La sofferenza degli immigrati |
In questo breve articolo vorrei trattare, anche se in modo sicuramente non esaustivo, i fattori sociali di rischio che caratterizzano la sofferenza degli immigrati. Articolo che prende forma da un'esperienza di osservazione etnografica da me svolta presso la Clinica Franz Fanon di Torino; Centro che si occupa della Salute mentale di immigrati, rifugiati e vittime della tortura. I tempi della malattia degli immigrati che arrivano quotidianamente al Centro si sviluppano in un itinerario che inizia per alcuni pazienti, prima ancora della migrazione. Per situare il tempo della malattia credo sia utile partire da un tempo storico. Non si deve dimenticare che parte di queste persone provengono da contesti già in parte fragilizzati dall'esperienza del colonialismo, che ha creato le condizioni di uno sfruttamento il cui peso é evidente negli attuali squilibri economici. Colonizzazione, quella di oggi, che si caratterizza da squilibri economici tra paesi "ricchi" e paesi "poveri", tra cittadini che detengono il potere decisionale e migranti che lo subiscono. L'esperienza della dominazione innesca ed amplifica conflitti e fratture che si ripercuotono, sull'esperienza degli individui, con effetti spesso paradossali: come ha scritto Frantz Fanon quando parlava del rapporto tra colonizzato e colonizzatore "fratture che si sviluppano per il fatto che il colonizzato per riuscire a liberarsi deve assumerne modi, linguaggi e strategie del colonizzatore". In modo diverso l'ha detto anche Rigoberta Manchù (Premio Nobel 1992 per la pace), quando nel suo libro autobiografico scriveva: "io ho dovuto imparare lo spagnolo e quindi ho usato la lingua degli oppressori, rinunciando alla mia lingua per poter dare spessore e fiato alle mie parole". (1) Molte persone che emigrano partono con un retaggio e con delle aspettative molto forti. Al Centro si può vedere come la malattia, la sofferenza, il disagio s'innesca anche a partire da tali aspettative. Prenderei spunto da quanto detto per ribadire l'importanza di non omologare in un'unica macro-categoria le diverse tipologie di immigrazione, spesso e volentieri dipinta e appiattita su una certa precarietà sociale, un basso livello culturale, insomma su una visione stereotipata. Al Fanon si vede bene come ve ne siano molte; si emigra per molti motivi diversi, a partire da motivazioni diverse, con storie personali diverse: ad esempio si emigra costretti da un regime totalitario, perché espulsi, per scappare. Il profugo non é lo stesso emigrato che cerca fortuna o che raggiunge la propria famiglia o ancora chi emigra sapendo che ha già un posto di lavoro. Si tratta di condizioni diverse, che accompagnano l'evento migratorio e che rientrano appieno poi nell'esperienza di vita della persona e nel determinare le possibili cause di disagio. Le aspettative di partenza si scontrano spesso con la difficile realtà del paese "ospite": diversi fattori influenzano una condizione di "razionalità limitata" che fa sì che manchi un'oggettiva informazione per prefigurare in modo realistico quello che si potrà incontrare. Analogamente a quanto accade in direzione contraria, l'immagine dell'Occidente (in generale) é filtrata da numerosi stereotipi, e questo per via di alcuni processi logici identificabili:
distorsione dell'informazione: si vede l'Occidente filtrato dai mezzi di comunicazione che mostrano in modo spettacolare una realtà falsata;
dissonanza cognitiva: coloro che ritornano non possono raccontare il vero, e questo é tanto più vero quanto più alti sono stati gli investimenti di partenza (psicologici ed economici);
generalizzazione delle informazioni: coloro che hanno realizzato il progetto migratorio influenzano in modo selettivo le rappresentazioni dei compaesani.
Chi torna, in molti casi, ha difficoltà a spiegare la realtà
delle condizioni del paese ospite: un eventuale fallimento sarà
attribuito a lui in quanto soggetto e non come condizione. Si crea, tra il paese d’origine e il paese ospite, un paradosso che crea le condizioni di una vera e propria "impossibilità di cittadinanza": il paese d'origine tende a "spingere" la persona verso il luogo di emigrazione, mentre il paese ospite, rifiutandone la presenza, attiva processi espulsivi che concorrono a mantenere il soggetto letteralmente "nel mezzo". Sono queste due forze che rispecchiano in modo tangibile le condizioni d'ingabbiamento dell'immigrato. La precarietà sociale é anche un problema di leggi, non tanto (o comunque non solo) un problema di fragilità degli immigrati. Secondo la moderna concezione dello stato, si é cittadini per diritto di nascita: dire "cittadino straniero" é ancora un ossimoro, una sorta di definizione paradossale. Non si ha la possibilità di diventare cittadino se si é stranieri, se non in qualche modo attraverso dei passaggi che sono resi sempre più difficili e che non di rado concorrono nell'amplificare condizioni di precarietà sociale (mancanza di una casa, di un lavoro, rischio di espulsione, ecc.) Si tratta a tutti gli effetti di fattori di rischio che in alcuni casi possono amplificare condizioni o problemi che precedono la partenza. Il caso di Rachid citato presenta evidentemente tale carattere. Rachid é un ragazzo di vent'anni proveniente da una zona interna,
rurale e molto legata alla tradizione, del Marocco. Inviato dall'ISI (lo sportello sanitario per gli immigrati che non sono iscritti al Servizio Sanitario Nazionale), Rachid si presenta al Centro chiedendo esplicitamente delle medicine per ritrovare il coraggio di ripartire. Ci si rende conto da questo breve racconto come Rachid non solo esprima sofferenza, malattia e altre referenze culturali, ma anche comportamenti, atteggiamenti, relazioni sociali, disfunzionali. Un rapporto che si trasforma, come nel caso di molti immigrati, in malattia, in disagio, in una sorta di "ingabbiamento" innescato, anche, dalla condizione di straniero, in particolare clandestino, a cui non viene riconosciuta e concessa una possibilità di soggiorno regolare, e quindi di lavoro. walter
(1) Burgos E., Mi chiamo Rigoberta Menchù, Milano, Giunti, 1987. |
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