Viaggio in Palestina, Agosto 2003
 
di Fedora e Monica


[qui alcune foto del viaggio]



I motivi del viaggio

* il gemellaggio in corso tra l’Amministrazione della nostra città (Pesaro) e quella di Rafah (ultima città a sud della Striscia).
Da due anni come partecipanti al Pesaro Social Forum e attivisti del Centro Sociale Oltrefrontiera, stiamo cercando da un lato di sollecitare questo gemellaggio per il momento solo formale, dall’altro di creare rapporti con la società civile di Rafah per far sì che il gemellaggio coinvolga le due comunità prima che le due Amministrazioni. 

* il rapporto con Palestinian Medical Relief Committee, la più grande ONG medica palestinese che ha due sedi principali: una a Gaza City per l’assistenza a tutta la popolazione della Striscia e una a Ramallah per l’assistenza nel West Bank.
Abbiamo conosciuto il dottor Abdelhadi Abu Khousa, presidente del PMRC per la Striscia di Gaza lo scorso anno e abbiano deciso di finanziare il loro progetto di cliniche mobili per 15 giorni (circa 5.000 Euro) a sud della Striscia.

* la realizzazione di una mappatura delle associazioni e dei gruppi presenti nella città di Rafah. La scelta di tali associazioni è stata fatta con l’aiuto di due ragazzi, Giulia e Fabio, che hanno trascorso nell’area di Rafah diversi mesi.
A Rafah un contributo fondamentale per il raggiungimento dell’obiettivo ci è stato dato dall’International Solidarity Movement (ISM), movimento di cui fa parte anche Giulia.

Cos’e' l’International Solidarity Movement?

L’International Solidarity Movement è un’organizzazione nata circa 3 anni fa, composta da volontari palestinesi, israeliani ed internazionali. 
Utilizza metodi non violenti e ha come obiettivi l’interposizione pacifica, la difesa dei civili palestinesi e più in generale la difesa contro l’occupazione israeliani nei territori. 
Tra le fondatrici ricordiamo Neta Golan, israeliana, da tempo schierata a fianco della causa palestinese, Huwaida Arraf, americana, più volte arrestata dai militari israeliani e Coimbra Butterfly, irlandese, ferita, arrestata ed espulsa dagli israeliani, oggi volontaria in Iraq.
L’ISM svolge il proprio lavoro organizzando campagne tematiche (quella per la raccolta delle olive, per la libertà di movimento, ecc), precedute da training per i volontari, i quali vengono organizzati per gruppi di affinità. 
Oggi l’ISM ha gruppi locali in diverse parti del mondo, Stati Uniti, Inghilterra, Canada e associazioni partner in altre nazioni.



. . . Diario di bordo. . .

Striscia di Gaza

Nella Striscia di Gaza abbiamo visitato associazioni a Gaza City e a Rafah.
Siamo poi andati a Khan Younis, dove abbiamo incontrato il Governatore e in due villaggi che beneficiano del progetto-cliniche mobili anche da noi finanziato.
Arriviamo a Rafah dopo sette ore di attesa al valico di Erez, la frontiera tra Israele e la Striscia di Gaza dopo che i soldati israeliani ci ripetono per ben due volte che di lì non si passa e ogni volta consegnandoci pure un “foglio di via“, dopo che i fax del consolato inviati a Captain Levi (il capitano che non si fa vedere, con il quale è impossibile parlare anche per telefono), dopo aver spiegato loro che noi, comunque, non ce ne andiamo, alla fine, in seguito ad una trattativa estenuante e ridicola, se non fosse per il fatto che ci troviamo in una zona di guerra, ci consentono di entrare e rimanere meno giorni di quelli da noi previsti (comunque intanto siamo entrati). 
Alla frontiera salutiamo ragazze e ragazzi di associazioni e Ong (anche di importanza rilevante) che abbiamo conosciuto durante le sette ore d’attesa. 
Non sapremo mai se avranno il permesso per entrare nella Striscia di Gaza. 
A qualcuno è stato chiesto di farsi interrogare dai militari, singolarmente, nel loro ufficio, ad altri sono stati presi per ore i passaporti e quando ce ne andiamo non sono stati loro ancora restituiti. 
Arriviamo a Rafah dopo aver visto il disastro delle case distrutte e dei campi e frutteti divelti a Beit Hanun, dove le famiglie ora vivono in alcune tende montate davanti a quello che resta delle loro abitazioni. 
Lì riabbracciamo Abdelhadi Abu Kousa, il Presidente del Palestinian Medical Relief per la Striscia di Gaza, che ci informa di tutto ciò che è accaduto dall’ultima nostra visita nella Striscia e nei Territori Occupati.
Dopo 8 mesi siamo di nuovo a Rafah!

Rafah

Rafah si trova a sud della Striscia di Gaza ed è definita “la prigione nella prigione”, se infatti per i Palestinesi è impossibile entrare ed uscire dalla Striscia di Gaza, per gli abitanti di Rafah è altrettanto difficile uscire dalla propria città e circolare all’interno dell’area di Rafah city.
Il distretto di Rafah confina a occidente con il Mar Mediterraneo, in teoria è quindi una città sul mare. 
In realtà gli abitanti di Rafah il mare lo possono solo immaginare perché è proibito loro l’accesso alla spiaggia perchè 
nei pressi della spiaggia sorge l’insediamento israeliano di Gush Katif (il più grande all’interno della Striscia di Gaza) di 4.400 coloni che spesso utilizzano queste case solo in estate, per le vacanze.
Circa 130.000 abitanti palestinesi sono invece costretti a vivere in una superficie di appena 60 kmq . 
Nella parte settentrionale il distretto di Rafah confina con la città di Khan Younis, anche qui però la continuità territoriale è compromessa dalla presenza di numerosi insediamenti di coloni e dell’esercito israeliano che impone la sua presenza con l’arroganza e l’arbitrio dei check-point, delle zone di sicurezza, delle torrette militari.
Ad oriente Rafah confina con la Linea Verde (confine con Israele -1967) mentre nella parte meridionale, con l’Egitto.
Qui fasce intere di case sono state distrutte per creare “zone cuscinetto” tra le posizioni militari israeliane e le aree palestinesi. Sempre per tale ragione è stato eretto un muro, alto 8 metri che continua per 4 metri nel sottosuolo, lungo tutto il confine. 
E’quindi facilmente immaginabile che è questa zona che conta il maggior numero di case distrutte.
Le abitazioni distrutte a Rafah dall’inizio della II Intifada sono in tutto 938, il numero di famiglie rimaste senza casa è di 1.181, per un totale di 6.894 senzatetto. 
Le case parzialmente distrutte sono invece 428.
E’ in questa zona, nei quartieri di Block “O”, Block “J”, “Brazil”, “Al Deir Salam” dove vivono i profughi palestinesi del 1948 (a Rafah i profughi costituiscono l’83% della popolazione), che quotidianamente gli abitanti sono costretti a sopportare il terrore delle raffiche notturne, delle demolizioni di case, delle irruzioni dei carri armati e delle ruspe che distruggono, devastano, uccidono.
Passiamo tra le case una addossata all’altra dei campi profughi e vediamo le barriere create dagli abitanti. 
Barriere fatte di calcinacci, bidoni, lamiere, barriere di nulla che nulla possono contro i carri armati quando i militari decidono di entrare per le piccole strade di questi quartieri, dove la densità di popolazione è altissima.
Ci arrampichiamo tra i resti dell’ultima fascia di case distrutte, al di là, tra le case e il muro, 50m. controllati dal passaggio continuo e opprimente di un carro armato e di altri mezzi militari. 
Alcuni abitanti, seduti sui gradini delle loro case che portano i segni delle raffiche, osservano un po’ preoccupati lo spostamento della sabbia e commentano i rumori che provengono dalle barriere:controllano gli spostamenti del carro armato. Poi ci dicono che è pericoloso vivere in questa zona, imprecando più volte contro Sharon, Bush e Blair. 
Ci raccontano che proprio ieri notte una casa è stata distrutta, una grande casa in cui vivevano più famiglie e ci accompagnano a vederla. 
La casa è stata sventrata dalle ruspe “Caterpillar” e completamente riempita di sabbia.
Ci dicono di non avvicinarci troppo perché i militari dalla torretta situata sul muro potrebbero “arrabbiarsi” e sparare a noi o alla popolazione.
Nel frattempo, ci accorgiamo di essere circondati da bambini che ci chiedono in continuazione “uocciorneim?”, “auduiudu?”. Facciamo qualche  ripresa veloce e  ce ne andiamo perchèabbiamo paura per i bambini che sembrano essere “abituati” alla situazione e fin troppo temerari.
E’ qui che a Marzo e ad Aprile sono stati uccisi dai militari israeliani gli attivisti internazionali dell’International Solidarity Movement (ISM) Rachel Corrie (23 anni) e Tom Hurndall (21 anni) , mentre cercavano di difendere la popolazione dalla demolizione di case e dagli spari dei cecchini dalle torrette posizionate lungo il muro.
Dall’inizio della seconda Intifada, a Rafah, sono 238 i Palestinesi uccisi dall’esercito d’occupazione israeliano, di cui il 90% appartenevano alla popolazione civile. 
Tra questi si contano 52 bambini sotto i 12 anni. 
2.350 i feriti di cui circa il 10% resterà invalido a vita.
Lasciamo i quartieri a ridosso del muro e ci dirigiamo nel centro di Rafah dove abbiamo appuntamento con le ragazze e i ragazzi di ISM ai quali avevamo chiesto di organizzarci degli incontri con alcune associazioni della città, perchè è nostra intenzione fare una “mappatura” dei gruppi presenti.
Una di loro, Molly, l’avevamo conosciuta a Dicembre quando avevamo partecipato ad un’azione d’interposizione al check-point di Al-Mawasi, un villaggio vicino a Rafah.
Al Mawasi è una zona agricola altamente fertile, nella parte meridionale della costa tra Khan Younis e Rafah. 
Vi vivono 12.000 persone, per la maggior parte agricoltori e pescatori, che “de facto” sono sotto un sistema di aparthaid, al limite estremo di un insediamento israeliano. Il villaggio è completamente chiuso ad eccezione di due checkpoint attraverso i quali solo i residenti dell’area hanno accesso. Ambulanze e parenti degli abitanti non possono entrare perchè cinte elettriche e pattuglie militari separano gli insediamenti israeliani dalle comunità palestinesi. La terra che apparteneva agli agricoltori locali è stata sequestrata per consentirne l’uso ai coloni, i quali attaccano occasionalmente e molestano i residenti palestinesi o distruggono le loro serre e i loro campi.
All’interno del villaggio quattro checkpoint israeliani regolano i movimenti della popolazione.
Da Marzo 2002 l’esercito israeliano ha inasprito le misure per Al Mawasi, inclusi regolari imposizioni di coprifuochi.
Nel Maggio 2002 sono state emesse carte d’identità magnetiche ai residenti, le quali sono richieste per l’entrata e l’uscita dall’area.
Molly ci spiega che in questo momento è troppo difficile fare interposizione a Rafah, perchè Rafah è diversa dalle altre città sotto occupazione infatti qui  un attivista non è considerato “arrestable or not arrestable” ma “shootable or not shootable”. 
Sono in 6 e stanno lavorando “per e con” la comunità della città: partecipano alle attività delle associazioni locali, organizzano corsi d’inglese gratuiti e la notte dormono nelle case a rischio demolizione, sperando che la loro presenza serva a dissuadere i militari israeliani. La loro presenza è importante e ce ne accorgiamo subito anche dai rapporti che hanno saputo instaurare con le/i Palestinesi, dai commenti che queste/i fanno, da come li salutano per strada. 
M. è un ragazzo palestinese di circa 20 anni, anche lui di ISM. 
Sarà lui il nostro traduttore dall’inglese all’arabo. 
Ci accompagna a conoscere il GUPW (General Union of Palestinian Women), il Palestinian Children’s Parliament, un centro d’aggregazione giovanile dell’ Union Health Work Committees che porta il nome di Rachel Corrie e un asilo, finanziato da un ONG canadese, che sorgerà a poca distanza da dove Rachel è stata uccisa, anche questo in suo ricordo.
Tutte le organizzazioni ci raccontano, anche se da punti di vista diversi, l’orrore della violenza che la popolazione palestinese è costretta a subire in generale e soprattutto qui a Rafah, di come sia intollerabile l’occupazione israeliana, dell’insopportabile silenzio dei media internazionali.
Ci dicono di come la stessa economia palestinese sia strangolata dagli accordi presi in precedenza che impongono alla popolazione di acquistare quasi tutti i prodotti direttamente dagli Israeliani e di come sia impossibile far arrivare merci da altri Paesi perchè queste sarebbero, nella maggior parte dei casi, requisite alle frontiere e ai checkpoint.
Da un precedente incontro con il coordinatore del Centro dei diritti Umani “Al Mezan” di Gaza City già sappiamo che il distretto di Rafah, come tutti gli altri territori occupati da Israele, soffre di gravissime difficoltà economiche.
Che in condizioni “normali” Rafah contava il 51% della popolazione al di sotto della soglia di povertà, e che oggi questa percentuale è salita all’80%.
Inoltre in questo distretto l’esercito di occupazione israeliano ha distrutto e danneggiato terreni agricoli per 2.080 donums (1 donum = 1.000 mq.), alberi (ulivi e aranci in particolare), reti idriche, bacini e pozzi d’irrigazione, 213 serre, 12 depositi, 7 fattorie, 154 attività commerciali e piccole fabbriche.
Ma tutte le organizzazioni affermano anche la volontà del popolo palestinese di non essere schiacciato da quest’oppressione, di organizzare forme di resistenza popolare, di cominciare a pensare a come potrebbe essere uno stato palestinese democratico, dopo la disillusione della popolazione nei confronti dell’Anp.
Tutti ci raccontano di come si era impegnata nei tre mesi che aveva deciso di vivere e condividere con gli abitanti di Rafah, parlano della sua forza, della sua determinazione, della sua dolcezza, dell’esempio che questa ragazza venuta da un ‘altra parte del mondo ha rappresentato e rappresenta per loro. 

Cisgiordania

Siamo stati nella città di Nablus (dichiarata Patrimonio dell’Umanità, oggi in parte distrutta inseguito all’invasione dell’esercito d’occupazione israeliano avvenuta circa un anno fa) e a Ramallah.

Nablus

Dopo il ritorno obbligato abbiamo pensato di utilizzare comunque in maniera proficua il tempo rimasto a nostra disposizione così ci siamo messi in contatto con Neta Golan per andare a vedere la situazione in cui sono costretti a vivere i Palestinesi nella città di Nablus, città dove Neta vive con suo marito e la piccola Nowal di quattro mesi.
Dopo aver affrontato un viaggio di tre ore e mezzo lungo strade strette, sterrate, tra buche ed ulivi, siamo arrivati al checkpoint di Nablus. 
Consigliati da Neta non siamo passati per il checkpoint di “Awara” (quello per le persone), ma da quello di “Awarta” (quello per le merci). 
Ancora una volta ci siamo resi conto dell’arbitrio e dell’assurdità che sono insiti in questo sistema d’occupazione. 
Non saremmo mai riusciti a superare il primo checkpoint (servono lettere di presentazione di grosse Ong, dei consolati, ecc). 
Ma nel checkpoint per le merci, di fronte ai soldati che ci dicono che in quel checkpoint è consentito l’ingresso solo per le merci, ce la caviamo con uno “Scusate, non lo sapevamo. Non lo facciamo più!”.
Neta ci aspettava con Nowal al campo profughi di Balata, dove stava tenendo un training per gli ultimi attivisti internazionali arrivati. 
Con O. abbiamo visitato il campo. 
Ci ha spiegato di come Nablus sia praticamente circondata da insediamenti di coloni e militari, che dall’alto delle colline circostanti, sparano sul campo e sulla città. 
Ci ha portato a visitare una famiglia alla quale pochi giorni prima i soldati avevano fatto esplodere la casa. 
Il motivo è che la famiglia è quella di un ragazzo che tre mesi prima aveva partecipato ad un’azione contro l’esercito di occupazione. Durante quell’azione era stato ucciso. 
Al lutto familiare si aggiunge ora la disperazione della perdita di una casa in cui vivevano 15 persone. 
Siamo saliti fino a ciò che rimaneva dell’ultimo piano, un piano che era ancora da ultimare.
A terra tra polvere, calcinacci, vetri, ci sono vestiti, scarpe, giocattoli, e le mani delle persone che cercano tra le macerie ciò che può essere recuperato...
La madre del “martire” non piange, ma ci urla la sua rabbia in faccia, imprecando in lingua araba contro i nemici di sempre: Sharon, Bush e Blair.
Neta ci ha ospitati a casa sua, ci ha parlato dell’attuale, difficile situazione dell’Ism, dopo le morti di Rachel e Tom. 
Durante la notte trascorsa a casa sua, Neta, ad un certo punto, ha ricevuto una telefonata: erano gli attivisti che stavano a Balata. Le comunicavano che era stata fatta saltare un’altra casa.
Nella casa erano rimasti a dormire 5 volontari per evitare l’intervento dei soldati israeliani. 
Due di loro (di circa 20 anni) si erano incatenati, ma i soldati hanno tagliato le catene, li hanno bendati, arrestati ed espulsi.

Il giorno seguente abbiamo visitato due centri del Medical Relief: un ambulatorio e un centro d’aggregazione giovanile. 
Tre ragazzi del centro si sono offerti di accompagnarci per la città vecchia di Nablus, patrimonio dell’Umanità. 
Ci hanno mostrato il luogo in cui edifici di importanza storica sono stati fatti esplodere per consentire l’ingresso dei carri armati nelle strette vie della città vecchia. 
Ci hanno accompagnato anche a visitare un’antica moschea, in parte distrutta e profanata dalla presenza dei militari israeliani. 
Tutto ciò è accaduto durante l’occupazione della città vecchia, avvenuta un anno fa. 

La sera ritorniamo in taxi a Gerusalemme: questa percorriamo la strada asfaltata ad uso esclusivo dei coloni e ci impieghiamo solo 40 minuti!

Ramallah

La nostra ultima visita è al Medical Relief di Ramallah.
Abbiamo lasciato Gerusalemme e siamo arrivati al checkpoint di Qalandia, uno dei punti di controllo più importanti. 
Qui numerosi studenti e lavoratori sono costretti a mostrare i propri documenti ai soldati israeliani. Dal Medical Relief di Ramallah siamo partiti in taxi con 2 medici e un’infermiera per arrivare a Safah: è un villaggio di 3000 abitanti a un’ora dalla città, al quale si accede attraverso una strada sterrata, dalla quale si vedono gli insediamenti dei coloni. 
I medici del Medical Relief si recano nel villaggio una volta al mese e qui presso un centro di aggregazione giovanile, ancora in costruzione, visitano gratuitamente tra le 100 e le 200 persone e distribuiscono loro gratuitamente le medicine di cui hanno bisogno. 
E’ un servizio vitale per gli abitanti di Safah e dei villaggi vicini, che altrimenti non potrebbero permettersi le visite dai medici privati e l’acquisto delle medicine. 
Abbiamo visto il tipo di lavoro svolto dall’associazione dei medici e abbiamo conosciuto diverse persone del villaggio, le quali ci hanno spiegato come la loro situazione sia peggiorata dopo l’occupazione. 
In seguito ci hanno mostrato i loro campi che sono a pochi metri dal centro dove si svolgono le visite: una rete, però, impedisce loro l’accesso ai campi che sono stati occupati dall’esercito e ci hanno detto che ad ottobre non potranno raccogliere le olive dai propri campi.