I motivi del viaggio
*
il gemellaggio in corso tra
l’Amministrazione della nostra città (Pesaro) e quella di Rafah
(ultima
città a sud della Striscia).
Da
due anni come partecipanti al Pesaro Social Forum e attivisti del
Centro Sociale Oltrefrontiera, stiamo cercando da un lato di
sollecitare questo gemellaggio per il momento solo formale, dall’altro
di creare rapporti con la società civile di Rafah per far
sì che il
gemellaggio coinvolga le due comunità prima che le due
Amministrazioni.
* il rapporto con Palestinian Medical Relief Committee, la più
grande ONG medica palestinese che ha due sedi principali: una a Gaza
City per l’assistenza a tutta la popolazione della Striscia e una a
Ramallah per l’assistenza nel West Bank.
Abbiamo
conosciuto il dottor Abdelhadi Abu Khousa, presidente del PMRC
per la Striscia di Gaza lo scorso anno e abbiano deciso di finanziare
il loro progetto di cliniche mobili per 15 giorni (circa 5.000 Euro) a
sud della Striscia.
*
la realizzazione di una mappatura delle associazioni e dei gruppi
presenti nella città di Rafah. La scelta di tali associazioni
è stata
fatta con l’aiuto di due ragazzi, Giulia e Fabio, che hanno trascorso
nell’area di Rafah diversi mesi.
A
Rafah un contributo fondamentale per il raggiungimento dell’obiettivo
ci è stato dato dall’International Solidarity Movement (ISM),
movimento
di cui fa parte anche Giulia.
Cos’e'
l’International Solidarity
Movement?
L’International
Solidarity Movement è
un’organizzazione nata circa 3 anni fa, composta da volontari
palestinesi, israeliani ed internazionali.
Utilizza
metodi non violenti e ha come obiettivi l’interposizione
pacifica, la difesa dei civili palestinesi e più in generale la
difesa
contro l’occupazione israeliani nei territori.
Tra
le fondatrici ricordiamo Neta Golan, israeliana, da tempo schierata
a fianco della causa palestinese, Huwaida Arraf, americana, più
volte
arrestata dai militari israeliani e Coimbra Butterfly, irlandese,
ferita, arrestata ed espulsa dagli israeliani, oggi volontaria in Iraq.
L’ISM
svolge il proprio lavoro organizzando campagne tematiche (quella
per la raccolta delle olive, per la libertà di movimento, ecc),
precedute da training per i volontari, i quali vengono organizzati per
gruppi di affinità.
Oggi
l’ISM ha gruppi locali in diverse parti del mondo, Stati Uniti,
Inghilterra, Canada e associazioni partner in altre nazioni.
. . . Diario di bordo. . .
Striscia
di Gaza
Nella
Striscia di Gaza abbiamo visitato associazioni a Gaza City e a Rafah.
Siamo
poi andati a Khan Younis, dove abbiamo incontrato il Governatore
e in due villaggi che beneficiano del progetto-cliniche mobili anche da
noi finanziato.
Arriviamo
a Rafah dopo sette ore di attesa al valico di Erez, la
frontiera tra Israele e la Striscia di
Gaza dopo che i soldati israeliani ci ripetono per ben due volte che di
lì non si passa e ogni volta
consegnandoci pure un “foglio di via“, dopo che i fax del
consolato
inviati a Captain Levi (il capitano che non si fa vedere, con il quale
è impossibile parlare anche per
telefono), dopo aver spiegato loro che noi, comunque, non ce ne
andiamo, alla fine, in seguito ad una trattativa estenuante e ridicola,
se non fosse per il fatto che ci troviamo in una zona di guerra, ci
consentono di entrare e rimanere meno giorni di quelli da noi
previsti (comunque intanto siamo entrati).
Alla
frontiera salutiamo ragazze e ragazzi di associazioni e Ong (anche
di importanza rilevante) che abbiamo conosciuto durante le sette ore
d’attesa.
Non
sapremo mai se avranno il permesso per entrare nella Striscia di
Gaza.
A
qualcuno è stato chiesto di farsi interrogare dai militari,
singolarmente, nel loro
ufficio, ad altri sono stati presi per ore i passaporti e quando ce ne
andiamo non sono stati loro ancora restituiti.
Arriviamo
a Rafah dopo aver visto il disastro delle case distrutte e
dei campi e frutteti divelti a Beit Hanun, dove le famiglie ora vivono
in alcune tende montate davanti a quello che resta delle loro
abitazioni.
Lì
riabbracciamo Abdelhadi Abu Kousa, il Presidente del Palestinian
Medical Relief per la Striscia di Gaza, che ci informa di tutto
ciò che
è accaduto dall’ultima nostra visita nella Striscia e nei
Territori
Occupati.
Dopo
8 mesi siamo di nuovo a Rafah!
Rafah
Rafah
si trova a sud della Striscia di
Gaza ed è definita “la prigione nella prigione”,
se infatti per i Palestinesi è impossibile entrare ed uscire
dalla
Striscia di Gaza, per gli abitanti di Rafah è altrettanto
difficile
uscire dalla propria città e circolare all’interno dell’area di
Rafah
city.
Il
distretto di Rafah confina a occidente con il Mar Mediterraneo, in
teoria è quindi una città sul mare.
In
realtà gli abitanti di Rafah il mare lo possono solo immaginare
perché è proibito loro l’accesso alla
spiaggia perchè
nei
pressi della spiaggia sorge l’insediamento israeliano di Gush Katif
(il più grande all’interno della Striscia di Gaza) di 4.400
coloni che
spesso utilizzano queste case solo in estate, per le vacanze.
Circa
130.000 abitanti palestinesi sono invece costretti a vivere in una
superficie di
appena 60 kmq .
Nella
parte settentrionale il distretto di Rafah confina con la città
di Khan
Younis, anche qui però la continuità territoriale
è compromessa dalla
presenza di numerosi insediamenti di coloni e dell’esercito israeliano
che impone la sua presenza con l’arroganza e l’arbitrio dei
check-point, delle zone di sicurezza, delle torrette militari.
Ad
oriente Rafah confina con la Linea Verde (confine con Israele -1967)
mentre nella parte meridionale, con l’Egitto.
Qui
fasce intere di case sono state distrutte per creare “zone
cuscinetto” tra le posizioni militari israeliane e le aree
palestinesi. Sempre
per tale ragione è stato eretto un muro, alto 8 metri che
continua per
4 metri nel sottosuolo, lungo tutto il confine.
E’quindi
facilmente immaginabile che è questa zona che conta il maggior
numero di case distrutte.
Le
abitazioni distrutte a Rafah dall’inizio della II Intifada sono in
tutto 938, il numero di famiglie rimaste senza casa è di 1.181,
per un
totale di 6.894 senzatetto.
Le
case parzialmente distrutte sono invece 428.
E’
in questa zona, nei quartieri di Block “O”, Block “J”, “Brazil”, “Al
Deir Salam” dove vivono i profughi palestinesi del 1948 (a Rafah i
profughi costituiscono l’83% della popolazione), che quotidianamente
gli abitanti sono costretti a sopportare il terrore delle raffiche
notturne, delle demolizioni di case, delle irruzioni dei carri armati e
delle ruspe che distruggono, devastano, uccidono.
Passiamo
tra le case una addossata all’altra dei campi profughi e vediamo le
barriere create dagli abitanti.
Barriere
fatte di calcinacci, bidoni, lamiere, barriere di nulla che
nulla possono contro i carri armati quando i militari decidono di
entrare per le piccole strade di questi quartieri, dove la
densità di
popolazione è altissima.
Ci
arrampichiamo tra i resti dell’ultima fascia di case distrutte, al
di là, tra le case e il muro, 50m. controllati dal passaggio
continuo e
opprimente di un carro armato e di altri mezzi militari.
Alcuni
abitanti, seduti sui gradini delle loro case che portano i segni
delle raffiche, osservano un po’ preoccupati lo spostamento della
sabbia e commentano i rumori che provengono dalle
barriere:controllano gli spostamenti del carro armato. Poi ci
dicono
che è pericoloso vivere in questa zona, imprecando più
volte contro
Sharon, Bush e Blair.
Ci
raccontano che proprio ieri notte una casa è stata distrutta,
una
grande casa in cui vivevano più famiglie e ci accompagnano a
vederla.
La
casa è stata sventrata dalle ruspe “Caterpillar” e completamente
riempita di sabbia.
Ci
dicono di non avvicinarci troppo perché i militari dalla
torretta
situata sul muro potrebbero “arrabbiarsi” e sparare a noi o alla
popolazione.
Nel
frattempo, ci accorgiamo di essere circondati da bambini che ci
chiedono in continuazione “uocciorneim?”, “auduiudu?”.
Facciamo qualche ripresa veloce e ce ne andiamo
perchèabbiamo paura
per i bambini che sembrano essere “abituati” alla situazione e fin
troppo temerari.
E’
qui che a Marzo e ad Aprile sono stati uccisi dai militari
israeliani gli attivisti internazionali dell’International Solidarity
Movement (ISM) Rachel Corrie (23 anni) e Tom Hurndall (21 anni) ,
mentre cercavano di difendere la popolazione dalla demolizione di case
e dagli spari dei cecchini dalle torrette posizionate lungo il muro.
Dall’inizio
della seconda Intifada, a Rafah, sono 238 i Palestinesi
uccisi dall’esercito d’occupazione israeliano, di cui il 90%
appartenevano alla popolazione civile.
Tra
questi si contano 52 bambini sotto i 12 anni.
2.350
i feriti di cui circa il 10% resterà invalido a vita.
Lasciamo
i quartieri a ridosso del muro e ci dirigiamo nel centro di
Rafah dove abbiamo appuntamento con le ragazze e i ragazzi di
ISM ai quali avevamo chiesto di organizzarci degli incontri con alcune
associazioni della città, perchè è nostra
intenzione fare una
“mappatura” dei gruppi presenti.
Una
di loro, Molly, l’avevamo conosciuta a Dicembre quando avevamo
partecipato ad un’azione d’interposizione al check-point di Al-Mawasi,
un villaggio vicino a Rafah.
Al
Mawasi è una zona agricola altamente fertile, nella parte
meridionale della costa tra Khan Younis e Rafah.
Vi
vivono 12.000 persone, per la maggior parte agricoltori e pescatori,
che “de facto” sono sotto un sistema di aparthaid, al limite estremo di
un insediamento israeliano. Il villaggio è completamente
chiuso ad
eccezione di due
checkpoint attraverso i quali solo i residenti dell’area hanno accesso.
Ambulanze e parenti degli abitanti non possono
entrare perchè cinte elettriche e pattuglie militari separano
gli
insediamenti israeliani dalle comunità palestinesi. La terra che
apparteneva agli agricoltori locali è stata sequestrata per
consentirne
l’uso ai coloni, i quali attaccano occasionalmente e molestano i
residenti palestinesi o distruggono le loro serre e i loro campi.
All’interno
del villaggio quattro checkpoint israeliani regolano i movimenti della
popolazione.
Da
Marzo 2002 l’esercito israeliano ha inasprito le misure per Al Mawasi,
inclusi regolari imposizioni di coprifuochi.
Nel
Maggio 2002 sono state emesse carte d’identità magnetiche ai
residenti, le quali sono richieste per l’entrata e l’uscita dall’area.
Molly
ci spiega che in questo momento è troppo difficile fare
interposizione a Rafah, perchè Rafah è diversa dalle
altre città sotto
occupazione infatti qui un attivista non è considerato
“arrestable or
not arrestable” ma “shootable or not shootable”.
Sono
in 6 e stanno lavorando “per e con” la comunità della
città:
partecipano alle attività delle associazioni locali, organizzano
corsi
d’inglese gratuiti e la notte dormono nelle case a rischio demolizione,
sperando che la loro presenza serva a dissuadere i militari
israeliani. La loro presenza è importante e ce ne accorgiamo
subito
anche dai rapporti che hanno saputo instaurare con le/i Palestinesi,
dai commenti che queste/i fanno, da come li salutano per strada.
M.
è un ragazzo palestinese di circa 20 anni, anche lui di
ISM.
Sarà
lui il nostro traduttore dall’inglese all’arabo.
Ci
accompagna a conoscere il GUPW (General Union of Palestinian Women),
il Palestinian Children’s Parliament, un centro d’aggregazione
giovanile dell’ Union Health Work Committees che porta il nome di
Rachel Corrie e un asilo, finanziato da un ONG canadese, che
sorgerà a
poca distanza da dove Rachel è stata uccisa, anche questo in suo
ricordo.
Tutte
le organizzazioni ci raccontano, anche se da punti di vista
diversi, l’orrore della violenza che la popolazione palestinese
è
costretta a subire in generale e soprattutto qui a Rafah, di come sia
intollerabile l’occupazione israeliana, dell’insopportabile silenzio
dei media internazionali.
Ci
dicono di come la stessa economia palestinese sia strangolata dagli
accordi presi in precedenza che impongono alla popolazione di
acquistare quasi tutti i prodotti direttamente dagli Israeliani e di
come sia impossibile far arrivare merci da altri Paesi perchè
queste
sarebbero, nella maggior parte dei casi, requisite alle frontiere e ai
checkpoint.
Da
un precedente incontro con il coordinatore del Centro dei diritti
Umani “Al Mezan” di Gaza City già sappiamo che il distretto di
Rafah,
come tutti gli altri territori occupati da Israele, soffre di
gravissime difficoltà economiche.
Che
in condizioni “normali” Rafah contava il 51% della popolazione al
di sotto della soglia di povertà, e che oggi questa percentuale
è
salita all’80%.
Inoltre
in questo distretto l’esercito di occupazione israeliano ha
distrutto e danneggiato terreni agricoli per 2.080 donums (1 donum =
1.000 mq.), alberi (ulivi e aranci in particolare), reti idriche,
bacini e pozzi d’irrigazione, 213 serre, 12 depositi, 7 fattorie, 154
attività commerciali e piccole fabbriche.
Ma
tutte le organizzazioni affermano anche la volontà del popolo
palestinese di non essere schiacciato da quest’oppressione, di
organizzare forme di resistenza popolare, di cominciare a pensare a
come potrebbe essere uno stato palestinese democratico, dopo la
disillusione della popolazione nei confronti dell’Anp.
Tutti
ci raccontano di come si era impegnata nei tre mesi che aveva
deciso di vivere e condividere con gli abitanti di
Rafah, parlano della sua forza, della sua determinazione, della sua
dolcezza, dell’esempio che questa ragazza venuta da un ‘altra parte del
mondo ha rappresentato e rappresenta per loro.
Cisgiordania
Siamo
stati nella città di Nablus
(dichiarata Patrimonio dell’Umanità, oggi in parte distrutta
inseguito
all’invasione dell’esercito d’occupazione israeliano avvenuta circa un
anno fa) e a Ramallah.
Nablus
Dopo
il ritorno obbligato abbiamo pensato di utilizzare comunque
in maniera proficua il tempo rimasto a nostra
disposizione così ci siamo messi in contatto con Neta Golan per
andare
a vedere la situazione in cui sono costretti a vivere i Palestinesi
nella città di
Nablus, città dove Neta vive con suo marito e la piccola Nowal
di
quattro mesi.
Dopo
aver affrontato un viaggio di tre ore e mezzo lungo strade strette,
sterrate, tra buche ed ulivi,
siamo arrivati al checkpoint di Nablus.
Consigliati
da Neta non siamo passati per il checkpoint di “Awara”
(quello per le persone), ma da quello di “Awarta” (quello per le
merci).
Ancora
una volta ci siamo resi conto dell’arbitrio e dell’assurdità che
sono insiti in questo sistema d’occupazione.
Non
saremmo mai riusciti a superare il primo checkpoint (servono lettere di
presentazione di grosse Ong, dei consolati, ecc).
Ma
nel checkpoint per le merci, di fronte ai soldati che ci dicono che
in quel checkpoint è consentito l’ingresso solo per le merci, ce
la
caviamo con uno “Scusate, non lo sapevamo. Non lo facciamo più!”.
Neta
ci aspettava con Nowal al campo profughi di Balata, dove stava
tenendo un training per gli ultimi attivisti internazionali
arrivati.
Con
O. abbiamo visitato il campo.
Ci
ha spiegato di come Nablus sia praticamente circondata da
insediamenti di coloni e militari, che dall’alto delle colline
circostanti, sparano sul campo e sulla città.
Ci
ha portato a visitare una famiglia alla quale pochi giorni prima i
soldati avevano fatto esplodere la casa.
Il
motivo è che la famiglia è quella di un ragazzo che tre
mesi prima
aveva partecipato ad un’azione contro l’esercito di occupazione.
Durante quell’azione era stato ucciso.
Al
lutto familiare si aggiunge ora la disperazione della perdita di una
casa in cui vivevano 15 persone.
Siamo
saliti fino a ciò che rimaneva dell’ultimo piano, un piano che
era ancora da ultimare.
A
terra tra polvere, calcinacci, vetri, ci sono vestiti, scarpe,
giocattoli, e le mani delle persone che cercano tra le macerie
ciò che
può essere recuperato...
La
madre del “martire” non piange, ma ci urla la sua rabbia in faccia,
imprecando in lingua araba contro i nemici di sempre: Sharon, Bush e
Blair.
Neta
ci ha ospitati a casa sua, ci ha parlato dell’attuale, difficile
situazione dell’Ism, dopo le morti di Rachel e Tom.
Durante
la notte trascorsa a casa sua, Neta, ad un certo punto, ha
ricevuto una telefonata: erano gli attivisti che stavano a Balata. Le
comunicavano che era stata fatta saltare un’altra casa.
Nella
casa erano rimasti a dormire 5 volontari per evitare l’intervento dei
soldati israeliani.
Due
di loro (di circa 20 anni) si erano incatenati, ma i soldati hanno
tagliato le catene, li hanno bendati, arrestati ed espulsi.
Il
giorno seguente abbiamo visitato due centri del Medical Relief: un
ambulatorio e un centro d’aggregazione giovanile.
Tre
ragazzi del centro si sono offerti di accompagnarci per la città
vecchia di Nablus, patrimonio dell’Umanità.
Ci
hanno mostrato il luogo in cui edifici di importanza storica sono
stati fatti esplodere per consentire l’ingresso dei carri armati nelle
strette vie della città vecchia.
Ci
hanno accompagnato anche a visitare un’antica moschea, in parte
distrutta e profanata dalla presenza dei militari israeliani.
Tutto
ciò è accaduto durante l’occupazione della città
vecchia, avvenuta un anno fa.
La
sera ritorniamo in taxi a Gerusalemme: questa percorriamo la strada
asfaltata ad uso esclusivo dei coloni e ci impieghiamo solo 40 minuti!
Ramallah
La
nostra ultima visita è al Medical Relief di Ramallah.
Abbiamo
lasciato Gerusalemme e siamo arrivati al checkpoint di Qalandia, uno
dei punti di controllo più importanti.
Qui
numerosi studenti e lavoratori sono costretti a mostrare i propri
documenti ai soldati israeliani. Dal Medical Relief di Ramallah siamo
partiti in taxi con 2 medici e un’infermiera per arrivare a Safah:
è un
villaggio di 3000 abitanti a un’ora dalla città, al quale si
accede
attraverso una strada sterrata, dalla quale si vedono gli insediamenti
dei coloni.
I
medici del Medical Relief si recano nel villaggio una volta al mese e
qui presso un centro di aggregazione giovanile, ancora in costruzione,
visitano gratuitamente tra le 100 e le 200 persone e distribuiscono
loro gratuitamente le medicine di cui hanno bisogno.
E’
un servizio vitale per gli abitanti di Safah e dei villaggi vicini,
che altrimenti non potrebbero permettersi le visite dai medici privati
e l’acquisto delle medicine.
Abbiamo
visto il tipo di lavoro svolto dall’associazione dei medici e
abbiamo conosciuto diverse persone del villaggio, le quali ci hanno
spiegato come la loro situazione sia peggiorata dopo
l’occupazione.
In seguito ci hanno mostrato i loro campi che sono a pochi metri dal
centro dove si svolgono le visite: una rete, però, impedisce
loro
l’accesso ai campi che sono stati occupati dall’esercito e ci hanno
detto che ad ottobre non potranno raccogliere le olive dai propri
campi.