Politica internazionale                                                  Pagina 9


Cile: quale democrazia?
Testimonianza di un prigioniero politico cileno

Le conseguenze della sottomissione alla destra e al suo potere militare si concretizzano nell'impero di uno Stato di polizia, che tortura e assassina nelle caserme; che continua e perfeziona la repressione contro i movimenti sociali; che depreda le risorse naturali e non esita a sgomberare i popoli originari dalle loro terre ancestrali, incarcerandoli per soddisfare le esigenze delle imprese multinazionali; che perpetra sfruttamento, disprezzo assoluto e spudorato verso le necessità di coloro che ogni giorno producono ricchezza a costo delle proprie vite.

A quasi dieci anni dall'inizio della "transizione alla democrazia" in Cile, risulta chiaro, una volta di più, che l'unico cambiamento avvenuto è stato quello del passaggio da una dittatura sanguinaria a una dittatura perfetta e ringiovanita, chiamata "democrazia degli accordi".

Un paese e una "democrazia" in cui il potere esecutivo è portavoce del mondo imprenditoriale e della Banca Mondiale. Un paese nel quale il potere legislativo crea e detta leggi per una minoranza privilegiata. Il potere giudiziario protegge e si protegge, dietro una legge di amnistia per i torturatori e gli assassini, per cui un migliaio di membri delle Forze Armate, individuati come responsabili delle violazioni dei Diritti Umani, continuano a restare impuniti. Una "democrazia" in cui esiste un carcere di lusso per meno di 20 persone nonostante gli oltre 3 mila assassinii: lo "Stato di diritto" è una oscena realtà virtuale.

In questo paese virtuale, discorsivo e postmoderno si chiede oggi umanità.

Quell' umanità che non si chiese in passato per impedire la tortura e la morte di tremilacentonovantatre persone indicate nel rapporto Rettig, si chiede oggi per Pinochet. Al di là della personificazione della figura del "senatore a vita", l'umanità che si invoca e i gesti che esigono Frei e il suo governo cercano di garantire la stabilità e la continuità di un sistema che si è imposto sui corpi e sui sogni di un popolo, che ha pagato con il suo sangue il successo di una classe che ha nel dittatore il suo emblema.

L'argomentazione ricercata e opportunista del governo cileno non finisce negli inverosimili appelli all'umanismo, né dietro la mancata arguzia di far passare il

dittatore come inviato diplomatico e, quindi, creditore di immunità. Il governo concertazionista ha invocato ragioni di Stato per impedire che Pinochet fosse sottoposto a giudizio, richiamandosi tanto alla peculiarità della transizione cilena quanto alla sovranità nazionale, passando di conseguenza sopra i trattati inter-nazionali sulla repressione dei crimini contro l'umanità indicati dal Tribunale di Norimberga, nelle quattro Convenzioni di Ginevra del 1949, nella Convenzione contro la Tortura del 1984 e nel Patto di New York del 1966, oltre che nella Dichiarazione delle Nazioni Unite del 1992 sulla sparizione forzata di persone.

In questo quadro giuridico internazionale, ricorrere alla sovranità nazionale per impedire l'esercizio della giustizia rispetto ai crimini contro l'umanità è un errore politico madornale, il cui costo lo pagherà l'immagine internazionale del governo, malgrado il maquillage dei suoi tecnocrati della comunicazione.

Al di là di quello che sarà il destino finale del dittatore, si è posto fine a una carnevalata che nascondeva agli occhi del mondo la reale situazione di questo paese, dietro il discorso trionfalista e fallace del governo della "Concertazione". Quello stesso governo che mantiene nelle sue carceri un centinaio di prigionieri politici, uomini e donne, condannati a decine di anni e, in alcuni casi, ad un secolo di galera. Processi interminabili, senza diritto a libertà provvisoria, senza adeguata difesa giuridica, con regimi di isolamento e di estrema durezza per i detenuti e per i loro familiari, senza diritto a cure mediche adeguate in casi di estrema gravità come quelli di Marcela Rodríguez e María Cristina San Juan.

Per loro non c'è umanità!

Nemmeno c'è umanità per un popolo che lotta per i suoi legittimi diritti e sovranità. In questo paese e in questa "democrazia", la sovranità e l'umanità sono destinate a servire gli interessi del potere.

La fantasia della transizione, l'impunità, il mantenimento intenzionale di uno stato di paranoia permanente, lo sfruttamento, l'esclusione e la marginalità, fanno della lotta per conquistare i diritti economici e sociali un' utopia proscritta agli occhi del potere, che punta alla disgregazione e all'isolamento dei soggetti sociali.

Il governo aspira a una mediazione che stabilizzi il patto sociale, che riconduca sotto il suo completo controllo il malcontento e la delusione maggioritari. La sua scommessa politica, tuttavia, non aspira a risolvere né la crisi economica né quella politica, cosa che gli implicherebbe il mettersi in discussione nella sua genesi e nelle sue prospettive. Al contrario, la risoluzione tattica del periodo cerca di intervenire nella ricomposizione politica del tessuto sociale che si riconosce e si identifica nel ripudio del popolo per l'impunità. Nel campo popolare e nei settori progressisti si avverte la ricostruzione simbolica di una identità di carattere progettuale che da i suoi primi segnali.

Questo spazio, che trascende il politico, costituisce la riserva morale, atto e condizione di futuro pienamente articolato con una memoria storica, attuale e potenzialmente costruttiva.

Il governo non disconosce l'urgente necessità di risolvere la doppia crisi strutturale della sua gestione e alterna la cooperazione con la repressione degli attori sociali e politici. La moralità farisaica del governo democristiano mantiene le Carceri di Massima Sicurezza come espressione simbolica del suo controllo e della sua egemonia. L'obbiettivo, al di là di punire concre-tamente gli insorti, è di dare un segnale dimostrativo della sua dispotica concezione della modernità.

Dopo dieci anni di carcere politico in "democrazia" e cinque di Carcere di Massima Sicurezza, un centinaio di prigionieri politici in Cile, in condizioni di punizione ed isolamento estremi, si oppongono radicalmente all' "umanitarismo" ufficiale offerto a chi ha compiuto genocidi.

In questo quadro, l'esigenza della LIBERTA' SENZA CONDIZIONI PER TUTTE LE PRIGIONIERE E I PRIGIONIERI POLITICI IN CILE è di piena giustizia storica e morale.

Pedro Rosas Aravena
CARCERE DI MASSIMA SICUREZZA
SANTIAGO DEL CILE, Novembre 1998