Un passo indietro, due avanti…

Premessa

La mattina del 27 ottobre 1999 ci siamo svegliati brutalmente senza renderci conto che qualcosa stava e sta cambiando nel paese, nei rapporti di forza fra destra e sinistra, fra forze che desiderano comunque una società più vivibile e forze che perseguono un'idea sociale retta sul carcere, le manette, le negazioni e le proibizioni.

L'incolumità di un centro sociale è stata violata qui a Torino come a Padova. Il pretesto è stato la droga e lo spaccio; nulla di più facile, nulla di più semplice per guadagnare il consenso contro le politiche di liberazione, di riduzione del danno, di riduzione del carcere e delle pene. Tutto questo dietro la spinta di una destra incalzante. L'abbiamo detto subito, ma non l'abbiamo compreso in tutto il suo significato.

Impressionismo, approssimatezza. Certo, ma, forse per superficialità, forse per intuizione, ci siamo trovati per sbaglio all'incrocio di uno scontro politico di grandi proporzioni. Uno scontro che comunque ci riguarda e che, ora come ora, non ci può vedere come passivi spettatori.

Quello che proponiamo qui è dunque una lettura della battaglia antiproibizionista inserita all'interno di uno scenario politico più ampio, che investe tutti i rapporti di potere e di forza fra le classi, i soggetti dominanti e quelli esclusi e sfruttati. Con l'idea ben chiara che la questione delle droghe leggere (e non solo) è di per sé un problema secondario, ma che oggi assurge a pretesto per la destra, un pretesto fra i tanti, per avviare un'offensiva politica ad ampio raggio. Sottrarsi a questo dato della realtà sarebbe vigliacco, così come sarebbe miope non capire che anche sull'uso delle droghe la vecchia e nuova destra intendono attaccare l'esistenza stessa dei centri sociali in Italia, le pratiche "trasgressive" e le scelte individuali di milioni di giovani (e non…) nel nostro paese.

Partiamo da vicino : l'attuale assetto politico istituzionale.

Il 25 settembe '99 Giulio Andreotti viene assolto dall'accusa di essere il mandante dell'omicidio Pecorelli (giornalista di destra della rivista "O.P." che si era occupato di mazzette e inciuci dell'allora presidente del consiglio, ucciso misteriosamente nel '79). Questa assoluzione fa da apripista all'altra ben più clamorosa di Palermo, ovvero nell'ambito del processo per associazione mafiosa contro il senatore a vita in quanto uno dei maggiori rappresentanti di quell'intreccio politico-affaristico-repressivo denominato Democrazia Cristiana, partito di potere per ben cinquant'anni di vita repubblicana nel nostro paese.

L'esito di tali vicende processuali, al di là degli elementi spettacolari dei baci in bocca tra mafiosi e esponenti politici, ha messo definitivamente la parola "fine" a quel tentativo di "processare la D.C." che la sinistra rivoluzionaria prima, i progressisti poi, hanno tentato a più riprese di fare nel corso di questi ultimi trent'anni.

Si badi bene, non stiamo parlando di storie "vecchie", relegate all'Italia dell'epoca della guerra fredda: ancora oggi gli esponenti ex-democristiani sono saldamente collocati nei luoghi del potere come segretari, sottosegretari, ministri, consulenti finanziari e politici, azionisti, pur non esistendo più come entità politico-elettorale compatta e omogenea.

Se Andreotti fosse stato considerato in qualche modo "colpevole" si sarebbe dovuta riscrivere la storia politica di questo paese che ha traghettato indenne bombe, mazzette, stragi, omicidi, clientelismi, nati nell'ottica di preservarsi dal pericolo comunista con qualsiasi mezzo, lecito e illecito.

Oggi sappiamo che i tentativi di colpo di Stato in Italia sono avvenuti realmente, che la DC non ha fatto nulla per salvare la vita di Moro, che le mani dei fascisti e degli stragisti erano armate in parte dai servizi segreti e da apparati dello Stato, non deviati ma ben integrati, che esisteva una struttura segreta illegale in ambito Nato definita "Gladio" nata in funzione anticomunista e di "prevenzione" da una vittoria elettorale del PCI e delle sinistre.

Queste verità acquisite si sono dissolte come neve al sole con l'assoluzione di Giulio Andreotti.

Non a caso poco prima della ribeatificazione di Andreotti è scoppiato, ben pilotato, il caso Kgb-mazzette al Pci.

Un modo tutto italiano di concludere il trapasso alla seconda repubblica amnistiando tutti, perché tutti erano egualmente colpevoli perchè inseriti in logiche illegali e non dichiarate. La Dc se la faceva con la Cia e il Pci con l'URSS; la Dc usava i fascisti e i servizi segreti contro l'opposizione, mentre l'opposizione aveva le armi sovietiche nascoste; e così via.

Peccato, però, che la Dc fosse il partito di maggioranza e di governo, e che dal '48 avesse costituito - tramite la Cia - un rapporto organico con la mafia siciliana, la quale era in credito con gli americani per avergli permesso lo sbarco al Sud. La mafia in Sicilia, la camorra in Campania, assicurarono alla DC e ai suoi notabili dal '48 in poi continue vittorie elettorali, attraverso trame di ricatti e terrore costruite con il famoso meccanismo del "voto di scambio".

La Dc, col tempo, è andata ben oltre il rapporto organico, sviluppato con la mafia forme di integrazione reciproca sempre più strette fino ad arrivare ad esprimere degli esponenti politici propriamente mafiosi, come l'"uomo d'onore" Salvo Lima (politico siciliano della cordata andreottiana).

A onor del vero il Pci ha sempre subito simile realtà politica, pagando anche a caro prezzo questo stato di minorità con decine di morti di rappresentanti politici e sindacali del meridione. Proprio da questo punto di vista il Pci va storicamente assolto, poiché mai fu colluso nel suo complesso con la mafia.

Ciò detto, nulla cambia - ovviamente - in merito al nostro giudizio negativo del ruolo politico che il Partito Comunista Italiano ha avuto nella storia della lotta di classe di questo paese nel dopoguerra.

Ma ritorniamo all'oggi. Riuscire a dimostrare nelle aule dei tribunali ciò che si era gridato per anni nelle piazze, e cioè che la Dc era uguale alla mafia, avrebbe avuto una conseguenza politica deflagrante per qualsiasi progetto di restaurazione di quel famoso centro moderato-conservatore che, a parte la parentesi del ventennio fascista, ha impedito grandi cambiamenti dal governo Giolitti in avanti.

In merito, un aspetto che molte volte abbiamo sottovalutato è stato quello delle lotte intestine allo Stato e alla magistratura, nonché alle dinamiche di potere che l'assoluzione Andreotti ha innescato.

La magistratura infatti, che è uno dei tre poteri forti su cui si basa il nostro ordinamento giuridico (esecutivo, legislativo, giudiziario), ha al suo interno vere e proprie correnti che riproducono le divisioni che si determinano in ambito politico parlamentare-istituzionale.

Da "Mani pulite" in avanti, la corrente erede di Magistratura Democratica - della quale una parte dei magistrati milanesi, Caselli, Violante sono stati fra i maggiori rappresentanti - ha assunto un ruolo egemone dentro il Consiglio Superiore della Magistratura, schiacciando le correnti rivali più legate agli ambienti conservatorie e cattolici - da sempre compromessi con i settori più corrotti della prima repubblica (come ad esempio la procura di Roma) - riuscendo a istituire veri e propri processi politici contro personaggi come Berlusconi che la sinistra moderata non riusciva più a ridimensionare con la semplice battaglia politica nelle piazze e negli istituti parlamentari.

Per tutti gli anni novanta la magistratura, sotto la spinta dei milanesi e di MD, ha assunto un ruolo sostitutivo nella gestione del ricambio della classe politica e del parlamento italiani. La prima repubblica, il CAF (l'asse Craxi, Andreotti, Forlani) furono spazzati via in poco meno di un anno grazie ai magistrati del pool di D'Ambrosio, Borrelli, Di Pietro, ecc., anche a fronte della crescita elettorale della Lega che in qualche misura aveva scosso gli statici equilibri interni alla vecchia classe politica.

Non è neppure un caso che Totò Riina, tempo dopo, nell'aula bunker di Palermo dichiarasse apertamente che i nemici della mafia erano i "comunisti" Caselli, Violante e il Pool di Milano.

Gli anni novanta segnano dunque il trionfo in politica della magistratura ed anche il cambiamento dei suoi equilibri interni, nonché dei suoi indirizzi politici generali. Trionfa il giustizialismo, il neo-giacobinismo di sinistra, nel tentativo di processare la vecchia classe dirigente dei partiti di potere.

Tutto questo si traduce anche in una diversa gestione di una miriade di processi a carico dell'area di compagni che, comunque, non viene risparmiata. All'epoca di Mani Pulite si registrò un cambio di linea anche su questo. Invece della brutale e diretta repressione del ventennio prima, si optò per un accumulo di microdenunce nei confronti dei militanti politici extraparlementari in modo tale di renderli inoffensivi senza scatenare grossi conflitti.

Con la conclusione del processo Andreotti gli equilibri interni alla magistratura e allo Stato vengono rimessi nuovamente in discussione.

La componente di "sinistra" della magistratura esce pesantemente sconfitta e screditata. Viene attaccata frontalmente da molti esponenti politici eredi del "grande centro" democristiano. Automaticamente si innescano una serie di reazioni a catena che favoriscono il ritorno in auge di una giustizia e di una polizia da "anni settanta", che è in grado di recepire meglio le spinte reazionarie della società celate dietro le richieste di "sicurezza sociale", ovvero di chiusura nei confronti dell'immigrazione e di ritorno a una logica in cui deve imperare la "normalità" contro una "devianza" che va relegata nelle istituzioni totali. Già D'Ambrosio aveva intuito il cambio del vento all'inizio dell'anno con le sue clamorose dichiarazioni sull'importanza di perseguire prima di tutto la microcriminalità sociale (un ammissione indiretta che l'epoca di Mani Puilite fosse finita).

Non riteniamo dunque azzardato pensare che esista un sottile filo che unisce l'assoluzione di Palermo con le operazioni di polizia contro il Gabrio e il Pedro, così come l'innasprimento della condotta verso i soggetti clandestini, deboli, "diversi" della società.

Se l'operazione al Gabrio poteva far intuire tutto ciò, quella al Pedro ne è la conferma, in quanto ben conosciamo le commistioni istituzionali fra quest'area politica e alcuni apparati dello Stato.

Il ruolo della destra

Potremmo affrontare questo argomento a partire da molti aspetti: il ruolo di Forza Italia, quello di Alleanza Nazionale, della componente cattolica, il rapporto fra destra e settori della Finanza e della Magistratura, ecc.

Quello che però ci interessa qui sviscerare è l'aspetto relativo alla politica populista e neo-conservatrice che il Polo gioca nei confronti di questioni come: la sicurezza, la microcriminalità, l'immigrazione, l'istruzione, il riconoscimento delle diversità all'interno della società.

All'inizio dei '90 la Lega è stata sul punto di interpretare le pulsioni reazionarie presenti in ampi settori popolari a fronte di un momentaneo abbandono della destra storica di un certo estremismo che aveva sicuramente caratterizzato il Movimento Sociale Italiano e che veniva immolato sull'altare della nascita di Alleanza Nazionale.

Sono gli anni in cui la Lega si avvicina al 20% dei voti, mentre si assiste al ritorno di episodi squadristici nei confronti di immigrati, barboni, tossicodipendenti.

In questa fase Forza Italia è impegnata a conquistare i settori medio-industriali e alcuni luoghi strategici del potere ed è quindi lontana dalla violenza verbale che la sta contraddistingue in quest'ultimo anno.

I deliri secessionisti di Bossi e la sua incapacità a trasformare la Lega in un partito nazionale, hanno introdotto ben presto la possibilità di farsi avanti e di recuperare consenso da parte del Polo e dei partiti che lo compongono. C'è stato un graduale ma inesorabile riappropriarsi di spazi, tramite i comitati spontanei dei cittadini, dentro le università, all'interno delle manifestazioni studentesche, che parte dal primo comizio a Bologna non disturbato da incidenti - dopo decenni - di Fini (inizio anni '90) fino all'episodio dei giorni scorsi dell'esponente romano di AN che si è dato fuoco per difendere le ville abusive dei "proletari" rampanti di La Storta.

A fronte di episodi "criminali" sicuramente importanti (omicidi dei gioiellieri a Milano), il 1999 esordisce all'insegna del problema "sicurezza" nelle metropoli, in cui il Polo gioca un ruolo di offensiva ad ampio raggio, anche aiutato dalla demenza politica dei DS che, nel tentativo di recuperare voti, fanno loro le parole della destra con evidente imbarazzo aumentando nei fatti il consenso alle proposte più forcaiole e reazionarie.

Esemplare è la vittoria di Guazzaloca a Bologna dopo l'inesorabile spostamento a destra delle politiche sociali dei DS.

Negli ultimi mesi la situazione si è ulteriormente degradata: Forza Italia ha lanciato, non senza successo, i Security Day e Fini si è abbandonato a dichiarazioni clamorose proponendo il ricovero coatto dei tossicodipendenti, i lavori forzati, il ritorno alla non leicità dell'uso di sostanze stupefacenti.

Sono tornati anche i comportamenti violenti: questa estate esponenti di AN hanno attaccato una festa omossessuale promossa dall'Arci-Gay senza farsi troppi problemi nell'usare le mani e a urlare frasi come "ricchioni di merda".

Nell'ambito della destra estrema assistiamo infine a un ritorno e a una riorganizzazione dei gruppi neo nazisti decimati dagli interventi della magistratura negli anni ottanta, fino a assistere alla ricostruzione del Movimento Politico Occidentale di Boccacci il 28 ottobre, già precedentemente dichiarato fuori legge sulla base di un provvedimento ad oc (legge Mancino). Inutile citare l'attività delle ben note Forza Nuova, Fronte Nazionale, ecc.

Se questa destra rischia seriamente di prendere il potere (alle prossime elezioni) non possiamo certo sottovalutarne i rischi e incominciare, quindi a mettere in atto una dura resistenza politica, culturale, militante di lunga durata.

Gli spazi che noi ormai riteniamo conquistati potrebbero chiudersi prima di quanto ci immaginiamo. Pensare che la sola resistenza "militare" possa essere utile (come lo fu per lo sgombero del Leoncavallo dell'89 in pieno CAF) sarebbe miope e criminale.

Ciò di cui abbiamo bisogno oggi è di aprire nuovi varchi, ricercare nuovi consensi all'interno della classe così come all'interno della società civile, ma senza rinunciare come hanno fatto veneti e Leoncavallo, alla proposizione di una critica radicale della società e al suo sgretolamento tramite elementi di contropotere.

Dobbiamo essere più radicali nella proposta politica che nei comportamenti, mentre troppe volte siamo il contrario a causa della nostra "generosità", non sempre accompagnata da un'analisi adeguata. Ciò non significa assolutamente eliminare né il conflitto, né i comportamenti radicali che ci sono propri da sempre, anzi, ma di saperli graduare e dosare a seconda della situazione tattica con le minori perdite possibili e i maggiori risultati politici possibili.

In questo scenario teoria e prassi non vanno intese come elementi distinti, ma come parti di un'unica contraddizione che trova linfa vitale in entrambi. Con la stessa capacità dobbiamo saper essere duri e radicali così come con capacità di mediazione.

Malgrado indubbi errori di valutazione e alcune clamorose cappelle, dalla vicenda di Edoardo in avanti, abbiamo saputo "usare" i mezzi di informazione dimostrando che alcuni spazi di "mediazione" esistono e in certi momenti ci salvano il culo…

Nei confronti della destra, per essere chiari, dobbiamo sapere coniugare capacità militare di autodifesa e di attacco con la capacità politica di costruire "fronti ampi" su battaglie specifiche come l'antiproibizionismo, la difesa degli immigrati, la battaglia contro le istituzioni totali, l'appoggio ai sacrosanti diritti di omossessuali e lesbiche.

E' per questo motivo che riteniamo importante la lotta per la liberalizzazione delle droghe espressa anche nell'iniziativa del coffee-shop, con tutto ciò che ha portato come conseguenze in termini di scontro politico.

Il problema della sicurezza

E' dall'emergenza S.Salvario, dall'epoca della costituzione di comitati spontanei di cittadini nelle maggiori metropoli del Nord, che il problema "sicurezza" attraversa come un coltello il dibattito fra destra e sinistra istituzionale. Arrivando a produrre l'ennesima sostanziale, e deprimente, omologazione. Ciò che oggi balbetta in merito la sinistra viene ripreso con più determinazione e fracasso dalla destra di Berlusconi, Fini, Casini e Cossiga.

Sia destra che sinistra rivendicano più polizia, più controlli, leggi più severe contro immigrati, ladruncoli, piccoli rapinatori, e financo tossicodipendenti e consumatori di exstasi.

Dalla persecuzione della vecchia classe politica corrotta (di cui solo il finanziere Cusani ha fatto da vero capro espiatorio, mentre il politico Craxi ha espiato le proprie colpe nel comodo esilio tunisino) si è ritornati al vecchi refrain delle città invivibili per la delinquenza prodotta - questa vola - da immigrati, tossicodipendenti e qualche balordo.

Ne sono nate prima le campagne contro gli spacciatori marocchini, poi contro le prostitute nigeriane, infine, contro l'agguerrita e super armata mafia albanese.

Un dato fra tanti. Le famose rapine "sanguinarie" di Milano che hanno riempito le pagine dei giornali per tutto il mese di gennaio del '99 sono state per lo più eseguite da cervelli e da manovalanze italiane.

Un altro elemento su cui riflettere: secondo i dati Istat rapine a mano armata, sequestri di persona sono in diminuzione dall'inizio degli anni novanta, mentre sono in levitazione furti su auto, in appartamento e scippi. Aumenta, persino, la propensione alle truffe. In altre parole questo significa che diminuisce il volume del crimine legato alla malavita organizzata (che sposta la propria attività su altri piani: narcotraffico, commercio di armi, riciclo del denaro sporco, contrabbando) e aumenta quello legato alla piccola delinquenza, alle piccole attività illecite spontanee.

Non è casuale che questo fenomeno sia cresciuto nell'ultimo decennio, proprio quando con più forza si è passati alla demolizione di buona parte dei meccanismi di protezione e sicurezza sociale (scala mobile, cassa integrazione, pensioni, sanità, edilizia pubblica) da una parte, e alla destrutturazione di tutte le garanzie e sicurezze sul fronte del rapporto di lavoro (precarizzazione), dall'altra. Non a caso, ancora, la rivendicazione della "sicurezza" cresce nelle metropoli dove più si intrecciano due fenomeni opposti, destinati a scatenare conflitti orizzontali di vaste proporzioni in assenza di politiche di protezione sociale, quello dell'invecchiamento della popolazione residente e quello dell'immigrazione.

Genova, Torino, Milano, Bologna sono la triste avanguardia di questo primato: laddove si è più patita la demolizione dello stato sociale, laddove sono venute meno delle politiche municipali di sostegno e soccorso all'invecchiamento e all'accoglienza dei migranti, si è creata intolleranza e conflitto autodistruttivi. Invece di rivendicare più sicurezza sociale si è invocata maggiore sicurezza pubblica, volendo demandare all'autorità di polizia la soluzione di contrasti legati alla convivenza di culture e stili di vita differenti (si pensi che il conflitto in S.Salvario è scoppiato da un problema di schiamazzi notturni).

L'incertezza per il presente e per il futuro (di benessere, di salute, di pensione, di reddito, di relazioni sociali) si traduce a livello di comportamenti collettivi in una sorta di "Grande Paura" per il diverso, l'estraneo, il portatore del nuovo. L'inno di D'Alema alla normalità è il canto ipocrita a quello che non c'è più e che il centro sinistra non è più in grado di garantire: una vita decente, tranquilla, che valga la pena di essere vissuta. A livello popolare, di massa, si invoca più polizia per difendere i brandelli di un passato di benessere (relativo) che piano piano le politiche neoliberiste "temperate" stanno togliendo.

Con la differenza rispetto al passato che con l'impoverimento generale (e relativo) non si creano più legami di solidarietà fra poveri cristi, bensì isolamento, diffidenza, ostilità e odio fra diversi; laddove la differenza non è ragione di virtuosa crescita collettiva quanto base di costruzione di splendide barriere di cemento ideologico e culturale.

Nelle nostre metropoli, nelle nostre periferie, ma anche nelle zone semicentrali, crescono le aree del disagio e del degrado, investendo completamente le fasce più popolari, materialmente e culturalmente meno attrezzate a far fronte a nuove ondate di pauperismo che Stato e padroni ci stanno riversando addosso. Negli anni novanta si è perso parte di quello che negli anni ottanta si era riusciti faticosamente a guadagnare. Parliamo di quello che ha significato per l'immigrato di ieri o l'operaio delle Ferriere in pensione il piccolo alloggio, la pensione decente, la piccola attività mercantile, la piccola rendita messa faticosamente da parte che oggi vengono minacciate da fisco, nuovo carovita, grande concorrenza, nuove politiche liberiste.

Il paradosso è che molte volte chi crea i guasti del degrado poi pensa di rimediarvi con l'istituzione di una sorta di Stato di Polizia (un esempio fra tutti: i governi di centro destra delle circoscrizioni torinesi sono i primi a richiedere più forza pubblica in situazioni in cui hanno proditoriamente disinvestito in iniziative ricreative, sportive, associative).

Basta parlare con un vecchio bottegaio di S.Salvario o con un vecchio pensionato di via Bligny per toccare con mano la "Grande Paura" del diverso, del nuovo, quale fonte di nuove e potenziali disgrazie: furto, degrado, sconvolgimento di una vita già sconvolta che non riesce più a trovare pace. Nel vecchio non c'è più voglia di cambiare, di sconvolgere tutto, c'è solo più ricerca di pace e tranquillità. E' un meccanismo biologico che però entra in conflitto con i meccanismi ipocriti della nostra società iperproduttivista, in continua ristrutturazione e mutamento, che non dà più spazio per la riflessione, la pausa, la meditazione (se non nelle forme usa e getta della New Age).

Rispetto al passato, a venti, trenta anni prima esiste un'altra differenza per quello che riguarda la nuova produzione di esclusione, marginalità, devianza, sofferenza. Una differenza che è però specifica della nostra società italiana, che è legata alle nostre tradizioni storiche culturali e materiali. A differenza dei paesi anglosassoni, qui da noi - come in Germania, in Francia e in tutto il bacino del Mediterraneo - i meccanismi di "esclusione" delle politiche cosiddette "neoliberiste" risultano molto più "temperate", tanto da produrre fenomeni di pauperismo e devianza ad esso correlata di carattere ben più massificato ma contenuto come intensità. In altri termini, grazie alle scelte di matrice catto-post-comunista, in Italia si toglie reddito, si scippano ricchezze, verso il basso in forma molto più egualitaria e universale che in Inghilterra, lasciando integri e inviolati i redditi della rendita e delle speculazioni finanziarie. In Italia i guasti del pauperismo neoliberista vengono scaricati sulle famiglie, lasciando sempre più ad esse la libera gestione di sofferenze che in modo crescente si manifestano in forma psicotica, deviante, a/normale.

Per questo l'Italia Normale di D'Alema è solo più un mito del passato, un mito d'epoca craxiana. Sempre più devianza, schizofrenia, comportamenti border-line, psicosi maniacali e depressive, si esprimono all'interno di quell'ipocrita normalità che è la socialità della produzione (lavoro), della famiglia, dei luoghi associativi (non lavoro). La devianza non può più essere esclusa perché è endemica alla nostra società, ai suoi luoghi di produzione e riproduzione e di socialità. Il "matto" è in noi, con noi, vicino a noi. Il "diverso" non è più emarginabile, non si può più chiudere in luoghi differenziati perché è del tutto interno al nostro agire quotidiano.

In tal senso le politiche di esclusione/reclusione invocate da destra e perseguite da sinistra sono destinate a infrangersi contro questa realtà sociale permeata di devianza e psicopatia in tutti i gradi della produzione e della socialità.

La "Grande Paura" vuole più sbirri per assicurarsi un futuro tranquillo quando ha a che fare con un presente che va in rovina e degrada. Non trovandone la causa si desidera l'ordine per rimettere le cose a posto, incasellare i comportamenti, ripulire il sociale, ripristinare un Paradiso Terrestre che non c'era e non c'è mai stato. Pensiamo solo al paradosso degli invecchiati abitanti di via Artom che vorrebbero cacciare gli zingari e gli immigrati perché sono portatori di disordine e delinquenza, in nome di una tranquillità perduta. E sono gli stessi che magari venti anni giravano per Mirafiori Sud armati fino ai denti…

Pensiamo ancora al senso e al significato della diffusione nella società dell'uso e abuso di psicofarmaci e sostanze psicotrope in tutti i settori sociali e a maggior ragione in quelli popolari: quale miglior cura per un corpo sociale ammalato se non quello di cancellare e negare i sintomi della sofferenza. Non sento più il dolore, dunque non sto male, dunque sono sano. E' forse questa l'Italia normale che vogliono restaurare?

E' dunque questa la terapia per una società che soffre ampiamente, cioè quella di negare dei sintomi patologici ormai diffusi? Magari internando il tossicodipendente "cronico", incarcerando il barbone o il povero immigrato, chiudendo le discoteche perché non si può ammettere che i propri figli soffrono del benessere o del vuoto di cui li hanno riempiti…

Ancora una volta sembra che la risposta a dei problemi complessi perché ampi e diffusi sia quello semplice e semplicista delle manette e del manganello.

Per noi la strada deve essere ancora un'altra. Una strada che dobbiamo percorrere da subito nella nostra pratica, senza aspettare un domani radioso, perché il domani è il nostro quotidiano, il nostro oggi. Pratica della tolleranza, della condivisione, della comprensione, del camminare insieme dubitando. Ma senza illusioni, perché questa è una strada obbligata, di autodifesa, di costruzione di barricate contro chi quotidianamente ci violenta, ci aggredisce, ci toglie spazi di libertà e di vita. E' la semplice verità che oggi si deve ricostruire la socialità, il rispetto reciproco, il senso collettivista e comunitario, per difendersi dal vento selvaggio del "neoliberismo".

Sicurezza e Giubileo

Gli affari sono affari. Ed è sempre meglio svolgerli nella più totale tranquillità. In prossimità del Giubileo le maggiori metropoli d'Italia andranno incontro alla normalizzazione, nel vacuo tentativo di azzerare i conflitti, annullando le contraddizioni sociali. Come? Con un po' di carote e un po' di bastoni.

A Roma si cerca l'accordo con i sindacati per annullare dal calendario qualsiasi idea di manifestazioni nazionali e di scioperi "strategici" nei trasporti e nei servizi, la giunta Rutelli stanzia 500 milioni per il recupero strutturale di alcuni centri sociali nel mentre cerca una soluzione dolce per lo "sgombero" del Villaggio Globale e l'occupazione abusiva di migliaia di alloggi.

A Milano è sempre più emergenza criminalità e immigrazione, si costituiscono coordinamenti e comitati per l'ordine pubblico fra le massime autorità competenti, mentre si cerca di circoscrivere al massimo il fenomeno delle occupazioni sociali (prossimo sgombero del Bulk?).

A Firenze l'emergenza Giubileo porta alla ristrutturazione della città, nuove vie, nuove vetrine, cercando di chiudere il CPA mettendo sotto processo parte del movimento antagonista toscano (con l'accusa di fiancheggiamento/partecipazione alle nuove BR).

A Bologna impera Guazzaloca e il suo nuovo assessore sull'ordine pubblico tutto di destra, tutto filo bottegai, sorrisi e manganello.

Mentre a Torino il Giubileo si intreccia agli affari per le Olimpiadi del 2006: la città è ormai un cantiere a cielo aperto, investita da nuove ondate di miliardi pubblici a favore del bel salotto degli Agnelli e della loro Valle (di Susa). La normalizzazione nella capitale subalpina si gioca sul controllo sempre più stretto sui migranti (restrizione nella concessione dei permessi, riduzione delle politiche di "accoglienza" agli stranieri) in un virtuoso coordinamento fra Comune e Questura. Mentre i centri sociali si cerca di normalizzarli o di contenerli.

In ogni città il problema della sicurezza viene accentuato dalla scadenza del Giubileo, mentre sempre più i poteri della polizia e dei carabinieri vengono de jure e de facto aumentati. Lo Stato di Polizia è ormai una concreta prospettiva, inaugurata - se vogliamo - con la legge sull'immigrazione prima, e oggi confermata con lo spazio che viene dato ai corpi repressivi nella gestione dei comportamenti di migliaia e migliaia di giovani nelle nostre discoteche in questi giorni.

Perquisizioni e sequestri di pasticche sono l'unica linea rimasta sul tappeto da parte governativa rispetto alle nuove droghe. Zittita e omologata la ministra Turco (ricondotta alla linea della fermezza) rimane solo più il bastone per governare la nuova Sodoma della drug and sex di fine millennio. Signori è questo il Giubileo dei cattolici: all'insegna delle rinnovate battaglie contro le nuove culture della droga, del sesso come piacere, del preservativo, dell'aborto, della new age. Siamo di fronte a una nuova ondata di intolleranza culturale, di ispirazione controriformista, che si cerca di organizzare con la celebrazione dei trionfi della chiesa bigotta del 2000. E allora se questa è la nuova frontiera, che sia guerra, guerra vera, totale, anticlericale, feroce e spietata!

Antiproibizionismo: che fare?

Dalla Conferenza di Napoli del '96 la battaglia antiproibizionista in Italia ha subito una clamorosa battuta d'arresto. In quell'anno sembrò possibile, per molti, cancellare pezzo dopo pezzo tutte le norme illiberali che vietano l'uso e la libera circolazione delle droghe leggere. Norme che tendevano - dalla Craxi-Jervolino-Vassalli in poi - a ritenere illecito anche solo l'uso di qualsiasi sostanza stupefacente.

Le mobilitazioni di quell'anno, di cui fummo in parte protagonisti, non sortirono grandi frutti. La piazza risultò più arretrata del dibattito intellettuale che allora si sviluppò sulle pagine dei giornali e sulle riviste alternative nate e promosse in quell'anno. Era (ed è ancora) in ballo una questione di civiltà prima di tutto, di rottura delle limitazioni delle libertà personali che derivavano dai retaggi di una cultura oscurantista e irrazionale, ma soprattutto dall'esigenza delle classi dominanti di far fronte all'emergenza di una nuova ondata di malesseri sociali con l'inasprimento della repressione, con la dittatura sui comportamenti e sui corpi, con la carcerizzazzione sociale. Dopo dieci anni dalla Jervolino-Vassalli sembrava che il clima fosse cambiato, che il vento tornasse a fischiare a favore delle bandiere antiproibizioniste e della lotta per una maggiore libertà. Tangentopoli aveva spazzato via i maggiori responsabili di quelle abominevoli norme sull'internamento forzato indiretto di tossicodipendenti e tossicomani (offrendo l'alternativa comunitaria al carcere). A quattro, cinque anni dal crollo del regime del CAF tutto sembrava più possibile.

Invece… Invece incontrammo forti resistenze, resistenze che provenivano da una lobby democristiana ancora viva e governante, malgrado fosse stata colpita duramente dalle sciabolate della magistratura e dell'elettorato. E oltre la lobby del centro moderato, esistevano le resistenze della curia vaticana, delle lobby affaristico-mafiose dei narco-trafficanti, delle grandi multinazionali del petrolio da sempre ostili alla legalizzazione della cannabis in qualità di ottima materia prima per la fabbricazione di tessuti e di fonte energetica alternativa. Mentalità arretrate e interessi economici mantenevano il loro forte intreccio, talmente forte da impedire qualsiasi istanza di cambiamento.

A fronte di ciò la mobilitazione fu scarsa, malgrado l'estrema e dilagante diffusione dell'uso della cannabis fra i giovani di tutte le classi sociali, malgrado l'esistenza di un opinione pubblica in qualche misura non ostile se non favorevole alla legalizzazione dei cannabinoidi (basta vedere i risultati elettorali di Verdi e Pannella quando hanno agitato il diritto allo spinello libero). La mobilitazione fu scarsa anche perché persisteva e persiste tutt'oggi nella nostra società una forte paura a dichiarare pubblicamente dei comportamenti "illegali", ad esprimere pubblicamente un atteggiamento di obiezione civica alle negazioni di una legge reputata ingiusta. Mentalità ipocrita controriformista di cui è pervasa la cultura nazionale del popolo italiano, da sempre sofferente dell'assenza di un vero spirito liberale di matrice protestante!

Allora dunque, subimmo una battuta d'arresto. Certo, ci furono alcune tiepide aperture, con la decriminalizzazione dell'uso personale della cannabis e la moderazione di alcune norme limitanti la libertà del tossicomane/tossicodipendente. Tutti atti, in realtà, già al di sotto degli obiettivi che la vittoria del referendum sull'abrogazione della Vassalli- Jervolino avrebbe innescato.

Oggi, a tre anni di distanza, assistiamo a una vera e propria restaurazione del pensiero proibizionista.

Fini - segretario del partito più "politico" del Polo - rompe la sua nota flemma e si lancia in dichiarazioni aberranti, quanto ascoltate, sull'internamento (ricovero) coatto per i tossicodipendenti, sull'obbligo di questi ai lavori forzati, oltre a riproporre l'illeicità dell'uso di qualsivoglia stupefacente.

Qualcuno potrebbe obiettare che tali dichiarazioni sono solo politiche, nel senso che corrispondono all'inizio della campagna elettorale delle amministrative della primavera del 2000, ma tutti gli avvenimenti che accompagnano le ultime vicende sull'extasy (dall'invasione dei carabinieri delle discoteche fino ai deliri di uno Stato che pretende di decidere come e fino a che ora uno si possa divertire) fanno capire che la questione va ben oltre la propaganda.

La contrapposizione tra destra e sinistra oggi non è più nelle istituzioni, ma nella società, dentro le scelte e il sentire sociale. In questo scontro tra ipotesi diverse noi ci siamo, anzi dobbiamo esserci perché in qualche modo abbiamo la possibilità di interpretare le istanze relegate alla "clandestinità" di decine di migliaia di consumatori consapevoli, inconsapevoli, di tossicodipendenti e persone in difficoltà.

Se la sinistra istituzionale oggi non ha il coraggio di uscire dall'ipocrisia che circonda la questione delle droghe, noi dobbiamo farlo; anche perché come sinistra extraistituzionale e rivoluzionaria in genere, non siamo certo immuni da mentalità moraliste, conservatrici, che dobbiamo abbandonare per sempre. Al di là, infatti, di ciò che riteniamo o meno giusto fare o consumare, dobbiamo rivendicare con chiarezza l'uscita dall'illegalità di qualunque sostanza, anche la più pericolosa, convincendoci definitivamente che ogni tentativo di eliminare o reprimere il "problema" è un'operazione metafisica, fascistoide e di controllo.

Il ben noto tormentone tra scegliere la "parola d'ordine" della liberalizzazione piuttosto che quella della legalizzazione si risolve semplicemente così: noi siamo per l'uscita dalla clandestinità, per una strategia di liberazione (e quindi di liberalizzazione), mentre tatticamente riteniamo che la legalizzazione sia comunque un passaggio (non nostro) che in qualche modo migliora la vita di milioni di individui. Esattamente come, nella stessa maniera, chiediamo tatticamente la depenalizzazione di alcuni reati, il miglioramento delle condizioni di lavoro o una migliore politica di accoglienza per gli immigrati, mentre strategicamente siamo per l'eliminazione delle istituzioni totali, la fine del rapporto di lavoro salariato, l'abbattimento degli stati e delle frontiere.

Non ci si deve quindi sentire "meno rivoluzionari" perché si fanno proposte di fase (tattica) ma anzi crediamo che sia ben più folle starsene chiusi nel proprio guscio rivendicando grandi idee di libertà lontano anni luce dalle contraddizioni sociali per salvaguardare la propria purezza o identità a discapito di innescare reali politiche di cambiamento. Importante è avere sempre chiara la strategia e quindi lavorare (anche tramite la tattica) per costruire interventi sul territorio in un'ottica di contropotere rivoluzionario.

Per chiudere - in via provvisoria - se è pur vero che l'antiproibizionismo oggi non può essere il centro del nostro fare politica, ne va comunque riconosciuto il carattere dirompente a livello culturale e politico sul quadro generale attuale.

 csoa Gabrio