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25 agosto, carcere di Rebibbia, Roma.

Silvia Baraldini entra in Italia dopo più di 17 anni di carcere negli Stati Uniti, dopo 10 anni di richieste e lotte per il reimpatrio della stessa (non si chiedeva altro che l'applicazione del trattato di Strasburgo che prevede che ogni prigioniero politico ritorni al proprio paese a scontare la pena, trattato firmato sia dagli USA che dall'Italia).
Poche centinaia di persone l'attendevano sotto il carcere di Rebibbia per darle un caloroso benvenuto.

Ma quella di oggi non sembra essere una vittoria. Uno strano, amaro retrogusto di sconfitta è rimasto. Infatti dopo il gaudio gusto di quella stupenda carota, arriva tosto una sferzata sulla schiena, che va ad aggiungersi alle innumerevoli subite in passato.

La schiena colpita é ancora una volta quella della giustizia, non una giustizia istituzionale bensì quella che reca con sé l'uguaglianza fra gli esseri umani e che impedisce che qualcuno domini sadicamente sopra gli altri. Silvia è dunque tornata in Italia ma qual'è stato il duro prezzo pagato (da lei e da altri) per ottenerlo?

Gli Stati Uniti hanno posto condizioni inaccettabili: Silvia deve rimanere in carcere fino al 2008 con condizioni pari a quelle delle carceri statunitensi con recinzione perimetrale da cui non le venga permesso di muoversi, i permessi di rilascio per brevi periodi per motivi di lavoro, festività e   qualsiasi licenza sono soppressi, inoltre i funzionari degli Stati Uniti devono avere la possibilità di controllare che la Baraldini venga incarcerata secondo il loro regolamento. Se l'Italia venisse meno agli accordi stabiliti, sono autorizzati a riportarla indietro.

Ma c'é dell'altro, è chiaro che il suo rimpatrio è stato una mossa politica a unico scopo elettorale da parte del partito comunista italiano e in risposta i mass-media dell'opposizione hanno vomitato menzogne su Silvia, condannandola non solo giuridicamente ma pure sul piano popolare di opinione pubblica.

Titoli come: "La terrorista Baraldini torna in Italia" denotano l'ignoranza di chi scrive e di chi pubblica certi articoli.

Silvia Baraldini non ha mai commesso i reati che le sono stati addossati, è stata condannata con l'uso di falsi testimoni, con l'applicazione di una legge antimafia (?) e senza avere prove a carico. Il fatto che non abbia rinnegato le proprie idee (com'era stato proposto dal tribunale) ha fatto in modo che venisse condannata a ben 43 anni di carcere da scontare nei peggiori lager degli Stati Uniti, un periodo di 16 mesi di deprivazione sensoria senza luce solare, privazione del sonno, isolazione completa e altre torture per portare avanti un esperimento usando come cavie esseri umani.
E' stata accusata di una rapina a mano armata, di aver provocato l'evasione di una   rivoluzionaria afroamericana che si batteva per i diritti dei neri. Ma Silvia non è colpevole di quanto è stata accusata, l'unico motivo reale della pena sono le sue idee. Ma ora é in Italia dicono alcuni, e in Italia resta. Ma pure in carcere! E una prigione resta una prigione, sia essa americana o europea, e la giustizia non esiste nelle aule di tribunale e neppure nelle macchinazioni governative atte a
mantenere saldo il potere. O sei con loro o sei finito, con lo stesso copione usato per Silvia Baraldini (accuse false, con falsi testimoni e senza prove a carico) negli Stati Uniti sono imprigionate molte persone che risultano scomode: attivisti per i diritti degli afroamericani, militanti dei movimenti per i diritti dei nativi o chiunque si batta per i diritti di chi non ne ha, in questo grande paese della libertà dove le minoranze etniche vengono inesorabilmente calpestate e l'unico diritto che hanno è quello di soffrire in silenzio.
Chi tra loro alza la voce e chi si schiera al loro fianco viene o ucciso o imprigionato. Chiediamo quindi giustizia, che Silvia venga riprocessata perché sappiamo che fino a quando lei sarà in prigione l'imperialismo sfrenato avrà una volta in più ottenuto vittoria. Ma non è una sola la grande porta da abbattere. Non avremo pace fino a che qualcuno debba essere imprigionato, torturato, o ucciso perché la pensava diversamente.

Han Solo