Esiste in Italia un problema irrisolto della giustizia che, insieme a quello della costituzione formale, affonda le proprie radici negli anni settanta, gli anni della contestazione e della sovversione sociale diffusa. Risale proprio a quegli anni l’istituzione della "legge Reale" e di tutte le "leggi dell’Emergenza", la cui maggiore finalità è stata quella di rafforzare la battaglia dello Stato contro i movimenti antagonisti e la lotta armata di sinistra. Quella stagione si è chiusa con la sostanziale sconfitta politico-militare dei gruppi armati da una parte e il riflusso del movimento dall’altra, lasciando sul campo intatto un impianto legislativo che ha praticamente irrobustito il potere e il ruolo politico della Magistratura nel paese. Tanto da permettere a questa di ricoprire un ruolo supplente nella crisi del parlamento della prima repubblica, svolgendo per di più la funzione del grimaldello nel trapasso dalla prima alla seconda repubblica. Oggi questa funzione politica ed indipendente della Magistratura stà diventando un ostacolo serio alla rifondazione costituzionale di una repubblica che legittimi la nuova classe politica seduta sugli scranni parlamentari. Il ridimensionamento del ruolo dei giudici e del partito trasversale dei magistrati milanesi-palermitani passa per la riduzione dei poteri inquisitori puntati contro i politici di professione (con l’art. 513, la depenalizzazione e i tentativi di amnistia camuffata per tangentopoli).
Su questo contrasto interno agli organi dello Stato e alle diverse forze politiche istituzionali, l’area dei compagni (della sinistra di classe e dei centri sociali) ha cercato a più riprese di giocare un ruolo, sfruttando a proprio favore le cosidette "contraddizioni" in seno all’avversario per favorire la liberazione dei detenuti politici, il rientro degli esiliati, l’eliminazione dei reati cumulati in anni di lotte e occupazioni, per lo meno dalla Pantera in poi. I risultati, a dir il vero, non sono stati incoraggianti. Anche perchè, spesso e volentieri, si è cercato di separare un problema dall’altro, ridimensionando pure gli obiettivi, per rendere più appetibile al clan politico di turno la battaglia che si intendeva intraprendere.
Così è stato all’inizio per la "soluzione politica" sugli anni settanta, poi per l’aministia, in seguito per l’indulto, infine con la miserabile campagna "liberi liberi". Quasi sempre, invece di suscitare una mobilitazione dal basso che premesse sul Palazzo, ci si è rinchiusi nel circuito dei dibattiti e delle conferenze che delegavano al parlamentare illuminato di turno una battaglia non delegabile se non a costo di snaturarne il carattere universalistico e antagonista.
L’idea stessa di mobilitarsi per lobby, cioè a favore, via via, dei detenuti politici in Italia, degli esuli in Francia, degli ex-L.C. non ha aiutato nessuno, indebolendo tutti. Su tutto questo ha pesato un approccio di esclusiva "testimonianza" rispetto ai nuovi movimenti di contestazione sociale, non volendo legare la battaglia contro la repressione di ieri con quella contro la repressione di oggi. L’operazione di liberazione dei prigionieri politici è sempre stata giocata come se fosse un esclusivo processo di "ricostruzione della memoria storica", non tanto il riconoscimento esplicito di una necessità quasi fisiologica di ricongiunzione fra le vecchie e le nuove avanguardie politiche della lotta antistatale e anticapitalistica. Di qui, pure, una certa titubanza dei vecchi leader, dei vecchi compagni "sconfitti" a riapprociarsi al nuovo, a rigenerarsi nella lotta dell’attualità. Quando questo è avvenuto, per qualcuno, è stato tramite un automatico annullamento del proprio passato, attraverso un processo di distaccamento tacito dai corpi e dalle memorie di chi è rimasto esiliato o incarcerato.
Così che alla fine la lotta dura e ardua per "la liberazione di tutti" si è sempre rinchiusa, in ultima istanza, nel problema di pochi addetti, spesso ex di qualcosa, ridotti a "vestali" di un glorioso passato, se non a lobby della liberazione di qualcuno (Negri e gli esiliati, Sofri e i dissociati degli anni settanta, …).
Come centro sociale abbiamo sposato la lotta per l’amnistia generalizzata, dal sessantotto al novantotto, dietro stimolo dei centri sociali liguri. Crediamo che questa sia una formula giusta, magari un po’ rozza dal punto di vista giuridico, ma comunque in grado di colpire l’immaginario rispetto a ciò che si persegue: liberare i prigionieri delle lotte sociali degli anni settanta portando contemporaneamente avanti una battaglia per decriminalizzare le lotte degli anni ottanta e novanta, legando cioè la lotta contro la repressione su immigrati, lavoratori, donne, centri sociali con la lotta contro il sistema carcerario e giudiziario che oggi sequestrano migliaia di proletari assieme a centinaia di detenuti politici.
La battaglia sull’indulto non ci ha mai convinto per il suo carattere limitato, non universalistico, e soprattutto perché in mano a determinate forze politiche della maggioranza (Pds, Ppi) eredi dei governi di unità nazionale rischiava concretamente di rappresentare la pietra tombale con la quale si chiudeva la vicenda degli anni settanta imprigionati ed esiliati. La fine ingloriosa (e sottotono) della proposta di indulto ridà fiato ad una lotta per l’amnistia generalizzata ed immediata, dal basso soprattutto, senza troppe mediazioni e compromessi istituzionali.
E’ ovvio che se questa non diventa una battaglia dei soggeti sociali oggi antagonisti è destinata alla sconfitta, riducendosi ad una lotta da "reduci" equipollente a quella dei "familiari delle vittime". Va quindi posto l’accento sull’oggi, sul superamento, cioè, di quella filosofia emergenziale che tutt’ora partorisce mostri giuridici: dalle leggi sull’immigrazione al proibizionismo, all’uso spregiudicato della carcerazione cautelare. Per non parlare della discrezionalità con cui i vari tribunali di sorveglianza applicano una sorta di "federalismo" incontrollato da cui deriva il rischio di finire in uno "speciale" piuttosto che ottenere i "domiciliari" a causa dell’abusato "pericolo di fuga".
Ridimensionare la forte autonomia dei giudici vuol dire, dunque, aprire una breccia per la liberazione dei compagni incarcerati e per la liberazione delle lotte di questo fine secolo. Beninteso: questa battaglia può essere giocata su un terreno neo-garantista, che dia più libertà a chi lotta, a chi appartiene a quelle classi escluse dal potere economico e politico, senza stare al gioco delle lotte intestine dello Stato per rafforzare un apparato rispetto all’altro (l’esecutivo a discapito del giudiziario).
Così il tentativo di avviare un processo di depenalizzazione dei reati minori è soggetta a nuovi bracci di ferro fra le forze politiche e gli apparati: la nuova legge licenziata dalla commissione giustizia appare il frutto di incompiuti mercanteggiamenti, dove in cambio dello spinello liberalizzato si dà libertà a padroni e padroncini di inquinare i fiumi e lasciar morire sul lavoro.
La depenalizzazione concepita da questo Parlamento rischia di mettere sullo stesso piano lavoratori, disoccupati, soggetti esclusi e grandi potentati economici e politici. Non viene riconosciuta l’esistenza di soggetti collettivi che, in quanto subalterni, esprimono bisogni, spesso negati, perseguiti con atti considerati oggi dalla legge illegali, ma non per questo meno legittimi (diritto alla casa, diritto al lavoro, diritto al reddito, diritto ad una libera socialità).
Depenalizzare o decriminalizzare, dunque, le lotte e i soggetti collettivi, per aprire nuovi spazi di ribellione e libertà, per avviare un processo di decarcerizzazione della società.
Rilanciare una lotta contro il ruolo della Magistratura e dei corpi speciali nel paese, operando per l’abolizione della carcerazione preventiva e lo scioglimento dei corpi.
Questa potrebbe essere una base di discussione, minima, da cui ripartire, per riavvicinarsi ai grandi temi della liberazione dal carcere e una lotta a tutto campo contro la repressione.
c.s.o.a gabrio