva di competenze e mestieri, e alla crescita esponenziale dell'interdisciplinarietà, della compartecipazione e dell'interattività nell'organizzazione del lavoro.

Il tempo non è più strumento di misura del lavoro, e il tempo di lavoro non è più strumento di misura della ricchezza. E' venuta a cadere la divisione rigida tra tempo di lavoro e tempo libero, imposta dal capitale e concretizzata dalla retribuzione salariale.

Oggi la produzione si basa su competenze diffuse: il linguaggio, l'informazione, la comunicazione; e su attitudini umane e sociali: la cooperazione, l'interazione linguistica.

Emerge come la vita quotidiana sia la sorgente vera di ogni ricchezza: ciò significa da una parte che si è persa la dimensione del tempo libero, dall'altra che, a prescindere che si possegga o meno il "lavoro" classicamente inteso come attività salariata, ognuno di noi lavora e produce gratuitamente.

Per essere più chiari basta pensare al lavoro secolare di cura che le donne hanno prestato gratuitamente, poiché la sfera affettiva non è quantificabile, né monetizzabile; lo stesso dicasi per tante altre attività di cui la nostra società è sempre più ricca, come le forme di cooperazione sociale che nascono sui bisogni degli individui di associarsi, bisogno che non è né quantificabile né monetizzabile; il sud poi è ricco di esempi: quante volte i meridionali sono stati additati come vagabondi, perché svolgevano lavori improduttivi a dispetto dei parametri di tempo e di denaro voluti dal capitalismo?...

E' a partire da queste considerazioni che pensiamo di costruire una proposta sul Reddito di Cittadinanza. Desiderare un Reddito significa ammettere senza ipocrisie, che vogliamo disporre del nostro tempo e impiegarlo per noi e per gli altri, ora che finalmente ciò è reso possibile dall'impiego della scienza nella produzione, e dal lavoro umano collettivo accumulatosi nei secoli.

Nessuno di noi vuole che il reddito garantito e la redistribuzione della ricchezza ripropongano il gigantesco feticcio del denaro di marxiana memoria. E per ovviare a questo pericolo è necessario affiancare la richiesta di reddito alla "valorizzazione" del lavoro improduttivo, e alla liberazione del tempo dalla schiavitù del lavoro produttivo.

Il Reddito di Cittadinanza rappresenta oggi la misura minima necessaria per superare la menzogna del lavoro imposto e odiato, e per affermare la verità del lavoro come "autorealizzazione" in quanto rispondente a una passione autentica.

La sicurezza di un reddito è una leva che ci permette di puntare in alto, al superamento dello stato presente di cose, e alla costruzione di una società nuova e diversa.

 

VERSO UN NUOVO "WELFARE" (o "BENESSERE")

L'altra faccia della crisi del sistema produttivo è la crisi dello Stato Sociale, del compromesso sociale tra capitale e lavoro che prevedeva un insieme di interventi pubblici tesi ad assicurare una serie di garanzie sociali attorno al lavoro.

Oggi questo sistema di garanzie è palesemente inadeguato, poiché è limitato a una ristretta cerchia di lavoratori salariati tradizionali, escludendo di fatto le nuove figure sociali, dal disoccupato al lavoratore precario, dal lavoratore autonomo al lavoratore in nero.

Due vie ci si aprono davanti; da una parte lo smantellamento totale del sistema di garanzie sociali sul modello americano, e la privatizzazione dei servizi; dall'altra parte immaginiamo una riforma generalizzata del welfare state, che trascenda i confini dello stato, un nuovo patto sociale che metta al centro non più la figura del lavoratore, ma quella dell'individuo sociale.

Ripensare il "welfare", cioè il benessere degli individui, è parte integrante del discorso sul Reddito, anzi ne rappresenta uno degli scopi nell'orizzonte globale del conflitto.

Non abbiamo soluzioni da proporre; offriremo quindi degli spunti di riflessione aperti:

1) Un primo punto su cui riflettere è sicuramente la riforma federalista del sistema fiscale, che orienti sui Comuni il versamento dei contributi e l'erogazione dei servizi. In questo senso guardiamo con interesse al terzo settore, quello dell'economia solidale e delle attività no-profit, malgrado che questo settore divenga spesso occasione per forme camuffate di sfruttamento del lavoro salariato.

2) Un secondo spunto è costituito dall'erogazione necessaria di un reddito, reperibile tramite fondi europei e comunali, e dalla garanzia di servizi sociali quali la casa, i trasporti, la formazione, la sanità, ecc.

3) Un terzo punto aperto è la centralità di tutte le attività di cura (alle persone, agli animali, alle piante, alla vita in genere), che solo grazie al reddito di cittadinanza, possono riacquistare la loro dimensione volontaria e autentica.

 

COME INCAMMINARSI VERSO L'UTOPIA? QUALI LE FORME DEL CONFLITTO?

Ci piace molto l'idea della rete, come spazio politico nel quale le differenze sono una ricchezza, e l'idea di poter sperimentare, in piena autonomia, percorsi pratici di lotta nelle proprie città.

E questo non perché l'orizzonte politico si sia ridimensionato, ma perché crediamo che il conflitto sul Reddito di Cittadinanza, aldiquà dell'obiettivo sempre auspicabile della formazione di un movimento di massa europeo, passi attraverso una grande battaglia culturale e la sperimentazione parallela di comunità più o meno grandi che si autoriproducono.

1)Scardinare la cultura del lavoro salariato.

Così come è evidente ai nostri occhi la fatiscenza del sistema salariale, è altrettanto evidente la difficoltà che si incontra nelle nostre città, nell'affrontare un discorso così innovativo e dirompente quale quello del Reddito di Cittadinanza.

I processi culturali sono sicuramente molto lenti: non è facile scardinare una cultura secolare fortemente radicata, che ha identificato la dignità umana con il lavoro, e l'inserimento e il riconoscimento nella società attraverso il salario.

Noi partiamo da un dato di fatto: la Calabria è la regione che ha il più basso reddito pro-capite, una disoccupazione alle stelle, eppure Cosenza è la città dove si vive più a lungo in Italia.

Probabilmente non sono i soldi, né il lavoro ad allungare la vita delle persone.

Il punto è proprio questo: si tratta di reinventare la gerarchia dei bisogni e dei valori e mettere al primo posto non più l'arricchimento materiale, ma la qualità della vita, l'espressione delle intelligenze e delle creatività umane, i valori di solidarietà e di cooperazione. Questo è un salto culturale fondamentale, perché ci permette di intravvedere i percorsi da intraprendere e gli esempi da realizzare concretamente, da subito.

L'università, ad esempio potrebbe rivestire un ruolo determinante in merito ai mutamenti e alle trasformazioni del pensiero comune, in quanto luogo in cui si formano non solo professionisti, ma soggetti critici, potenzialmente capaci di elaborare idee e progetti di innovazione culturale. (Rimandiamo la discussione sull'università a documenti più specifici).

2) Gli spazi del conflitto: municipalità e quartieri

Bisogna immaginare un passaggio forte: dall'avanguardia politica all'avanguardia sociale, mettendo in gioco la nostra capacità di fare e di sperimentare, oltre che di proporre e contestare.

Noi vogliamo ripartire dai quartieri attraverso inchieste, interviste e incontri pubblici, per realizzare una "mappa dei bisogni" dei cittadini, e per costruire progetti commisurando i desideri alla capacità di realizzarli che la gente che vive il quartiere possiede. Si tratta di sperimentare forme di autogoverno finalizzate alla soddisfazione dei bisogni personali e collettivi, e spingere gli enti locali a riconoscerne la validità e la ricchezza.

Si potrebbe pensare all'istituzione di una tassa comunale per affrontare il tema della disoccupazione o alla creazione di un'agenzia comunale per la realizzazione dei progetti di utilità sociale, che presti piccoli capitali a interessi zero per avviarli, o a un referendum comunale che lasci ai cittadini la possibilità di decidere.

Tutto questo non è il Reddito di Cittadinanza né il comunismo realizzato, ma tende sicuramente ad allargare la sfera pubblica non statale, poiché chiama i cittadini a occuparsi della loro vita e quindi inevitabilmente della politica.

Questo è il punto che ci interessa di più: fare del Reddito di Cittadinanza un discorso politico, legandola agli aspetti di una democrazia non rappresentativa, che si realizzi a partire dalle assemblee di quartiere, e si metta alla prova impiegando la capacità collettiva di produrre ricchezza sociale.

E' necessario quindi moltiplicare le vertenze con gli enti locali sulla casa, sui trasporti o sulla cultura, in quanto la vertenza è un mezzo per riportare la gente ad occuparsi attivamente della vita politica.

3) Centri sociali e associazionismo

Gli spazi autogestiti sono da sempre laboratorio di idee in cui proprio l'eterogeneità dei frequentatori permette uno scambio diretto delle diverse esperienze, non mediato dal denaro, piccole comunità elettive che operano proprio in un ambito considerato "immateriale" e "improduttivo". Spazi occupati da parte di chi rifiuta l'idea di un mondo in cui esisti solo se produci-consumi-e-crepi; luoghi in cui la cooperazione sociale si attua in maniera spontanea e del tutto gratuita. Molti centri sociali garantiscono forme di servizio anche per gli abitanti dei quartieri in cui i centri si trovano: stiamo parlando degli asili-nido, delle mense, dei dormitori, esperienze queste, tese ad alleviare i disagi nelle città, oltre che a soddisfare un reale desiderio di solidarietà nei confronti degli altri.

Come i centri sociali anche le associazioni culturali e di volontariato, rappresentano già esperienze concrete di una società possibile: è necessario garantire un reddito per dare continuità e per restituire dignità a queste forme di cooperazione sociale.

 

SPERIMENTARE IL REDDITO DI CITTADINANZA AL SUD?

Le caratteristiche della società meridionale (forme di rifiuto del lavoro salariato, reti familiari e amicali, scambio informale e ineguale) e in generale le caratteristiche di ogni Sud fatto di paesi e piccole città, fanno sì che sussista un elemento di sobrietà nella vita materiale dei meridionali, nel senso che culturalmente e storicamente si riesce a campare con meno soldi.

Pensiamo che le politiche economiche attuate finora nel mezzogiorno siano state del tutto fallimentari e inadeguate, poiché hanno sempre concepito i meridionali come soggetti da assistere: garantire un reddito al sud è il miglior modo per capovolgere questo stereotipo.

Crediamo che il sud sia il terreno più adatto per iniziare a sperimentare il Reddito di Cittadinanza, non per un discorso di assistenza né di privilegio, ma perché la grande disoccupazione meridionale è fatta di una quantità enorme di tempo e di energie a disposizione, che liberate dall'angoscia di doversi assicurare un salario, potrebbero tradursi già da subito in un riavvicinamento alla vita pubblica.

Rimandiamo alla discussione collettiva e ai percorsi autonomi di lotta nelle città, l'approfondimento, la revisione e il superamento degli spunti di riflessione che speriamo di avervi offerto.

Comitato 'Nsisti ca esisti CS - Rete delle Tute Bianche