TORNARE NELL'AFGHANISTAN DIMENTICATO
UN'ACCURATA RIELABORAZIONE DELLE INFORMAZIONI E DELL'ESPERIENZA MATURATA DURANTE IL VIAGGIO IN PAKISTAN E IN AFGHANISTAN DELLA DELEGAZIONE ITALIANA, 6/20 MARZO 2005


Ottobre 2005, di Graziella Longoni, Donne in Nero, Milano

 

Torno in Afghanistan due anni dopo il mio primo viaggio .
Emozioni e preoccupazioni attraversano i miei pensieri e la mente si affolla di ricordi. I volti delle donne e delle bambine incontrate ridiventano una presenza viva che mi riempie il cuore di tenerezza. Davanti ai miei occhi scorrono le strade polverose di Kabul, i bambini e le vedove che chiedono l’elemosina, il ciadri (burqa) che trasforma persone viventi in fantasmi fluttuanti e ne cancella l’identità, i molti giovani, mutilati dalle mine, che saltellano sulle protesi. Risento la voce fiera e dolente di tante ragazze che raccontano la loro dolorosa storia di abusi subiti e il loro desiderio di riscatto. Rinasce dentro di me l’inquietudine avvertita davanti ai molti miliziani che giravano armati. Rivedo i padri che si mettevano in posa per farsi fotografare insieme ai molti figli, la loro mano posata sul cuore in segno di saluto e di gratitudine, il sorriso triste che rendeva più profondo il loro sguardo.
Sono immagini vive, fermate per sempre nella memoria, immagini che mi hanno accompagnato nella quotidianità e che ho cercato di narrare al mio ritorno a chiunque mi chiedeva di parlare dell’Afghanistan.
Da tempo però l’Afghanistan è sparito dai media, ingoiato dalla guerra scatenata in Iraq; quando lo si nominava, era solo per presentarlo come il modello vincente e lungimirante di una lotta al terrorismo capace di aprire la strada alla democrazia e di sollecitare la realizzazione dei diritti umani per dare dignità alle donne da sempre negate dall’integralismo islamico.
E così è calato il silenzio sulla condizione reale di un paese che in questi ultimi tre anni ha visto aumentare vertiginosamente la produzione di oppio; un paese instabile, non pacificato, dilaniato da lotte intestine per il controllo del territorio da parte dei signori della guerra che gestiscono il narcotraffico, dispongono di milizie private e non riconoscono il governo centrale; un paese dove i taleban si sono riorganizzati e continuano la loro lotta per il potere, quando non vengono riciclati; un paese dove la sharia, che la Costituzione di fatto non cancella, legittima la lapidazione delle donne, le condanna al carcere quando scappano di casa per salvarsi dalla violenza domestica, autorizza i matrimoni combinati delle bambine, non punisce gli uomini che aggrediscono le donne che osano andare a scuola, lavorare nelle organizzazioni umanitarie internazionali, camminare per le strade senza il burqa; un paese dove la popolazione vive in condizioni di assoluta miseria, senza cibo, né acqua potabile, né servizi igienico-sanitari; un paese dove i fondamentalisti dell’Alleanza del Nord, alleati agli Stati Uniti nella guerra contro i taleban, occupano i ministeri e i governatorati più importanti, appropriandosi di gran parte delle ingenti somme di denaro destinate dai governi esteri alla ricostruzione che, in questo clima di corruzione dilagante, non può decollare; un paese dove i ricatti e le continue minacce dei potenti impediscono alle strutture dello Stato di esercitare un effettivo controllo e lo costringono a scendere a patti con chi negli anni Novanta ha scatenato una sanguinosa guerra civile che ha distrutto le infrastrutture, le case, la già povera economia e ha creato migliaia di profughi e migliaia di morti tra la popolazione civile; un paese dove la massiccia presenza delle forze internazionali dell’Isaf non è in grado di garantire la sicurezza; un paese dove gli americani e i loro alleati continuano la guerra contro il terrorismo di al-Qaeda senza preoccuparsi di rimuovere le cause profonde che l’ hanno generato.
Con lo sdegno e la sofferenza del testimone, che ha visto e sentito ciò che l’informazione ufficiale rimuove, ho cercato di parlare di questo Afghanistan dimenticato nei molto incontri a cui sono stata invitata. Lo stupore e l’incredulità di chi mi ascoltava si trasformava presto in un bisogno di sapere che esprimeva sgomento e anche rabbia nei confronti di un servizio pubblico che non informa e spesso si limita a giustificare le “guerre umanitarie” e le “guerre preventive”, nascondendo l’orrore che le accompagna.
Molti sono diventati compagni di viaggio nel senso che si sono assunti la responsabilità di mantenere viva l’attenzione sull’Afghanistan, organizzando dibattiti e promovendo iniziative a sostegno dell’Associazione rivoluzionaria di donne afghane (Rawa) che, dal 1977, opera clandestinamente in Afghanistan e tra i profughi in Pakistan, offrendo corsi di alfabetizzazione alle donne e alle bambine, corsi di taglio e cucito per avviarle ad un lavoro, servizi sanitari, microcrediti alle vedove per strapparle dalla strada e consentire loro di produrre reddito, protezione alle donne maltrattate; il tutto all’interno di un progetto politico che rivendica uno Stato laico e democratico fondato sui diritti umani e libero dai condizionamenti dei signori della guerra che, essendosi macchiati di orrendi crimini contro l’umanità, meritano di essere giudicati da un tribunale internazionale.
In tutti questi anni, dall’invasione sovietica (1979) ad oggi, Rawa ha documentato la violenza dei mujaheddin, dei taleban, le inefficienze e la subalternità del governo di Karzai, il clima di insicurezza e la falsa democrazia instaurata dalla miope politica degli Stati Uniti che, avendo usato i criminali dell’Alleanza del Nord prima per colpire l’Urss e poi per annichilire la barbara intransigenza dei taleban, ora sono costretti a restituire il favore a chi li ha aiutati a perseguire i loro obiettivi.
Grazie al capillare lavoro di informazione di Rawa, il mondo ha potuto conoscere il dramma che ha colpito il popolo afghano in questi venticinque anni di guerre ininterrotte, ma la risposta, che la Comunità internazionale ha dato, si è mostrata inadeguata e inefficace tanto è vero che l’Afghanistan rischia di cadere nuovamente nell’anarchia, soprattutto adesso che l’attenzione si è spostata altrove.
Torno in Afghanistan con questa dolorosa consapevolezza; torno per incontrare quella parte della società civile cui sta veramente a cuore il futuro del proprio Paese; torno per risentire la voce dissonante di chi ogni giorno rischia la vita per affermare la dignità della persona; torno per ascoltare quelle donne coraggiose che hanno arricchito la mia vita con la loro lucidità, la loro sensibilità, il loro modo di fare politica, una “politica dal basso” che mette in primo piano gli individui in carne ed ossa e si costruisce nella quotidianità, facendo i conti con i bisogni primari e le difficoltà dell’esistenza; torno per continuare ad imparare a vedere aldilà delle immagini confezionate; torno perché l’Afghanistan mi è rimasto nel cuore.

1. Un popolo di profughi fuggiti in Pakistan

Siamo una delegazione di undici persone, molte della quali appartenenti al Coordinamento Italia-Rawa costituitosi qualche anno fa con l’obiettivo di supportare i progetti di Rawa che, in quanto associazione semiclandestina, non riceve aiuti dagli organismi internazionali e di far conoscere la sua visione politica che, essendo animata da uno spirito autenticamente laico e democratico, rappresenta l’antitesi più credibile al fondamentalismo islamico e la vera speranza di futuro per un paese che vorrebbe tornare a vivere.
La prima tappa è in Pakistan, dove migliaia di profughi continuano a vivere in condizioni di estrema precarietà.

a) Rawalpindi: un piccolo ambulatorio medico

Incontriamo Zoia, Danish, Sharara che ci accolgono festosamente. A noi non bastano i baci e gli abbracci per esprimere la nostra gioia di incontrarle e di ritrovarle vive.
Guardandoci intorno, ci rendiamo subito conto che qualcosa è cambiato: l’ospedale Malalai, fiore all’occhiello di Rawa, non esiste più, al suo posto ora c’è un piccolo ambulatorio senza posti letto per la degenza, dove operano due medici, di cui una pediatra, che si limitano a visitare i pazienti e a distribuire qualche medicina.
Nel piccolo cortiletto donne e bambini aspettano, incuriositi dalla nostra presenza.
Una piccola stanza per le visite, una piccola farmacia, l’atrio d’ingresso, una piccola cucina e un piccolo ufficio costituiscono la struttura dell’ambulatorio che, nonostante gli amorevoli tentativi di renderlo accogliente, diffonde un senso di precarietà e di povertà che stringe il cuore.
I costi per la gestione dell’ospedale Malalai erano troppo alti e così hanno dovuto traslocare, ridurre il numero dei medici da sei a due unità, licenziare il personale infermieristico e limitarsi ad offrire un servizio ambulatoriale e questo perché i supporter americani hanno quasi smesso di inviare denaro.
L’ambulatorio è provvisorio, c’è il rischio infatti che venga trasferito nel campo profughi di Kheewa (Old Jalozai) a Peshawar, dove il servizio sanitario preesistente sta per essere smantellato perché la Ong, che lo sosteneva, ha cessato il finanziamento .
Per continuare a garantire assistenza medica ai profughi di Kheewa, senza privare Rawalpindi del suo ambulatorio, è necessario reperire urgentemente 30.000 euro.
Come si vede, mantenere i progetti avviati diventa sempre più difficile perché manca la garanzia di continuità nell’erogazione dei fondi necessari.
In questa condizione di estrema incertezza, esistenze sospese, come quelle dei profughi, rischiano, in ogni momento, di precipitare nella miseria più devastante; grande è anche la frustrazione di chi continua ad operare perché la povertà non cancelli la dignità della persona.
Zoia sottolinea che i problemi sono aumentati dopo la guerra in Iraq che ha fatto spostare l’attenzione dei donatori su questo altro fronte anche perché l’informazione ufficiale ha fatto credere che in Afghanistan si era avviato il processo di democratizzazione e i profughi stavano tornando nel loro paese.
In realtà solo un quarto ha lasciato il Pakistan, gli altri si rifiutano di partire perché hanno perso tutto e non hanno nessuno a cui appoggiarsi, inoltre sanno che è impossibile trovare una sistemazione a Kabul a causa dell’alto costo degli affitti delle case e che è difficile vivere anche nelle province, dove si fa fatica a trovare un lavoro e dove i signori della guerra impongono il pagamento di balzelli di ogni tipo e per ogni cosa, perfino per costruire una casa di fango.

b) Una casa-famiglia per bambini orfani a Rawalpindi e a Peshawar

Accompagnati da Zoia e da Sharara visitiamo l’orfanotrofio Watan (patria) che accoglie trenta bambini/e di età compresa tra i cinque e i tredici anni. In realtà si tratta di una casa-famiglia gestita da una coppia genitoriale che ha quattro figli propri e che accudisce i bambini/e a loro affidati con grande amore, tenerezza e rispetto.
E’ l’antitesi della logica istituzionale che spersonalizza i rapporti e si limita ad offrire un’assistenza materiale, trascurando i bisogni affettivi di contatto, di sicurezza, di protezione che solo una presenza attenta e accogliente, capace di sedare le ansie e le paure con i gesti propri della cura, può soddisfare.
La scelta pedagogica di Rawa pone in primo piano il bambino con i suoi bisogni affettivi, lo colloca in una ambiente familiare dove riceve l’attenzione di un padre e di una madre che possono consolarlo quando piange, abbracciarlo quando si sente solo o impaurito, gioire con lui dei suoi successi, consigliarlo quando è in dubbio, insegnargli a crescere in autonomia e nel rispetto di sé e degli altri, aiutarlo a dare voce ai suoi sogni e ai suoi timori.
La casa è davvero un ambiente familiare, alle pareti ci sono i disegni coloratissimi dei bambini/e che rappresentano scene di vita quotidiana, ma anche paure e desideri.
C’è il disegno di un maestro che fa lezione a un gruppo di ragazzi molto attenti, il maestro e i ragazzi portano abiti occidentali e sono in un’aula dove ogni studente ha il proprio banco. C’è il disegno di un paesaggio pieno di verde e circondato da alte montagne dietro le quali fa capolino un sole luminosissimo, al centro un bambino, caduto per terra e in lacrime, viene soccorso da un adulto che lo prende per mano. C’è il disegno di una donna bellissima, dai lunghi capelli neri e con il viso scoperto, che porta scarpe scure col tacco a spillo e un abito blu soffice e leggero che lascia vedere le braccia e parte delle gambe, tiene per mano un bambino vestito elegantemente con pantaloncini corti, maglietta rossa e bretelle, insieme stanno andando a casa, una bella casa di pietra circondata da alberi rigogliosi. In un altro disegno il cielo nuvoloso è attraversato da un aereo con scritto U.S.A. che sta lanciando una bomba su un campo brullo dove si trova una donna coperta dal burqa, insieme al suo bambino e alla sua bambina, che non sa dove trovare riparo perché intorno c’è solo una tenda bucherellata e una parete di mattoni semidistrutta.
La coppia genitoriale, che gestisce la casa-famiglia, è composta da un uomo dallo sguardo intenso e molto gentile nei modi che trasmette fiducia, forza e serenità e da una donna con un viso aperto e un corpo morbido che trasmette calore e protezione.
Ci dicono che i bambini/e ospitati provengono da tutte le province dell’Afghanistan, alcuni hanno perso entrambi i genitori, altri invece hanno un padre o una madre che, non avendo i mezzi per mantenere i figli, sono costretti a rinunciare alla loro funzione educativa per permettere ai figli di ricevere cibo, istruzione e cure.
La religione islamica impone l’assistenza agli orfani e così il governo pakistano non crea problemi.
Ultimamente Rawa ha dovuto chiudere due orfanotrofi per mancanza di fondi e questo è drammatico per i bambini che devono essere riportati dai parenti, spesso molto poveri e non in grado di offrire loro un’assistenza adeguata; i bambini allora non possono più andare a scuola e nel giro di poco tempo perdono tutto quello che hanno imparato.
In questa casa-famiglia il mantenimento di un bambino costa cinquanta dollari al mese, tutto compreso: cibo, vestiti, occorrente per la scuola.
Durante il giorno i bambini/e frequentano la scuola di Rawa che si trova al pianterreno dell’edificio in cui vivono.
Scendiamo per incontrarli. Ci accolgono con canti e ci offrono anche un piccolo saggio di danza.
Ersilia, da Viareggio, ha portato le lettere dell’alfabeto italiano per comporre la frase “Carnevale di pace”.
I bambini e le bambine osservano la disposizione delle lettere sul pavimento, in pochissimo tempo imparano la sequenza e insieme a noi ricompongono la frase che rimane al centro della stanza.
E’ un bellissimo momento di contatto, di vicinanza; le nostre e le loro mani si toccano, si incontrano, la loro timidezza svanisce e la commozione prende i nostri cuori.
Sono bambini/e attenti, curiosi, vivaci, desiderosi di imparare, ma anche ordinati e disciplinati.
L’aula è un ambiente coloratissimo, alle pareti ci sono molti manifesti e cartelloni didattici, c’è il ritratto di Meena sopra la cartina dell’Afghanistan e c’è anche la bandiera della pace. Vicino alla piccola libreria sono appesi i fiori di carta con la scritta “pace” in diverse lingue, le bandierine dell’Italia, dell’Afghanistan e della pace che i bambini/e della scuola di Copreno (Milano) hanno disegnato e donato a Shoaila, il novembre scorso, quando si è recata nella loro scuola per conoscere il lavoro che avevano fatto durante l’anno all’interno del progetto “Solidarietà per l’Afghanistan” e per parlare delle condizioni di vita dei bambini afghani. Con i loro disegni i bambini/e di Copreno hanno attraversato i confini per dire il loro affetto agli amici afghani che hanno accolto il messaggio d’amore dei loro coetanei lontani e ogni giorno potranno vedere i segni di un rapporto di vicinanza che permetterà loro di sentirsi pensati, ricordati.
E’ sicuramente un bell’esempio di educazione trans-culturale che rompe le barriere erette dall’etnocentrismo miope ed aggressivo per condurre verso l’ “altro”, colto nella sua diversità e accolto come compagno di viaggio verso un mondo plurale, dove la co-esistenza si impone come valore condiviso.
Troveremo lo stesso clima di serenità, lo stesso atteggiamento amorevole e rispettoso nella casa-famiglia di Peshawar gestita da Adla, una donna dolcissima con un corpo che è l’incarnazione del materno, e dal marito, un uomo gentile, premuroso che sta sempre al suo fianco e la sostiene in ogni gesto compiuto per ricevere gli ospiti nel migliore dei modi.
La casa-famiglia è sostenuta economicamente da Carol Mann, presidente della ONG francese FemAid.
E’ un piacere immenso rivedere Adla che alcune di noi avevano conosciuto al Convegno di Viareggio nel 2003, dove ci aveva raccontato, tra le lacrime, la sua storia di madre che aveva perso un figlio e aveva ritrovato la forza di reagire al senso di morte che l’aveva fatta precipitare nella più cupa depressione, solo quando Rawa le aveva proposto di occuparsi dei bambini orfani. Ci mostra con orgoglio i suoi molti “figli” che a loro volta sono desiderosi di mostrarci i loro disegni, le camerette con i letti a castello in cui dormono, i vestiti che un gruppo di ragazzine imparano a confezionare nel piccolo atelier dove si insegna taglio e cucito.
Alcune bambine tengono in braccio bambini piccolissimi che cullano affettuosamente per farli addormentare; altre, aiutati dai loro compagni, riordinano lo spazio comune dove si sono riuniti per aspettarci; la sensazione è quella di trovarsi in una piccola comunità dove ciascuno ha un compito da svolgere e coopera con l’altro per il bene di tutti.
Purtroppo anche l’orfanotrofio di Peshawar sta attraversando un momento difficile. Il costo altissimo dell’ affitto ha costretto Rawa a rinunciare alla parte superiore dell’edificio e a ridurre gli spazi destinati alle attività dei bambini/e.
Si riaffaccia quel senso di precarietà che già ci aveva preoccupato a Rawalpindi, quando avevamo constatato che l’Ospedale Malalai aveva dovuto chiudere.

c) Peshawar: campo profughi di Kheewa (Old Jalosai)

Accompagnate da Danish, alcune di noi si avventurano verso il campo profughi di Jalozai, dove visiteremo solo il nucleo più antico, Kheewa camp, che risale alla fine degli anni Settanta in concomitanza con l’invasione sovietica dell’Afghanistan ed è gestito direttamente da Rawa.
Il campo sorge vicino a un’immensa fornace di mattoni; la polvere, il fumo delle alte ciminiere, l’aridità del paesaggio, un silenzio immobile che sembra pietrificare ogni cosa richiamano alla mente le immagini di un mondo infero che ingoia i “dannati della terra”, costretti ad entrarci e a lavorare come animali per due euro al giorno. Oltre agli uomini e ai bambini, vi lavorano, nascostamente, di notte, anche alcune vedove.
Kheewa camp è un’oasi nel deserto: sono stati piantati degli alberi che nel corso del tempo sono cresciuti rigogliosi, piccoli orti ravvivano la terra brulla che si colora di verde, gli spazi in cui è suddiviso sono ordinati e puliti, nel cortile centrale le bambine e i bambini più piccoli giocano rincorrendosi festosamente, alcune bambine portano gli abiti tradizionali dai colori vivaci e dirigono i giochi con un’autorità riconosciuta, le povere case di fango sono disposte in modo ordinato, tra un albero e l’altro ci sono i fili per stendere i panni, alcune donne anziane, sedute davanti alla porta di casa, stanno pulendo gli ortaggi per la cena, donne più giovani stanno preparando il the e chiacchierando amabilmente tra di loro, alcune ragazze con i libri in mano camminano sui gradini del piccolo anfiteatro posto nel cortile centrale e stanno ripassando ad alta voce le materie studiate perché devono sostenere gli esami di fine semestre, in un piccolo locale adibito a forno alcuni uomini cuociono il pane che i ragazzi portano alle loro famiglie; l’atmosfera è quella di un villaggio, dotato dei servizi essenziali, dove i bambini giocano e studiano, gli adolescenti si preparano per affrontare le sfide della vita, le donne si occupano dei figli e della casa e a volte allevano qualche capra che custodiscono nei cortiletti interni, gli uomini svolgono i lavori produttivi possibili in quel contesto, le scuole combattono l’analfabetismo e educano alla convivenza persone di etnia diversa, la luce elettrica illumina le case e le pompe dell’acqua funzionano anche se fra mille difficoltà e in modo non ancora sufficiente.
La povertà, che accompagna la vita dei profughi, qui ha un aspetto dignitoso, non produce degrado.
Parliamo con Nazima, una donna di Farah vedova con un figlio e una figlia, il cui suo marito è stato ucciso dai russi quando lei stava portando a termine la seconda gravidanza. Ci descrive i problemi che le donne dei campi devono affrontare: il primo è di natura economica, il secondo riguarda la possibilità di dare un’educazione ai propri figli.
Le vedove soprattutto sono in difficoltà perché sono sole. Alcune lavorano al campo e fanno i tappeti, altre vanno a lavorare di notte nella fabbrica di mattoni, portando con sé i figli piccoli. Tornano al mattino presto quando è ancora buio, per non farsi vedere; le donne infatti non potrebbero lavorare fuori casa.
Per dare un’educazione completa ai figli, dovrebbero tornare in Afghanistan, a Peshawar infatti non c’è l’ università per afghani e molte sono le restrizioni imposte dal Pakistan ai profughi, ma questo è impossibile perché nel loro paese non hanno più nulla, né una casa, né un parente che le possa aiutare, né potrebbero accedere ad un lavoro, necessario per produrre reddito. In Afghanistan poi le donne continuano a non avere alcun diritto, a subire violenze e ad assistere impotenti ai soprusi dei mariti che, prigionieri della mentalità tribale, danno ancora in moglie le proprie figlie di tredici anni a uomini spesso molto più vecchi, condannandole ad un destino di infelicità.
Anche Malalai, una donna giovane sui trent’anni che si avvicina per parlare con noi, è rimasta vedova con un’unica figlia, quindici anni fa, e non ha più voluto sposarsi.
Nonostante i problemi quotidiani, dipendenti dalla difficoltà ad avere un’erogazione continua della luce e dell’acqua e dalla mancanza di reddito, Malalai sostiene che qui al campo la vita è ancora bella perché ha almeno la possibilità di uscire in cortile per sedersi a bere un the con le vicine. Se tornasse in Afghanistan, non avrebbe nemmeno questo, sarebbe completamente allo sbando, senza nulla e senza la compagnia di nessuno.
Tre ragazzine con il libro in mano confermano quanto dice Malalai, aggiungendo che qui si può andare a scuola, giocare, muoversi senza dover portare il burqa.
Anche Danish, che ha vissuto qui dal 1996 al 1999, ha un bellissimo ricordo della vita al campo, ricorda soprattutto la sera, quando le ragazze uscivano insieme e insieme parlavano dei loro problemi e dei loro sogni, facendo progetti per il loro futuro.
Visitiamo i due ostelli, maschile e femminile, dove risiedono ragazzi e ragazzi di età compresa tra i 15 e i 18 anni, i cui genitori sono in viaggio per l’Afghanistan in cerca di una sistemazione adeguata per potersi ricongiungere poi con il resto della famiglia.
Anche loro si stanno preparando per gli esami, ma interrompono i loro studi per venirci a dare il saluto di benvenuto.
La scuola del campo comprende dalla prima alla dodicesima classe, l’età degli studenti va dai sei ai diciotto anni.
Oggi tanti ragazzi, formati da Rawa, hanno trovato un buon lavoro, sono riusciti ad andare all’università e si sono sposati. Hanno avuto insegnanti ottimi, alcuni di loro sono tornati in Afghanistan qualche anno fa per dare il loro contributo alla ricostituzione del sistema scolastico e hanno scritto dei libri sulla loro esperienza didattica nei campi profughi. Contro la trasmissione autoritaria di un sapere libresco e nozionistico che condanna alla ripetizione passiva senza coinvolgere la persona e appesantisce la mente in quanto non fornisce gli strumenti della critica, il modello pedagogico sperimentato nei campi presenta un tipo di scuola attiva e dialogica, dove lo studente, nel rispetto delle possibilità e delle modalità cognitive relative alle varie tappe del suo sviluppo psicologico, diventa protagonista di un percorso di conoscenza che parte dalla concretezza dei suoi bisogni e dalla situazione storica che ha fatto di lui un profugo.
Mentre si appropria degli elementi del leggere e dello scrivere, lo studente impara anche a riconoscere e a criticare la mentalità patriarcale, diventa capace di interrogare la propria cultura per liberarla dal fanatismo e soprattutto viene aiutato ad acquisire quell’autonomia di giudizio che è la condizione fondamentale per permette ad ogni persona di costituirsi come soggetto responsabile e cittadino consapevole dei propri diritti e dei propri doveri.
Ascoltando Danish che parlava con passione di questa esperienza che l’aveva coinvolta in prima persona in quanto donna formata nelle scuole di Rawa, mi venivano in mente il modello pedagogico elaborato da don Milani nella Scuola di Barbiana e il fermento politico che aveva permesso ai lavoratori di acquisire il diritto a 150 ore di studio per completare la loro formazione culturale.
Parliamo con alcune ragazze che risiedono nell’ostello femminile e chiediamo loro come immaginano il loro futuro. Si presentano coi loro nomi e la più spigliata chiede anche a noi di presentarci così l’incontro sarà meno anonimo.
Ferusa vorrebbe fare l’ingegnere per potersi impegnare nella ricostruzione del suo paese; Yelda vorrebbe diventare medico e tornare in Afghanistan per curare la sua gente che continua a morire per malattie banali; Massuda dice che, avendo ricevuto tanto da Rawa, vorrebbe restituire qualcosa, frequentare l’università e lavorare per il bene del suo paese; Adla vorrebbe diventare un’insegnante e occuparsi soprattutto dell’educazione delle donne per farle uscire dall’analfabetismo che le condanna a vivere una vita umiliante; tutte parlano un buon inglese, mostrano un’autonomia di giudizio e un senso di maturità che conferma l’alta qualità della formazione che ricevono.
Uscendo dall’ostello, entriamo nel quartiere abitato dagli afghani appartenenti all’etnia pashai che si distingue per il colore chiaro della pelle e gli occhi verdi. I pashai sono stati i primi ad arrivare al campo, fra di loro c’erano persone scolarizzate che si sono impegnate duramente per convincere la propria gente, in gran parte analfabeta, a rompere con l’ignoranza e a frequentare la scuola.
Nel piccolo ufficio, dove Rawa gestisce il Campo, incontriamo Rabia, una donna della prima generazione di Rawa che ha conosciuto Meena e ha lavorato con lei a Kabul. Ha i capelli rossastri raccolti in un’ampia treccia annodata al capo, il suo volto, nonostante l’età, è ancora fresco, i suoi occhi ci guardano con affetto e benevolenza, l’abbraccio è caloroso e il contatto con il suo corpo, provato dalla fatica e dagli stenti, trasmette l’intensità di una vita che suscita rispetto ed emozioni profonde, la sua voce calma e decisa si dispiega nel racconto appassionato del testimone che, oltre ad aver vissuto sulla propria pelle l’invasione sovietica, l’orrore della guerra, la violenza del fondamentalismo, si è impegnato per costruire un mondo più giusto e per ridare dignità alla persona.
Noi ascoltiamo in assoluto silenzio la storia di un popolo martoriato e di un gruppo di donne che non hanno esitato a rischiare la vita in nome della libertà e della democrazia.
Dopo l’invasione sovietica (1979-89) inizia per Rawa un periodo difficilissimo, le sue militanti avevano paura di essere scoperte perché sapevano di essere spiate, non si sentivano al sicuro da nessuna parte e dovevano continuamente cambiare dimora. Allora quasi nessuna donna portava il burqa, ma le donne di Rawa si sono imposte di portarlo per poter nascondere sotto quel sudario i volantini e gli opuscoli politici che cercavano di diffondere tra la popolazione per informarla e formarla. Non prendevano mai il taxi, ma solo l’autobus per potersi confondere meglio con la gente e non dare nell’occhio.
Meena era instancabile, lavorava moltissimo, era sempre in giro, si fermava solo per brevi pause e per mangiare un pezzo di pane. Il suo entusiasmo e il suo coraggio contagiavano tutte le altre donne, che non esitavano ad assumersi responsabilità e compiti molto rischiosi. In quel tempo Meena e le sue compagne erano impegnate a organizzare il maggior numero possibile di corsi di alfabetizzazione destinati alle donne; erano corsi clandestini che spesso venivano tenuti in cantine buie, lontano dagli sguardi indiscreti, dove, oltre a insegnare a leggere e a scrivere, si incitavano le donne a prendere parte alla resistenza.
Gli arresti purtroppo erano frequenti.
Rabia era una staffetta, portava i messaggi di Meena alle donne rinchiuse in prigione, dove si recava per i colloqui. Il carcere di Pul-i-charki, a Kabul, dove venivano scaraventati i prigionieri politici durante il periodo dell’invasione sovietica, era durissimo, i detenuti erano rinchiusi in loculi, potevano stare solo in piedi o rannicchiati per terra senza nessun’altra possibilità di movimento.
Rabia ci dà una dimostrazione di come riusciva a far entrare e uscire i messaggi: prende un pezzetto di carta, lo piega più volte, poi infila il biglietto nella lunga treccia avvolta sul capo, rendendolo invisibile.
Rabia correva sotto la neve e la pioggia, incurante del freddo, unicamente preoccupata di arrivare a destinazione senza farsi scoprire. Il freddo e l’umidità sono però penetrati nel suo corpo tanto è vero che oggi fa fatica a camminare a causa di una dolorosa artrite.
Qualche giorno prima che Meena fosse uccisa, Rabia aveva avuto un sogno premonitore che l’aveva molto allarmata. Nel sogno Meena spariva, veniva strappata via, nessuno la trovava più. Rabia si era svegliata sconvolta, aveva capito che Meena sarebbe stata uccisa e che nessuno avrebbe potuto salvarla.
Perdendo Meena, ha perso la madre, la sorella, l’amica. In seguito ha dovuto lasciare l’Afghanistan per rifugiarsi in Pakistan. Il suo cuore era come morto, riprendeva a battere solo quando vedeva la figlia di Meena.
E’ stato molto faticoso elaborare il lutto. Oggi è orgogliosa e contenta di aver avuto una leader che ha saputo creare un’associazione che è durata nel tempo ed esiste tuttora, un’associazione che nessuno è stato capace di piegare e di ridurre al silenzio.
Questa è la sua grande consolazione.
Io mi sento quasi intimidita davanti a lei, avverto il suo dolore e il suo giusto orgoglio, la profonda passione che anima e ha animato la sua vita, quel senso di dignità e quella capacità di autostima che l’ hanno spinta ad essere protagonista di un cammino di liberazione insieme a tante altre donne che lei chiama “sorelle”; avverto anche quella sua modestia che rende ancora più preziosa e intensamente umana la sua storia.
Quando ha iniziato a raccontare, Rabia è stata raggiunta dal marito, che le si è seduto accanto, ascoltandola in silenzio e con grande rispetto, guardandola spesso con occhi commossi e solidali.
Shukurin, questo è il suo nome, è stato imprigionato per cinque anni nel carcere di Pul-i-charki, durante l’occupazione sovietica.
E’ un uomo alto, dai modi gentili e paterni; lascerà il campo di Kheewa insieme a noi perché vuole accompagnarci a Kabul, che raggiungeremo via terra, attraversando il Khyber Pass situato nella catena dell’Hindukush e nel cuore delle aree tribali, dove l’unica legge, che si rispetti, è il codice d’onore, dove il traffico di droga e di armi avviene sotto la luce del sole, dove la sicurezza è davvero un miraggio.
Lasciamo Kheewa-camp che è ormai buio, seguite da una processione di bambini e dal saluto delle donne che, ferme sulla porta di casa, portano la mano sul cuore.
Una bambina mi offre un mazzolino di fiori di campo gialli che non ho mai visto; inutile dire che la commozione mi riempie gli occhi di lacrime.
Oggi a Kheewa-camp rimangono 4.800 profughi, solo mille persone circa sono rientrate nel loro paese.


2. Dal Pakistan all’Afghanistan attraversando il Khyber Pass

Dopo due giorni vissuti tra i profughi, giorni molto intensi ed estremamente coinvolgenti per la ricchezza degli incontri, ma anche giorni di sofferenza di fronte alle enormi difficoltà di chi ha perso tante cose e tanti affetti e ha davanti a sé un futuro incerto, partiamo per Kabul.
E’ necessario procurarsi il lasciapassare che il governo pakistano rilascia, imponendo però una guardia del corpo che dovrebbe proteggere e difendere il viaggiatore da ogni evenienza. Sul nostro pulmino sale un giovane uomo armato di kalashnikov che si siede a fianco dell’autista. Ha l’aria impacciata e piuttosto timida... per fortuna abbiamo con noi “Coco Shukurin”, come lo chiama affettuosamente Danish, che, senza armi né divisa militare, riesce a trasmetterci sicurezza e serenità.
Ci mettiamo in marcia in tarda mattinata.

a) Sosta a Jalalabad e incontro con le donne di Rawa

Attraversiamo le aree tribali, una sorta di territorio extra-nazionale tra Pakistan e Afghanistan che i Pashtun chiamano, polemicamente, Pashtunistan per sottolineare la loro autonomia politica. Qui la giustizia è amministrata, seguendo i dettami dell’antico codice tribale (Pashtunwalì), un codice duro e inesorabile, molto più severo della stessa sharia (legge coranica), che pone in primo piano la difesa dell’onore e il diritto-dovere della vendetta per riparare le offese subite.
In prossimità del Khyber Pass un simbolo guerresco sottolinea l’infinita lontananza di questo luogo dallo Stato e dalle sue leggi; due kalashnikov incrociati , disegnati sulla roccia, danno il benvenuto con la seguente scritta: “Khyber pass rifles welcome you”.
Non ci si può fermare in questo luogo insidioso, non si può entrare nelle aree tribali, si può solo transitare, pagando il pedaggio.
A Towr Kham, che segna il confine tra i due Stati, scendiamo e andiamo nell’ufficio immigrazione per il controllo dei passaporti e dei permessi, che è severissimo.
In questo piccolo paese di frontiera il movimento è frenetico e caotico: camion ammassati che cercano di passare, facce e mani di bambini che premono sui finestrini delle auto sgangherate, mendicando qualcosa per mangiare, una folla di persone che fa la spola tra Pakistan e Afghanistan, sostando in mezzo al fango che in certi punti arriva alle caviglie
Qui salutiamo il nostro autista pakistano e lasciamo la guardia del corpo. Entriamo a piedi in Afghanistan e, dopo il controllo dei passaporti in un clima più rilassato e cordiale, riprendiamo la strada su un altro mezzo, in compagnia di autisti afghani e sempre protette da Coco Shikurin che nel frattempo ha comprato per noi il buonissimo pane afghano.
Ci inerpichiamo e ci inabissiamo su una strada a tratti sassosa e polverosa, ai cui lati spesso si vedono camion rovesciati o impantanati nel terreno melmoso. Il cielo terso e luminoso accende il colore rossastro delle montagne più basse e accentua il colore livido di quelle più imponenti; lande brulle e desolate, interrotte a volte da agglomerati di povere case di fango, descrivono uno spazio misterioso e inquietante; nelle vallate più ampie scorrono fiumi impetuosi che alimentano coltivazioni di ortaggi e di papavero da oppio; nell’immensa solitudine del paesaggio sospeso tra cielo e terra si scorgono gli abiti vivaci dei nomadi kuci, piccoli gruppi di donne e bambini che portano al pascolo pecore e capre, rischiando di saltare per aria a causa delle mine che infestano il territorio, come segnala la presenza di alcuni sminatori che si muovono guardinghi sotto il peso delle tute protettive, contribuendo a dare a questo luogo estremo un aspetto quasi surreale.
All’imbrunire arriviamo a Jalalabad, situata alla confluenza dei due fiumi Kabul e Kunar e capoluogo della provincia di Nangarhar. Vicina alle aree tribali dove ancora si nascondono gruppi di taleban e terroristi di al-Qaeda che spesso compiono incursioni per colpire i soldati americani e i loro alleati, la città è poco sicura.
Con fatica riusciamo a farci accogliere allo Spinghar Hotel, il cui gestore in un primo momento ci aveva respinto con scuse assurde, tipo quella che non c’era posto in quella struttura enorme e chiaramente semivuota. E’ merito del marito di Nahid, una giovane donna di Rawa che incontreremo, se la trattativa andrà in porto. Con molta pazienza e altrettanta decisione tratta col gestore sul prezzo e sulle misure di sicurezza da adottare per proteggere il nostro soggiorno. .
All’ingresso una lapide sul muro esterno, posta il 19 novembre 2001 dai giornalisti afghani in memoria dei colleghi stranieri che hanno perso la vita in Afghanistan, ricorda i nomi di Maria Grazia Cutulli (Italia), Julio Fuentes (Spagna), Harry Burton (Australia).
Intorno un giardino rigoglioso con palme, secolari alberi di ulivi, fiori esotici e una piccola moschea illuminata dai colori accesi del tramonto; la voce del muezzim, che invita alla preghiera serale, si propaga nell’aria e improvvisamente scende il silenzio.
Nell’atrio si incontrano solo uomini con barbe e turbanti che sembrano controllare ogni nostro movimento.
Qui riceviamo la visita di Nahid, Farzana, Fauzia e Leena, donne di Rawa che operano a Jalalabad e dintorni. Arrivano coperte dal ciadri, che toglieranno al momento delle presentazioni, mostrando i loro giovani volti.
Leena è un medico dentista che lavora in una clinica. Mentre svolge la sua professione, parla alle donne del progetto politico di Rawa, cerca di coinvolgere e di convincere quelle non scolarizzate a frequentare i corsi di alfabetizzazione, offre aiuti alle vedove e alle madri nella cura dei figli.
Nahid, fino a tre mesi fa, lavorava al campo profughi di Kheewa dove ha frequentato la scuola fino alla dodicesima classe, diplomandosi, e ha insegnato nell’orfanotrofio. Adesso sta preparando un esame particolarmente difficile per accedere all’università. Al campo ha partecipato a tutte le attività di Rawa, distribuendo documenti politici, avvicinando le donne per aiutarle a liberarsi dal giogo della schiavitù all’uomo e alla fine è stato naturale per lei diventare membro di Rawa.
Si è sposata all’età di 15 anni con un matrimonio combinato dalle famiglie e ora ha poco più di vent’anni. E’ stata fortunata perché suo marito, che ha qualche anno più di lei e ha frequentato fino alla dodicesima classe, era già supporter di Rawa e quindi ha una mentalità aperta e un grande rispetto per la donna. Contravvenendo alle regole consolidate nella società afghana che costringe le donne a generare figli in età adolescenziale, il marito non le ha messo alcuna fretta e le ha detto apertamente:”Prima porta a termini i tuoi studi, poi penseremo ai figli e li avremo solo quando tu vorrai”. Anche se non possono stare insieme molto, Nahid e suo marito hanno una vita serena perché si sentono in sintonia.
Chiediamo alle nostre amiche come fanno a conciliare lo studio, l’impegno politico, la famiglia e Leena ci risponde che è come percorrere una tabella di marcia dove tutto si svolge con regolarità.
Del resto, quando hanno deciso di diventare membri di Rawa, sapevano che avrebbero dovuto affrontare molti sacrifici, ma questo non le ha fermate perché a loro sta molto a cuore il futuro del loro popolo tanto è vero che, se potessero, farebbero ancora di più.
Fauzia precisa che, a Jalalabad, hanno sempre cercato di sostenere le donne anche durante il governo dei taleban, addirittura avevano fondato una ONG per poter svolgere il loro lavoro in modo più aperto e meno clandestino.
Le donne di Rawa sono spesso aiutate da mariti, fratelli, figli maschi, ugualmente coinvolti in questo impegno finalizzato a migliorare la vita del loro popolo.
I supporter maschili si occupano della sicurezza delle donne di Rawa, distribuiscono opuscoli e materiale politico, si trovano tra di loro per organizzare le manifestazioni pubbliche e tutti sono convinti che, per garantire un futuro di democrazia all’Afghanistan, è necessario che gli uomini cambino mentalità, mettano cioè in discussione la cultura tradizionale patriarcale che riconosce all’uomo diritto di vita e di morte sulla donna in quanto sua proprietà.
I supporter maschili sono l’esempio concreto che questo cambiamento di mentalità è possibile. Quando si incontrano, parlano tra di loro di questo problema e cercano di convincere altri uomini ad abbandonare la visione tribale che imprigiona l’Afghanistan in un anacronistico sistema sociale, foriero solo di miseria, lutti, abusi e di comportamenti disumani.
Gli insegnanti in particolare svolgono un lavoro egregio in questa direzione perché non si limitano a narrare i fatti storici, o ad insegnare a leggere e a scrivere, hanno bensì il coraggio di dire che il patriarcato va superato, denunciandone l’origine storica e non divina e contribuendo così a formare coscienze critiche, immuni dalla deriva fondamentalista.
I supporter di Rawa sanno che la democrazia e l’affermazione dei diritti di cittadinanza sono un obiettivo trasversale che riguarda tutti e, come tale, coinvolge sia gli uomini che le donne.
E’ il marito di Nahid, aiutato da Danish, a spiegarci, con convinzione e passione, l’impegno e il punto di vista dei supporter maschili.
Chiediamo come giudicano l’attuale situazione politica in Afghanistan e la risposta non è rassicurante. I signori della guerra non sono stati disarmati, continuano a seminare paura e insicurezza, il governo non ha alcun controllo sul territorio nonostante la presenza dell’Isaf.
Ciò che Karzai ha promesso a Bonn non è stato mantenuto, eppure il popolo afghano non chiede la luna, chiede solo cibo, lavoro e sicurezza.
Qualche piccolo passo avanti è stato fatto, le bambine possono andare a scuola, anche se il 60% continua a non frequentarla, e le donne possono accedere a qualche lavoro esterno alla casa, ma a loro rischio e pericolo.
Chiediamo anche che cosa pensano del messaggio contraddittorio inviato da Karzai che contemporaneamente nomina governatore di Bamiyan Habiba Sorabi, una donna di sicura fede democratica proveniente dalle file di HAWCA ed ex ministro degli Affari Femminili, e ministro della difesa Dostum, uno dei più sanguinari signore della guerra,.
Il marito di Nahim ci risponde che sono molto orgogliosi della scelta di Habiba. Come ministro ha fatto un buon lavoro e sono sicuri che governerà Bamiyan con giustizia e competenza, imponendo il rispetto della legge e dei diritti umani.
Mi vengono in mente le parole di Zoia a Rawalpindi. Anche per lei è significativa la nomina di Habiba a governatore, carica più importante di quella di ministro perché le consentirà di esercitare il controllo su una provincia che prima era nelle mani di Khalili, signore della guerra. Habiba fra l’altro aveva rifiutato la nomina di ambasciatore perché voleva restare a lavorare in Afghanistan.
Per quanto riguarda Dostum, il problema è più complesso. Prima delle elezioni presidenziali avevano cercato di ucciderlo, nominarlo ministro è stato un modo per tenerlo buono e dargli un contentino.
Karzai non ama i signori della guerra che oltretutto indeboliscono il suo potere spadroneggiando nelle province, ma non può eliminarli perché sono sostenuti dagli Stati Uniti, cerca quindi di cooptarli, sperando di riuscire a tenerli sotto controllo. In questo modo si limita a dare un colpo al cerchio e un colpo alla botte senza poter risolvere il problema alla radice.
Anche Zoia vedeva la cosa nello stesso modo. Lasciare Dostum nel suo feudo di Mazar-i-Sharif, dove poteva fare il bello e il brutto tempo senza alcun rispetto per le disposizioni emanate dal governo centrale, era più pericoloso perché il suo operato rimaneva assolutamente fuori controllo. La sua nomina a ministro è stata dunque una mossa per cooptarlo con la speranza di riuscire a sbarazzarsi di lui in un secondo tempo.
Rawa non approva la politica di Karzai, che è la politica degli americani, i quali continueranno a usare e ad appoggiare i signori della guerra fino a quando faranno i loro interessi, ma non esiteranno a scaricarli, come hanno fatto con i taleban, qualora diventassero un ostacolo alla loro politica in Asia centrale.
Il popolo afghano invece vorrebbe che Karzai prendesse una posizione netta contro questi criminali che impediscono all’Afghanistan di incamminarsi verso la democrazia.
Karzai non ha mantenuto le sue promesse, tuttavia rimane uno dei pochi leader che non hanno le mani sporche di sangue. Fino a quando farà qualcosa per contrastare l’anarchismo feudale dei signori della guerra, Rawa lo accetterà, sia pur criticando il suo governo, poi si vedrà. Certo, la situazione è molto delicata e Rawa dovrà combattere su più fronti, insieme alle forze democratiche presenti nella società civile afghana, per liberare il paese dal ricatto dei suoi nemici interni e dalla subalternità agli interessi stranieri.

b) Kabul: Rawa celebra la Giornata della Donna (10 marzo)

L’incontro con le donne di Jalalabad è stato molto ricco non solo per le informazioni che ci hanno dato sul loro lavoro e sul loro paese, ma soprattutto perché ci ha permesso di conoscere un po’ più da vicino l’operato e l’identità dei supporter maschili di Rawa. Con la loro presenza silenziosa e vigile consentono alle donne di essere protagoniste del loro cammino di emancipazione e di liberazione, consapevoli che la loro lotta per i diritti umani avrà una ricaduta positiva sull’intera società e contribuirà a cambiarla dal di dentro, ridando le ali alla speranza in un futuro migliore.
Il mattino seguente riprendiamo il nostro viaggio verso Kabul, dove le donne di Rawa ci aspettano per celebrare insieme a noi la “Giornata della Donna”.
Ci inerpichiamo e ci inabissiamo nuovamente sulla strada tortuosa che si snoda tra le propaggini della catena dell’Hindukhus, asse portante di tutta la geografia afghana, simile ad una spina dorsale che attraversa diagonalmente tutto il paese, decrescendo gradualmente dalle alte quote dei monti sino alla quota media dell’altopiano e livellandosi nelle pianure al confine con l’Iran.
Entrando in una gola stretta, dove il sole penetra a fatica, Danish ci dice che nel periodo della guerriglia dei mujaheddin contro i sovietici, questo era il check point di Zardag, feroce signore della guerra appartenente all’etnia pashtun. Le testimonianze dei sopravvissuti raccontano che Zardag ha ucciso migliaia di persone, a cui strappava perfino gli occhi. Aveva inoltre allevato un uomo come un cane, lo teneva alla catena e lo aizzava contro le sue vittime, ordinandogli di morderle e di mangiare la carne strappata dai loro corpi. Oggi Zardag vive, ricco e impunito, a Londra.
Di fronte a questi orrori, si capisce perché Rawa insiste sulla necessità di istituire un tribunale internazionale che possa giudicare e condannare i signori della guerra in quanto responsabili di efferati crimini contro l’umanità.
Dopo circa sei ore di viaggio, ci avviciniamo a Kabul. Percorriamo l’ultimo tratto su una strada che, salendo tra rocce che la sovrastano a picco e scendendo con ripidi tornanti, si infila nelle orride gole di Tang i-Garu, seguendo da vicino il fiume che rimbalza continuamente tra rapide e cascate.
Prima di entrare in città, facciamo una sosta nella pianura racchiusa tra le montagne innevate dove sorge il carcere di Pul-i-Charki, un’immensa costruzione completamente rimessa a nuovo, che accoglie dodicimila prigionieri.
Ai tempi dell’invasione sovietica quella pianura era chiamata la “piana di Kerbala”, per sottolineare il martirio dei molti prigionieri politici morti in quel carcere tra orrende torture. L’attributo carica di valore simbolico il luogo e richiama alla memoria un tragico evento nella storia dell’Islam.
Nel 680, nella piana deserta di Kerbala, situata nell’odierno Irak e luogo santo per gli sciiti, Husayn, nipote di Maometto e terzo imam sciita, perse la vita insieme a settantadue fedeli, ucciso nella battaglia contro il corrotto califfo Yazid, della dinastia degli Omayyadi, accusato di condurre un’esistenza irrispettosa dei principi dell’Islam. Per il suo sacrificio, Husayn divenne il modello del martire; da allora, infatti, ogni anno gli sciiti celebrano l’anniversario della sua morte con processioni di flagellanti e allestimenti teatrali che ricordano le tappe che portarono alla sua tragica fine.
Coco Shikurin guarda in silenzio quel luogo che gli ha rubato cinque anni di vita, noi gli siamo vicino con rispetto e profonda solidarietà.
Riprendiamo il cammino e arriviamo in tempo al nostro appuntamento con le donne di Rawa che stanno celebrando la “Giornata della Donna” in un grande salone tappezzato di manifesti inneggianti alla libertà, alla democrazia, ai diritti umani.
E’ la prima volta che l’iniziativa si svolge nella città di Kabul. E’ gestita in prima persona dalle donne di Rawa che vivono in Pakistan e non dalle militanti che vivono nella capitale, queste ultime infatti potrebbero essere identificate e la loro vita sarebbe ancora più in pericolo.
Danish è raggiante di gioia, ci guarda incredula e ci chiede se ciò che sta vedendo è sogno o realtà. Noi la rassicuriamo e il suo volto si illumina, è felice, le sembra di essere in paradiso.
Quando hanno deciso di organizzare la giornata, hanno telefonato all’Isaf e alla polizia afghana per avere protezione e entrambi hanno risposto al loro appello. L’edificio infatti è sorvegliato da alcuni soldati svedesi dell’Isaf e da alcuni poliziotti afghani.
Il salone è stracolmo di persone: ci sono donne, uomini, bambini, tutti attenti e molto partecipi a quello che succede sul palco. Sulla parete centrale è appeso un grande manifesto che rappresenta una figura incappucciata e senza volto, con le braccia alzate, imprigionate da una catena che viene spezzata; sulle pareti laterali ci sono frasi in inglese che dicono: “la democrazia è incompleta senza secolarismo”, “libertà, democrazia e diritti delle donne”, “democrazia, secolarismo e diritti delle donne”.
Sohaila dirige la manifestazione. E’ un piacere ritrovarla, vederla sicura e decisa nello svolgimento del suo compito, ma anche emozionata.
Portiamo il nostro saluto, leggendo il seguente comunicato che avevamo preparato insieme la sera prima a Jalalabad.
“Care sorelle, il rapporto che ci unisce da molti anni ci ha permesso di conoscere in profondità i vostri ideali e la vostra storia. Vi sentiamo vicine, ci sentiamo vicine. Insieme condividiamo lo stesso progetto di liberazione da tutti i fondamentalismi, dalle guerre, dalla miseria, dalla paura.
In ogni momento voi ci insegnate il valore della vita che esige di mettere in primo piano la dignità della persona. Denunciando la tragica condizione della donna schiacciata e negata dalla violenta e ingiusta legge del patriarcato, ci spronate a non dimenticare che anche noi, che pur viviamo in un contesto storico differente, abbiamo il dovere di continuare a lottare contro forme di negazione del femminile ancora presenti nella nostra società. Il vostro entusiasmo e la vostra determinazione ci spingono a mantenere viva l’attenzione sul mondo e a denunciare le politiche di potenza che scambiano la democrazia con il diritto del più forte.
Voi, donne afghane, ci arricchite continuamente con il vostro progetto di società che pone in primo piano il dovere di riscattare chi da sempre è stato condannato a una condizione di marginalità e di restituirgli valore.
Noi siamo insieme a voi tutte le volte che insegnate a una donna e a una bambina a leggere e a scrivere.
Noi siamo insieme a voi tutte le volte che aiutate una donna a sollevare il capo e a sentirsi protagonista della sua storia.
Noi siamo con voi tutte le volte che denunciate i soprusi e chiamate ad agire perché nella società trionfi la giustizia come rispetto dovuto ad ogni persona, uomo e donna.
Con il vostro stile di lavoro che, mentre protegge i più deboli, cerca anche di cambiare la mentalità che li opprime, Voi ci ricordate che ogni società ha bisogno del contributo di tutti, uomini e donne, per crescere nell’armonia e poter guardare al futuro con speranza.
Grazie.”
Riceviamo un caloroso applauso che ci fa sentire accolte e lo ricambiamo con gratitudine.
Sul palco si alternano interventi di carattere politico, canti di ragazze che celebrano il rispetto dovuto alla patria (watan), ragazzi che suonano il violino e i tamburi, donne che recitano poesie, uomini e donne che vengono premiati con una targa recante il simbolo di Rawa e ringraziati con mazzi di fiori per il loro sostegno all’Associazione e il loro impegno a diffondere le pubblicazioni di Rawa durante il periodo dei taleban.
Una giovane militante di Rawa risponde alle critiche di alcuni giornali che accusano l’Associazione di usare un linguaggio troppo virulento che non favorisce la pacificazione.
Dice che la durezza è rivolta contro i criminali signori della guerra, come Khalili, Sayyaf, Dostum, i quali, al posto di essere condannati come responsabili di crimini contro l’umanità, sono stati eletti ministri e governatori.
La parola è l’unica arma, di cui dispongono i democratici per chiedere, con forza, giustizia per il popolo afghano. Il linguaggio di Rawa è crudo perché richiama una realtà altrettanto cruda. Le sue pubblicazioni non possono usare il linguaggio lieve delle riviste di moda perché l’obiettivo non è quello di divertire e di intrattenere, ma di denunciare le violenze e le ingiustizie per avviare un processo di vero cambiamento.
A coloro che ritengono più utile far cadere il silenzio sulle responsabilità di chi ha condotto il paese al disastro e per questo si dichiarano neutrali, Rawa risponde che non si può essere neutrali di fronte al crimine e che la neutralità è solo una forma di connivenza e di complicità con gli assassini.
I conti con il passato devono essere fatti fino in fondo se si vuole aprire una pagina nuova nel presente, altrimenti il passato ingoierà il presente, privandolo del suo slancio verso il futuro.
Mi vengono in mente le riflessioni del filosofo Ricoeur sul significato della memoria e dell’oblio.
L’impegno a ricordare attiva una memoria che non è semplice narrazione di ciò che è stato, ma ripensamento e individuazione di ciò che non è stato, delle promesse non mantenute, delle illusioni che hanno fatto abbassare la soglia di vigilanza; solo in questo orizzonte di senso la memoria cessa di essere la custode passiva del passato per diventare l’ organo del futuro.
Le militanti di Rawa ricordano per liberare il presente dall’inganno di una falsa democrazia, parola vuota in bocca a chi l’ ha sempre negata nei fatti; ricordano per impedire l’affermarsi di quel revisionismo storico che eleva i carnefici a eroi e in questo modo assumono il compito morale di aprire le menti alla critica e di denunciare la mistificazione del silenzio, compito che dovrebbe essere assolto dagli intellettuali.
Il coraggio del futuro esige che la lotta contro i criminali, riciclati nelle strutture dello Stato, diventi la lotta dell’intero popolo afghano, esige anche che ci si impegni a denunciare il fondamentalismo religioso per aiutare il mondo a comprendere che quanto è successo in Afghanistan dal 1991 in poi non ha nulla a che vedere con l’ Islam, è bensì l’avvelenato frutto della lotta per il potere che diverse fazioni di fondamentalisti, strumentalizzando il messaggio del Corano, hanno combattuto tra di loro, al soldo di alcune potenze straniere e di alcuni gruppi terroristici che predicavano la guerra santa contro l’Occidente e contro i paesi islamici moderati.
Dopo questo intervento che ha lo spessore di una grande lezione di storia e di civiltà, una donna hazara recita, con voce ispirata e piena di sentimento, una poesia che celebra la forza e la capacità di resistenza delle donne.
“Anche se hanno distrutto i fiori,
non possono eliminare la primavera.
Anche se ci combattono e ci uccidono,
noi continueremo ad essere vive.”
Un cantante canta una canzone popolare, ricevendo molti applausi; un coro di ragazze canta in lingua dari “El pueblo unido” degli Inti Illimani, coinvolgendo anche noi che quasi non crediamo alle nostre orecchie e infine un gruppo di giovani mette in scena una recita teatrale sulle elezioni che ridicolizza l’ignoranza abissale di un candidato fondamentalista analfabeta, che viene istruito sul modo di presentarsi e sulle cose da dire ai due giornalisti spagnoli venuti ad intervistarlo.
Si tratta di un comandante delle milizie di un signore della guerra, così deprivato culturalmente da sembrare una bestia. E’ stato messo nelle liste di un partito islamico, di cui non conosce nemmeno il nome. Goffamente vestito all’occidentale, fa una fatica enorme a portare le scarpe e non riesce a trovare il modo di aggiustarsi la cravatta. Quando i giornalisti si presentano, si preoccupa soltanto di mettersi in posa per farsi fotografare. Quando gli chiedono qual è il programma del suo partito, risponde solo sciocchezze e alla fine si mette a parlare a vanvera. Proclama che inventerà un sistema democratico profondamente religioso, che, per prendere voti, parlerà dei diritti delle donne per quaranta giorni e poi mai più, come hanno già fatto a Kabul, che le donne hanno il diritto di preparare da mangiare ai mariti, di fare figli, di vestire il burqa e di parlare sotto il burqa e infine sostiene che coloro che hanno combattuto contro gli infedeli in Afghanistan non devono più essere chiamati “signori della guerra”, ma eroi.
I giornalisti se ne vanno sconcertati. Lo sponsor del candidato, rendendosi conto di aver buttato via il suo denaro con un idiota incapace di dare un’immagine credibile del partito, lo caccia a pedate, gridandogli che è un caprone.
La scena era di una comicità esilarante, ma con la sua pungente ironia denunciava la situazione reale dell’Afghanistan, assumendo il significato di una lezione di educazione civica.
Grazie al radicamento di Rawa nella società afghana che le ha permesso di radunare così tante donne e grazie alla capacità delle sue militanti di coniugare sapientemente il discorso politico con la poesia, il canto e la rappresentazione teatrale, la “Giornata della Donna” si è configurata come un evento culturale di grande significato umano e politico in quanto ha permesso a tutte le persone presenti di fare un’ importante esperienza di conoscenza e di partecipazione in un luogo pubblico.

c) Kabul: incontro con il portavoce del partito Hezb-e-Hambastagi e con il direttore della rivista Rozgaran.

Il giorno dopo incontriamo Safura che si occuperà del nostro soggiorno a Kabul. E’ un piacere immenso rivederla, abbracciarla, ritrovare nei suoi occhi scuri e profondi la stessa passione, la stessa tenerezza, l’intensità di chi conosce la sofferenza e la sa trasformare in speranza, rivivere nel contatto dei corpi l’emozione e la gioia che accompagnano i gesti dell’amicizia, risentire la sua voce calma che rassicura e trasmette alle parole un’intensità emotiva che va diritta al cuore.
Infinitamente paziente, sempre protesa verso l’altra per accoglierla e ascoltarla, sempre presente ai bisogni di tutti, sempre lucida nelle sue analisi e anche capace di ironia di fronte alle contorsioni della politica ufficiale, Safura incarna un’autorevolezza che suscita rispetto e cattura in ogni momento l’attenzione di chi ha la fortuna di camminarle accanto.
E’ una gioia incontenibile sentirla pronunciare i nomi delle persone che sono venute in delegazione a Kabul nel marzo 2003; Safura si ricorda di me, di Libera, di Laura, di Debora, di Tito, di Ivana e ricorda tutto quello che abbiamo fatto insieme.
Questa volta è arrivata con il capo coperto e senza burqa, ma ci raccomanda di non fotografarla, anche se, sorridendo, si dice sicura che nessuna di noi la metterà in pericolo e che tutte noi la proteggeremo con la discrezione e l’affetto che lei ben conosce.
Ci presenta il programma della nostra giornata e poi, dietro nostra richiesta, ci parla delle prossime elezioni parlamentari, previste per settembre/ottobre. Ci annuncia che Rawa sta pensando di presentare, come indipendenti, nelle liste di alcuni partiti democratici, una decina dei suoi membri più anziani che, essendo più conosciuti per la continuità del loro lavoro svolto in molte province, avranno più possibilità di successo. La loro appartenenza a Rawa dovrà però rimanere segreta, per ragioni di sicurezza.
Questo nuovo orientamento politico nasce dalla consapevolezza che il Parlamento è il luogo istituzionale più importante per promuovere la democrazia; diventa dunque fondamentale per i partiti e i movimenti laici e democratici avere propri rappresentanti, che possano far pressione dall’interno affinché i diritti delle donne, che sono diritti umani, vengano assunti dal Parlamento stesso come impegno prioritario a beneficio dell’intero popolo afghano.
E’ necessario anche contrastare le manovre dei partiti fondamentalisti che usano strumentalmente la candidatura delle donne per attirare voti. In questi anni, con il loro protagonismo, agito tra mille minacce e molti ricatti, sono riusciti a prevalere nella Loya Jirga (assemblea generale dei capi di tutte le tribù afghane e dei rappresentanti delle province), a cooptare alcune donne nell’area di governo e ad ottenere i ministeri più importanti e questo non certamente per la loro ideologia politica, ma per i rapporti di forza che sono riusciti ad imporre. Safura è convinta che Rawa riuscirà a mandare in Parlamento almeno una sua rappresentante, ma è consapevole anche che si recherà alle urne non più del 40% delle donne perché molti uomini, imprigionati nella mentalità tradizionale, impediranno alle sorelle, alle mogli, alle madri e alle figlie di recarsi a votare.
Sessanta sono i partiti che si presenteranno alle elezioni, alcuni dei quali, pur dichiarandosi democratici, hanno un’impronta troppo nazionalista.
Chiediamo a Safura se non teme che le candidate di Rawa, nel corso del tempo, possano essere assorbite dai partiti in cui si presenteranno, come è successo a molte donne italiane candidate, come indipendenti, nei partiti di sinistra.
Safura ribadisce che le donne di Rawa rimarranno sempre autonome, soprattutto per quanto riguarda la problematica femminile. In un paese arretrato come l’Afghanistan uomini e donne devono procedere insieme contro il fondamentalismo e per la democrazia, facendo ciascuno la propria parte e con la specificità che li caratterizza e li distingue. Questo non è il momento di separare; le donne supporteranno gli uomini che operano per la laicità dello Stato e per la democrazia e gli uomini supporteranno le donne nelle loro lotte per i diritti umani.
Safura sottolinea inoltre che lo sguardo delle donne mira ad unire, non a separare perché le donne sono consapevoli che il cambiamento di mentalità, nel loro paese, riguarda tutti e aggiunge che Il sapere delle donne si esprime al meglio proprio nella capacità di tessere legami e di mettersi in relazione con l’altro senza smarrire la propria identità.

Partito Hambastagi (= uniti, insieme)

Incontriamo il dott. Mateen, responsabile del Partito, e un suo collaboratore che ci daranno una serie di informazioni utili per cogliere la specificità di questa formazione politica nata due anni fa con l’obiettivo di permettere al popolo afghano di riprendere nelle proprie mani il destino del paese, liberandolo dai condizionamenti di paesi stranieri che, con l’aiuto di gruppi fondamentalisti da loro sostenuti economicamente e militarmente, hanno usato l’Afghanistan per affermare i propri interessi.
- I fondatori. Sono intellettuali e persone con una buona scolarità che hanno partecipato alla resistenza contro l’invasione sovietica e hanno sperato, dopo il ritiro dell’Urss, di avviare un processo democratico che purtroppo è stato bloccato dallo scoppio della guerra civile tra le fazioni dei mujaheddin che hanno innestato una spirale di violenza mortale.
Molti di loro sono stati costretti a fuggire in Pakistan e in Iran, diventando profughi. Quando sono tornati in Afghanistan per reperire i mezzi necessari per fondare il partito, si sono autotassati. Ad esempio, il dott. Mateen ha venduto la sua casa, un professionista emigrato in Germania, che ha un lavoro qualificato, è tornato e, dei 1.500 dollari che guadagna al mese, ne versa 1.000 al partito. Tutti hanno contribuito di tasca propria per dar vita ad un partito che deve potersi muovere autonomamente e senza soggiacere ai ricatti di nessuno.
- Un partito autonomo e trasversale che si rivolge a tutti e lotta per uno Stato sovrano. Il partito intende rappresentare tutto il popolo afghano, indipendentemente dall’etnia e dalla religione a cui i singoli appartengono, perché questa è la condizione necessaria per realizzare la democrazia in quanto governo del popolo per il popolo. Particolare attenzione è riservata alla donne che, essendo le più penalizzate in una società dominata dalla mentalità patriarcale, devono essere assolutamente valorizzate e risarcite. Hanno sofferto molto e ora devono avere un ruolo di primo piano nella ricostruzione del paese, che ha bisogno di loro per uscire dalla miseria e dall’arretratezza.
Il partito intende denunciare i signori della guerra e portarli davanti ad un tribunale internazionale per eliminarli definitivamente dalla scena politica.
Respinge ogni finanziamento di paesi stranieri e in particolare prende le distanze dal Pakistan, dall’Iran e dall’Arabia Saudita, che giudica responsabili della distruzione dell’Afghanistan per il sostegno da loro dato alle formazioni politiche afghane più oscurantiste e retrive.
E’ molto critico anche nei confronti degli Stati Uniti che hanno commesso tremendi errori, finanziando e appoggiando i fondamentalisti di sempre. Il governo Karzai è una loro emanazione e può fare ben poco per il bene del paese, perché ha le mani legate. Per restituire il favore ai signori della guerra, loro alleati nella lotta contro i taleban, per tenerli buoni e non farli scannare fra di loro, gli Stati Uniti hanno sostenuto la loro nomina a governatori in alcune province e il loro insediamento in alcuni dei ministeri più importanti.
C’è un detto popolare che descrive molto bene la situazione: “il gatto ruba la carne di nascosto; per evitare che i signori della guerra rubino nascostamente qualcosa, hanno pensato di dare loro direttamente la carne”.
Questo sottolinea il clima di corruzione diffusa che blocca il processo di ricostruzione del Paese e non gli permette di uscire dalla miseria.
Va detto chiaramente che gli Stati Uniti non stanno aiutando l’Afghanistan a diventare un paese democratico e sovrano, anche se vogliono farlo credere; sono solo interessati alla ricostruzione che naturalmente deve portare vantaggi alla loro economia.
Ad esempio, al posto di riparare le dighe esistenti per portare acqua ed elettricità nelle province, costruiscono nuovi impianti, la cui manutenzione sarà completamente nelle mani delle aziende e dei tecnici americani. Nella provincia di Kandahar hanno costruito un generatore che costa 15 milioni di dollari e porta elettricità solo alla città omonima; se avessero riparato la diga esistente, avrebbero speso 10 milioni di dollari e avrebbero portato l’elettricità in ben tre province.
I Paesi europei non possono intervenire nella ricostruzione, non solo perché gli Stati Uniti pongono mille ostacoli, ma anche perché condividono la politica americana e sono ad essa subalterni.
Il Partito Hambastagi, come si può intendere, teme grandemente la politica americana.
- Promuovere una coalizione interpartitica e un patto elettorale. Dopo la caduta dei taleban hanno iniziato a formarsi piccoli partiti di ispirazione democratica che volevano dar vita ad un governo rappresentativo di tutti gli afghani, capace di rispondere ai bisogni reali della popolazione.
La prima preoccupazione di Hambastagi è stata quella di creare una coalizione tra partiti affini per avere più forza e agire con maggior incisività nella società. In vista delle prossime elezioni hanno dato vita infatti a un comitato interpartitico che mette in collegamento 16 partiti democratici, diversi fra di loro, ma con una visione simile sul modo di risolvere e di affrontare alcuni dei problemi che affliggono il Paese. Si tratta di un’operazione politica che consente di fare insieme tratti di strada per perseguire gli obiettivi comuni senza rinunciare all’ autonomia.
Si incontrano periodicamente e attualmente sono impegnati nella scelta dei candidati più competenti e più rappresentativi, che la coalizione nel suo insieme sosterrà al di là del singolo partito a cui i candidati fanno riferimento.
Questo è il significato del patto elettorale che hanno sottoscritto.
- Libero mercato e protezionismo. Hambastagi è favorevole al libero mercato, ma con alcune restrizioni protettive dell’economia nazionale. Un certo controllo sull’importazione permetterà al prodotto interno di essere commercializzato con più vantaggi e alle industrie nazionali di sfruttare le risorse locali senza dover dipendere troppo dall’esterno.
L’Afghanistan ha riserve di gas naturale, giacimenti di ferro, carbone, rame, zinco, berillio, minerali preziosi come smeraldi e lapislazzuli e enormi potenzialità idroelettriche data l’abbondanza di corsi d’acqua. Perché queste risorse possano essere sfruttate, è necessario però dare stabilità politica al paese con un governo autenticamente democratico che faccia gli interessi del popolo.
Prioritaria dovrà essere la costruzione delle infrastrutture (strade, acquedotti, energia elettrica) e dei servizi fondamentali (scuole, ospedali, case popolari) per migliorare la qualità della vita delle persone che mancano di tutto.
- La Costituzione. E’ sicuramente un passo avanti nell’anarchia generale che ha travolto il Paese, ma non è possibile accettarla “in toto” perché non garantisce la laicità dello Stato. Essa è molto carente e ambigua per quanto riguarda i diritti umani perché, con il suo continuo richiamo al rispetto della sacra religione dell’Islam, rinvia di fatto, nella sua applicazione, al diritto islamico che è ben diverso dal diritto internazionale. La religione non dovrebbe essere imposta, ciascuno dovrebbe poterla vivere come vuole, secondo la propria coscienza.
- Giudizio sulla situazione attuale. Le elezioni presidenziali hanno confermato Karzai, il più presentabile tra i diciotto candidati e Hambastagi lo ha sostenuto, nonostante sia compromesso con i signori della guerra. Purtroppo non c’erano alternative.
Karzai ha rimosso Ismail Khan da governatore della provincia di Herat, dove aveva reintrodotto la sharia, ma lo ha fatto ministro e ha fatto ministro anche Dostum, sanguinario signore della guerra.
Delle 34 province dell’Afghanistan, solo 4 sono rette da governatori democratici e dei 265 distretti, solo 10 sono in mano ai democratici.
Dopo le ultime elezioni le cose sono peggiorate perché i fondamentalisti si sono ben radicati nei posti di potere e fanno di tutto per proteggere i loro amici.
Recentemente è stato distribuito un elenco di terroristi internazionali, dal quale è stato tolto il nome di Gulbuddin Hekmatyar, responsabile della distruzione di Kabul all’epoca della guerra civile, che, dal Pakistan, dove si è nascosto, continua a preparare attentati contro l’Afghanistan ed è un nemico giurato della democrazia e dell’Occidente. Hekmatyar ha ricostruito le sue milizie e riesce a condizionare i rapporti di potere in Afghanistan attraverso suoi uomini di fiducia infiltrati nell’area di governo e negli organismi rappresentativi della repubblica; grazie a ciò attualmente controllerebbe un quarto della Loya Jirga e quattro governatorati locali.
Hambastagi si impegnerà moltissimo nelle prossime elezioni parlamentari perché è assolutamente necessario che i partiti democratici possano avere un buon numero di rappresentanti, se si vuole che il paese cambi rotta e cominci davvero a rinascere.

La rivista Rozgaran (= vita di tutti i giorni)

Secondo Safura la rivista si distingue per la sua ispirazione democratica e la costante attenzione ai problemi delle donne e della società afghana nel suo complesso, non esitando a denunciare la corruzione e la sopraffazione dei signori della guerra.

- Un’informazione democratica.
Incontriamo il capo-redattore, un uomo cordiale che fa il giornalista da 25 anni e ha curato varie pubblicazioni anche in Pakistan. Con precisione e pacatezza ci spiega la struttura e il tipo di informazione diffuso dalla rivista, che esce settimanalmente.
Nata un anno e mezzo fa, quando il governo ha deciso di promuovere la rinascita culturale del paese dando contributi economici alle nuove riviste, Rosgaran funziona come un’agenzia di stampa. Raccoglie le notizie e le distribuisce anche alla televisione e ad altri canali; per questo è un punto di riferimento importante per chi vuole avere informazioni precise e credibili su cosa succede a Kabul e viene spesso contattata tanto è vero che è arrivata a concedere più di dieci interviste al giorno.
Nei suoi 480 numeri ha parlato sempre della vita quotidiana del popolo che si svolge tra molte difficoltà e della reale situazione dell’ Afghanistan che soffre di un’inquietante mancanza di democrazia, ospitando anche articoli stranieri in linea con questo orientamento.
Hanno dato molto spazio anche alle violenze patite dalle donne, che spesso scrivono al giornale per raccontare la loro triste storia di abusi subiti, di botte, di matrimoni imposti, di tentativi di suicidio.
Oggi il giornale ha una sezione completamente dedicata alle donne che riporta storie vere.
A volte Rozgaran pubblica articoli presi dal giornale di Rawa che sono in sintonia con i suoi criteri editoriali.
Nella “sezione esteri” la rivista parla di tutti i paesi stranieri che, a diverso titolo, sono presenti in Afghanistan e spesso le Ambasciate si rivolgono direttamente alla redazione per avere un’idea più precisa sul significato politico di alcuni eventi.
Tra i circa 400 giornali che oggi si distribuiscono a Kabul, Rosgaran si distingue per l’attenzione che dedica alla vita del popolo e per la continua denuncia dell’operato dei signori della guerra.
Per la sua presa di posizione contro i fondamentalisti e i paesi stranieri che li sostengono, è stata denunciata più volte dai mullah e dalla stessa ambasciata iraniana.
La Commissione di vigilanza del Ministero della cultura ha convocato ben undici volte la redazione per richiamarla al dovere di attenersi alle norme ministeriali che regolano la stampa. Si tratta di una sessantina di norme, abbastanza generiche, che di fatto costringono i giornalisti ad una sorta di autocensura.
Una di queste, ad esempio, impone che ogni articolo sui signori della guerra deve documentare con prove certe e inequivocabili le accuse a loro rivolte.
Dati questi presupposti, Rozgaran è costretta a moderare i toni.
I signori della guerra hanno cercato in tutti i modi di far chiudere la rivista, ma non sono riusciti per paura della reazione popolare e allora sono ricorsi alle minacce, che sono continue.
Il giornale Pangera (finestra), di proprietà di Fahim, signore della guerra ed ex ministro della difesa, aveva pubblicato infatti il risultato di un sondaggio da cui emergeva che Rozgaran ha il maggior numero di lettori.
Il capo redattore dice che la sua vita è molto cambiata perché è diventato un bersaglio dei nemici della democrazia. Non può esporsi pubblicamente, non può andare alle manifestazioni e, per documentare gli eventi, è costretto ad inviare giovani giornalisti poco conosciuti.
Per ottenere protezione, si sono rivolti all’organismo di sicurezza dell’Onu presente in Afghanistan, ma senza alcun risultato.

- I lettori, la diffusione, il personale.
Poiché la rivista contiene molti articoli sulla situazione nazionale e internazionale e anche pagine di cultura, è letta dai giovani, dagli studenti, dagli intellettuali e dalle persone alfabetizzate che si interessano di politica e vorrebbero capire quale futuro potrà avere l’Afghanistan, data la situazione di incertezza in cui si trova.
Rozgaran stampa 9.000 copie, una quantità esigua rispetto alla domanda di 20.000 copie.
A Kabul vi sono dieci centri che la vendono; 26 province su 34 la ricevono regolarmente, le altre solo saltuariamente e nelle località più lontane viene portata da alcune persone che vanno a prendere la rivista direttamente in redazione, il mercoledì.
Molti chiedono di trasformare Rozgaran in quotidiano, ma questo non è possibile perché attualmente non ci sono i mezzi economici né per realizzare questo cambiamento, né per aumentare la tiratura, né per migliorare la distribuzione.
La rivista costa 8 afghani (circa 15 cent. di euro) e ha quattro pagine; vi lavorano 10 persone: 5 redattori, tra cui due donne, 2 impiegati che si occupano della distribuzione, 1 amministratore e 2 guardie addette alla sicurezza; molti sono i volontari che collaborano.

d) Kabul: Centro polifunzionale “Gurgistan”, gestito da Rawa

Il Centro si trova in un quartiere povero della città, dove però è possibile ammirare le cime innevate delle montagne che si impongono con la loro maestosità sul paesaggio desolato, avvolto dalla polvere che nasconde i ruderi delle case distrutte, le abitazioni di fango e le misere tendopoli di plastica.
E’ frequentato da bambini e bambine, ragazzi e ragazze, donne e uomini appartenenti all’etnia hazara, popolazione di origine mongola, insediata tra i monti dell’Afghanistan centrale, nella provincia di Bamiyan. Aderenti all’islam sciita, gli hazara sono stati duramente perseguitati dai taleban (sunniti), come testimoniano Fatima e Nazifa.
Fatima, 25 anni, proviene da Bamiyan . Ha subito la dura persecuzione dei taleban che hanno scatenato una terribile pulizia etnica, uccidendo in un solo giorno più di 200 persone. Il fratello del marito è stato arrestato e tuttora non si sa dove sia. E’ scappata in Iran e così si è salvata. Al ritorno ha trovato il suo paese interamente distrutto. A Kabul la vita è ancora più difficile di quanto si aspettava, nessuna possibilità di lavoro e difficoltà enormi a trovare una casa. Qui, al Centro, frequenta il corso di sartoria.
Anche Nazifa, 18 anni, viene da Bamiyan dove ha visto i taleban arrivare e distruggere tutto con una violenza davvero bestiale. Il padre è stato picchiato duramente. Portato all’ospedale di Kabul, è morto per mancanza di cure adeguate. Anche lei è dovuta scappare per cercare di sopravvivere.
Fatima e Nazira portano nel cuore l’immenso dolore di chi ha perso quanto aveva di più caro, di chi ha vissuto nella paura, di chi ha conosciuto il volto della morte, di chi ha visto in faccia il nichilismo fanatico che porta via tutto, svuotando di significato l’intera esistenza. Interrompono il loro lavoro per stringerci la mano; i ricordi intristiscono il loro sguardo che però riesce a trasmettere anche la luce della speranza in un futuro diverso.
Oltre ai corsi di sartoria, il Centro ha una scuola con le prime due classi, un salone di bellezza dove le donne imparano l’arte dell’acconciatura e perfino una squadra di calcio femminile.
Visitiamo la scuola, frequentata in parte da ragazze che sono state profughe in Iran, in parte da bambine che provengono dai villaggi vicini.
L’aula è spaziosa ed accogliente e le ore di lezione sono quattro, dalle 8 alle 12; al pomeriggio le ragazze lavorano, tessendo tappeti.
L’insegnante improvvisa per noi una “lezione di divertimento”. Legge un racconto, invitando le alunne a seguire sul loro libro; protagonista è un bambino che, attratto dalla freschezza dell’acqua, si butta nel fiume anche se non sa nuotare. Mentre annaspa per la difficoltà a stare a galla, vede passare un vecchio sulla riva e gli grida di aiutarlo. Il vecchio lo guarda con disappunto e gli chiede perché si è buttato in acqua se non sa nuotare. Il bambino non si lascia intimidire dal suo sguardo severo e con prontezza gli risponde: “Prima salvami, poi mi farai la paternale”.
Parliamo con l’insegnante, una donna giovanissima, nata in Iran, dove i suoi genitori si erano rifugiati all’’epoca dell’occupazione sovietica.
Ha studiato in Iran e non è molto contenta di essere tornata in Afghanistan perché qui si vive molto peggio. Le spiace moltissimo vedere il suo popolo costretto a condurre un’esistenza così precaria e in condizioni di povertà estrema. A volte non riesce a farsene una ragione, ma cerca di reagire, pensando che il suo lavoro ha un grande valore perché le permette di combattere l’analfabetismo e quindi di aiutare la società afghana ad evolversi, ad uscire dall’ignoranza.
Entriamo nel salone di bellezza. C’è un grande movimento, un gruppo di ragazze sta acconciando una sposa che indossa un abito bianco secondo la moda occidentale. Seduta davanti a un grande specchio, la “sposa” si lascia truccare da una sua compagna che dimostra una grande abilità. Le altre osservano e danno il loro parere, consigliando un tipo di rossetto al posto di un altro, sistemando i capelli con la lacca, esprimendo la loro approvazione o le loro riserve.
Confesso che mi fa un effetto un po’ strano vedere una donna afghana, i cui abiti tradizionali sono in genere coloratissimi e bellissimi, vestire un abito bianco piuttosto anonimo e così estraneo alla sua cultura, ma non posso negare che le estetiste hanno mani abilissime e si muovono con molta disinvoltura tra trucchi, profumi e creme varie.
Sicuramente stanno imparando una professione che magari permetterà loro di lavorare nei saloni di bellezza aperti a Kabul, o in altri contesti simili, se l’Afghanistan riuscirà a liberarsi dall’oscurantismo religioso.
In un angolo della stanza dove le truccatrici sono all’opera, Sekina, una giovane donna di 26 anni, cieca dalla nascita, sta imparando a leggere con il metodo Braille. Da un anno frequenta la scuola per ciechi di Kabul e, nei periodi di vacanza o di chiusura, continua da sola, accolta al Centro, dove può stare in compagnia. Sentendo il fervore che anima la stanza, Sekina ogni tanto si interrompe e sorride.
Lasciando il Centro, incontriamo bambini e bambine che entrano per frequentare il turno pomeridiano della scuola. Si siedono insieme nei banchi e, timidamente, ci sorridono, portando le piccole mani alla bocca come per nascondersi. Sono bellissimi con il loro viso ovale e gli occhi allungati e si fanno fotografare con piacere, nonostante l’apparente ritrosia. Quando vedono sul visorino i loro volti, hanno un’espressione incredula e meravigliata, ma contenta.

e) Kabul: visita ad una vedova

In un quartiere di case popolari costruite dai sovietici, incontriamo Fauzia, una vedova di 36 anni con tre bambini, che ci mostra con orgoglio la povera casa di fango che si è costruita con le sue stesse mani. In verità è una misera capanna con teli di plastica e di tessuto pesante sul tetto e alle finestre. I suoi tre bambini sono vestiti poveramente. Non ha voluto frequentare il corso di alfabetizzazione perché deve accudire i figli.
Rawa la sostiene, portandole il cibo tutti i giorni.
E’ rimasta completamente sola: né la sua famiglia, né quella del marito l’ hanno accolta per assoluta mancanza di mezzi.
Fauzia ha un’espressione stanca, ma non si lamenta, è fiera di quello che è riuscita a fare per i suoi bambini, anche se è poco; è fiera soprattutto perché è riuscita a tenerli con sé, evitando loro l’orfanotrofio.
Accanto a lei vive Latifa, un’altra vedova con tre figli, a cui ha affittato una parte del suo misero tugurio.
Latifa è autonoma, lavora come guardia del corpo in un ufficio, controlla e perquisisce le donne che entrano e guadagna 40 dollari circa al mese.
Dà un piccolo contributo a Fauzia, che vigila sui suoi figli quando lei è al lavoro.
E’ sicuramente un bell’esempio di mutuo aiuto
Mentre parlavamo con le due donne, il cortile si è riempito di ragazzini vivacissimi e curiosi, subito tenuti a bada da un vecchio magro con il pakul in testa, che si è messo in posa per farsi fotografare insieme a loro.
Arrampicandosi su un camion militare, arrugginito e abbandonato, i più coraggiosi fanno mille acrobazie per attirare la nostra attenzione.
E’ impressionante vedere come i mezzi impiegati per fare la guerra possano diventare parte integrante del paesaggio quotidiano dove si svolge la vita e trasformarsi in oggetti attraenti per i bambini che subito se ne appropriano per giocare e divertirsi.
Quando stiamo lasciando il quartiere, il vecchio ci chiama insistentemente, facendoci segno di entrare nella sua casa. Non abbiamo tempo e ci allontaniamo, ma lui continua a parlare, alzando il tono della voce.
Safura ci dice che è arrabbiato perché vorrebbe che noi entrassimo a vedere tutte le case che si affacciano sul cortile e non solo quelle delle vedove, solo così infatti potremmo renderci conto di come vive la stragrande maggioranza del popolo.
Povero vecchio, chissà cosa si aspetta da noi, che possiamo fare davvero poco!
Sono piuttosto turbata davanti a tanta miseria, a tanto abbandono, a tanta solitudine e sono anche molto commossa davanti al sodalizio di Fauzia e Latifa che, con coraggio, dignità e molti sacrifici, cercano di dare un futuro decente ai propri figli.
Mi convinco sempre di più che riuscire a vivere in Afghanistan è davvero un’impresa eroica.

f) Kabul: visita allo shelter, il rifugio per donne maltrattate gestito da una ONG afghana.

Un piccolo gruppo (Ersilia, Graziella L., Graziella M., Libera) si stacca dal resto della delegazione per recarsi allo shelter, è accompagnato dal responsabile finanziario della ONG afghana, autore insieme ad altri del progetto predisposto per la cura e la protezione delle donne che hanno subito violenza in famiglia e fuori e supervisore dell’andamento dello stesso.

- Un luogo sicuro, chiuso al mondo
Pur essendo situato in un quartiere di Kabul accanto ad altre abitazioni, lo shelter non ha alcun rapporto con il vicinato tanto è vero che nessuno sa che cosa succede in quell’edificio, sorvegliato giorno e notte da una guardia armata e circondato da un alto muro di cinta che il responsabile però non ritiene adeguato per impedire la possibile fuga delle ospiti.
Il rifugio non ha un nome, né alcun segno distintivo che lo possa identificare perché deve rimanere assolutamente segreto, se si vuole garantire la sicurezza delle donne e impedire che vengano ritrovate, denunciate e riprese dagli uomini che hanno abusato di loro .
Lo shelter accoglie e nasconde donne in fuga che sono state capaci di ribellarsi alla dura legge del patriarcato. Non accettando più di vivere nella paura di essere picchiate a morte dai mariti e vendute dai padri, hanno lasciato tutto, anche gli affetti più cari, ma ora sono braccate e in pericolo perché la legge, amministrata dalla Suprema Corte di giustizia nel “rispetto della sacra religione dell’Islam”, considera un crimine scappare di casa per sfuggire agli abusi sessuali o a un matrimonio forzato e infligge la pena del carcere a chi commette questo reato.
Sono donne che non hanno un posto dove andare perché nessun parente le accoglierebbe.
Lo shelter è la risposta istituzionale a questa situazione paradossale che punisce la vittima e non il carnefice, gli invii infatti avvengono normalmente su disposizione del Ministero degli affari femminili che entra in contatto con donne maltrattate attraverso la segnalazione della polizia, o dell’UNHCR (United Nation hight commission for rifugees), quando si tratta di profughe, o perché le donne vi si recano direttamente per chiedere aiuto.
Una volta entrate nel rifugio, le donne spariscono dal mondo, non devono avere alcun contatto con l’esterno, non possono ricevere visite dalla famiglia, né possono telefonare.
Il responsabile non esita a dire che lo shelter, in quanto istituzione totale separata dalla società, assomiglia al carcere , ma sottolinea anche che è un luogo ben diverso dalla prigione vera e propria dove il trattamento è solo punitivo e degradante.
In questo “mondo a parte” infatti le donne sono trattate con molto rispetto e possono vivere serenamente, dignitosamente e in sicurezza .
Lo shelter accoglie tre tipi di persone: prostitute, ex detenute, donne che hanno subito violenza in casa e fuori e accoglie anche i loro figli di età inferiore ai sette anni.
Attualmente lo shelter, gestito dalla ONG afghana, accudisce 12 donne e tre bambini con l’obiettivo di arrivare a 20 a partire già da quest’anno.
L’età minima per entrare è di dodici anni.
Il Centro si prefigge di:
- scolarizzare le donne analfabete
- promuovere la conoscenza dei diritti delle donne, dei bambini e dei diritti umani in genere
- dare informazioni sulle malattie femminili, sulla maternità e il parto e sull’igiene personale per educare alla prevenzione
- far uscire la donna dalla situazione di povertà e di degrado in cui si trova al momento dell’ingresso, permettendole di condurre un’esistenza dignitosa che la aiuterà ad avere stima di sé.
- Il “contratto” al momento dell’ingresso - Al momento dell’ingresso la donna sostiene un colloquio in cui le si presentano i benefici che può ricevere e le regole che deve rispettare.
Potrà vivere in sicurezza, avere cure mediche, vestiti, cibo tre volte al giorno e un’educazione adeguata ai suoi bisogni. In cambio dovrà accettare di rimanere chiusa e segregata nell’edificio, di non avere rapporti con l’esterno per consentire il miglior funzionamento della struttura, di rinunciare a qualsiasi visita da parte della famiglia con la quale dovrà interrompere ogni rapporto per non essere trovata, di non portare con sé né armi né telefoni cellulari, di non fumare (quest’ultimo divieto di fumare è giustificato dal fatto che potrebbero fumare hascish).

La scheda d’ingresso, compilata dal personale della ONG, comprende le seguenti voci:
- data d’arrivo e motivo
- tipo di invio (chi ha mandato la donna)
- generalità e firma di chi ha accompagnato la donna al rifugio
- generalità della donna che entra nella struttura protetta: nome, nome del padre, residenza, età, condizione sociale (nubile, sposata), etnia di appartenenza, malattie di cui è affetta al fine di poterla curare, scolarizzazione, professione (che cosa sa fare)
- sondaggio dei bisogni e tipo di trattamento (medico, formativo, scolastico) proposto dall’operatrice che fa il colloquio
- presentazione dei vantaggi e degli obblighi.

Se la donna decide di entrare nello shelter, accettando le regole e il trattamento previsto, pone la sua firma e da quel momento inizia per lei una nuova vita.
Nel corso del tempo però qualcuna non riesce a rispettare il contratto che ha firmato e scappa, mettendosi in pericolo e mettendo in pericolo l’intera struttura.
Il responsabile ci dice che la notte scorsa è scappata una ragazza e aggiunge che il personale addetto alla gestione del Centro è consapevole che la segregazione non risolve i problemi delle donne maltrattate, ma, al momento , non si può fare altro. Pur prevedendo il loro reinserimento nella società, ora non si è in grado di realizzarlo e così i tempi di permanenza si dilatano.
La tendenza a scappare è riscontrabile soprattutto nelle prostitute più incallite che difficilmente vengono allo shelter con l’idea di redimersi e di cambiare vita. Al momento dell’ingresso firmano solo perché si trovano in una condizione pietosa e hanno bisogno di cure, ma hanno già in mente di scappare e così, appena stanno meglio, cercano di uscire perché fuori potranno guadagnare un po’ di denaro e quindi disporre di un reddito.
Quando una donna fugge, non si informa la polizia ma il Ministero degli affari femminili che provvederà a cercarla. La polizia viene contattata solo quando ci sono problemi di sicurezza all’esterno, ad esempio quando qualche familiare si presenta allo shelter e vuole entrare ad ogni costo.
Il personale non può affrontare questo problema perché è composto da lavoratori che svolgono un servizio sociale, non di polizia. Ci vorrebbero più guardie a presidiare l’edificio, ma questo disturberebbe le donne. In effetti – si corregge il responsabile – gli uomini non dovrebbero proprio esserci in un luogo che accoglie donne fuggite dalla violenza maschile.

- Il personale
Attualmente è composto da cinque membri: la responsabile del progetto, la sua assistente, una cuoca e due guardie che vivono allo shelter con le loro mogli. In futuro si pensa di inserire, a tempo pieno, un trainer, un social worker e un responsabile della logistica e di poter disporre con regolarità di una medica e di un’avvocata, ma per ora non è possibile perché mancano i finanziamenti necessari.
Per la stessa ragione è impossibile provvedere direttamente alla formazione del personale. Per colmare questo vuoto, gli operatori vengono inviati ai corsi di formazione offerti da alcune ONG impegnate nel miglioramento delle competenze professionali dei lavoratori sociali.

- Finanziamenti
Tramite il Ministero degli Affari femminili hanno potuto accedere ai fondi stanziati da un supporter europeo che però sono finiti nel novembre scorso. Da allora hanno cercato di provvedere autonomamente, ma i mezzi a disposizione sono esigui e si procede lentamente. Hanno presentato il progetto all’UNHCR ma non hanno avuto alcuna risposta.
Le spese riguardano l’affitto dell’edificio, gli stipendi del personale, il cibo e il noleggio dell’auto per gli spostamenti.

- Le donne nello shelter
Chiediamo al responsabile di spiegarci meglio come arrivano le donne allo shelter e dove vanno quando escono. Il responsabile ribadisce che, per ora, la sua organizzazione non ha i mezzi per organizzare il loro reinserimento nella società. Dopo averci detto che in questo shelter il 40% delle ospiti è costituito da donne che hanno subito violenza domestica, il 30% da prostitute e il 20% da ex detenute, ci fa degli esempi per farci capire come arrivano e cosa può fare per loro la sua organizzazione, oltre a custodirle.
Una donna, che ha subito violenza dal marito, può rivolgersi al Ministero degli Affari femminili. A volte si apre una vertenza legale e in attesa del verdetto la donna può venire allo shelter, poi o ottiene il divorzio, o ritorna con il marito.
Una donna, che esce dalla famiglia per motivi diversi, può trovare ospitalità allo shelter. In questo caso il personale del Centro fa delle ricerche sulla famiglia per inquadrare il problema, parla con essa e cerca di trovare una mediazione che permetta alla donna di tornare.
Una ragazza ha scoperto che il padre gestiva un traffico di bambini e l ha denunciato, il padre la voleva ammazzare, lei è fuggita ed è stata portata qui.
Esprimiamo al responsabile il desiderio di incontrare le donne attualmente ospiti della struttura, ma egli preferisce raccontarci la loro storia senza coinvolgerle direttamente. Solo al momento del congedo ci accompagnerà da loro per vederle e salutarle.
Ci parla di Halima, una donna giovane che, da quando siamo arrivate, ha cercato di mostrarsi, mettendosi vicino alla finestra e sorridendoci tutte le volte che incrociavamo il suo sguardo.
Halima è qui da quattro mesi, è arrivata con la schiena rotta, il corpo sanguinante e in stato confusionale. Costretta a prostituirsi, completamente in balia di uomini che la portavano avanti e indietro dall’Afghanistan all’Arabia Saudita come una merce da vendere al miglior offerente, non riesce nemmeno a raccontare la sua storia, ricordi e fantasie si mescolano e nessuno conosce veramente il suo tragico percorso esistenziale.
Più precisamente il responsabile dice che Halima inventa molte storie ed è determinata a mentire come fa la maggior parte delle prostitute. Aggiunge che le donne, che hanno subito violenza in famiglia, sono invece più sincere e dunque più credibili.
Hasisa è una ragazza di 15 anni, quando aveva 12 anni è stata costretta dal padre a sposare un uomo di 50 anni che l’ ha portata in Iran. Rientrata ad Herat, è riuscita a fuggire e ad arrivare a Kabul dove è stata trovata dalla polizia in stato pietoso e consegnata al Ministero degli Affari femminili che l’ ha inviata allo Shelter.
Zeba è una ragazza di 12 anni, quando aveva nove anni è stata costretta dal padre a sposarsi con un uomo che aveva già moglie e figli. E’ scappata e adesso è qui.
Nasima, venticinque anni circa, è fuggita dal marito che la picchiava selvaggiamente, portando con sé i due figli piccoli. Al momento della fuga era incinta e ha partorito allo shelter. La sua situazione è molto delicata, il marito, che è un uomo potente, la sta cercando; se riuscisse a trovarla, sarebbe un guaio non solo per lei ma per l’intera struttura.
Durante il giorno le ospiti seguono l’attività prevista per loro, fanno qualche piccolo lavoretto per riempire il tempo, mangiano, curano i loro bambini e guardano la televisione. Chi frequenta il corso di alfabetizzazione impara a leggere e a scrivere nel giro di sei mesi.
Accompagnate dal responsabile e da Halima, che si affianca a noi prendendoci per mano, saliamo per salutare le altre donne.
Sono nelle loro camere, pulite ed accoglienti, con i loro bellissimi bambini. Ci accolgono con rispetto, si alzano e ci vengono vicino, desiderose di contatto.
Come sono giovani!
Le abbracciamo, le baciamo con intensità, tenerezza, amore e loro ricambiano.
Lo strazio di fronte a tanta sofferenza mi toglie il fiato e piango.
Hasisa e Zeba, le più giovani, mi prendono le mani e le baciano come normalmente si fa in Afghanistan con una persona più anziana per esprimerle rispetto.
Halima, Hasisa, Zeba ci accompagnano all’uscita, facendosi fotografare e ci salutano portando la mano sul cuore.
“Hodo offis, tashakor”, “arrivederci, grazie”.
Siamo tutte molto turbate e per un po’ nessuno riesce a parlare.

- Shelter, specchio di una contraddizione
A Kabul ci sono altri tre shelter, gestiti in modo discutibile e da persone che non hanno alcuna competenza professionale. Una ONG tedesca coordina il lavoro degli shelter con il compito di monitorarne il funzionamento.
Il Ministero degli affari femminili sta creando altri rifugi omogenei al proprio interno per quanto riguarda il tipo di utente: il rifugio per sole prostitute, quello per sole ex detenute, quello per sole donne che hanno subito violenza.
Riflettendo su quanto abbiamo visto e sentito, mi viene da dire che lo shelter è lo specchio di una profonda schizofrenia sociale e politica che le donne pagano in prima persona e sulla loro pelle.
Da un lato la Costituzione afghana proclama i diritti umani e dichiara che “spetta allo Stato tutelare l’integrità fisica e psichica delle donne all’interno della famiglia”, dall’altro ribadisce che “nessuna legge può essere contraria al credo e alle disposizioni della sacra religione dell’Islam” . Ne consegue che la Costituzione deve subordinarsi al diritto islamico, rispecchiato nella sharia (legge coranica), che prevede il carcere per le donne che scappano di casa per sfuggire alla violenza domestica o a un matrimonio imposto.
Il governo Karzai, estremamente debole e ostaggio degli integralisti islamici, non ha né la forza, né i mezzi per far prevalere i diritti umani sulla sharia per cui si limita a creare lo shelter come luogo intermedio tra la proclamazione astratta dei diritti umani e la negazione concreta degli stessi. Lo shelter è cioè un tentativo di mediazione a livello istituzionale che soccorre la donna, cercando di aggirare la sharia, dominata dalla mentalità patriarcale, secondo la quale essa non è una persona con dei diritti, ma una cosa di proprietà dell’uomo che su lei ha potere di vita e di morte.
Per queste ragioni il rifugio femminile deve configurarsi come un’istituzione totale dove domina una logica essenzialmente custodialistica che costringe le sue ospiti a tagliare i ponti con l’esterno e configura quel luogo come un “mondo a parte”. La donna che vi entra è costretta ad interrompere ogni rapporto con la società, che la espelle da sé in quanto ritiene il suo comportamento reo di non essere conforme al diritto islamico su cui si regolano i rapporti tra uomini e donne. Per mantenersi in vita, lei, la vittima, deve accettare di perdere tutto ciò che le è familiare e caro, deve sparire dallo spazio pubblico, diventare invisibile, svanire nell’ombra di un luogo che la tutela senza poter incidere però sulla mentalità arcaica degli uomini che così continueranno a non capire perché abusare di una donna è un crimine e non un diritto.
Comunichiamo al responsabile queste nostre considerazioni e lui riconosce che effettivamente, essendo l’Afghanistan ancora in mano ai fondamentalisti, non c’è nessuno che abbia l’autorità per esigere il rispetto della Costituzione e provvedere alla sua applicazione, predisponendo gli strumenti legislativi necessari.
Certo la religione condiziona pesantemente la Costituzione, ma non bisogna dimenticare che l’Afghanistan non solo è un paese islamico ma è anche e soprattutto un paese arretrato, povero, con moltissimi problemi.
Il responsabile dice di essere d’accordo con chi rivendica la laicità dello stato, ma realisticamente pensa che oggi questo sia un obiettivo troppo alto che esige un profondo cambiamento di mentalità per essere realizzato. Perché questo avvenga, è necessario un buon governo che combatta radicalmente l’analfabetismo, che si liberi dai condizionamenti delle potenze straniere, in particolare dagli Stati Uniti che sostengono i corrotti signori della guerra, un governo capace di valorizzare le molte risorse interne al paese (oro, pietre preziose, gas naturale) e di creare un’economia autonoma per far uscire il popolo dalla miseria e permettere agli afghani di poter condurre una vita dignitosa, veramente umana.

- Impressioni
L’esperienza allo shelter è stata dura e ci ha posto molti interrogativi sull’ambiguità che lo caratterizza: luogo sicuro per chi vi entra, ma anche luogo dominato dalla logica delle istituzioni totali che offrono sì benefici immediati, ma in cambio di molte rinunce e di molti divieti che precipitano la persona in una condizione di dolorosa solitudine esistenziale.
Ci siamo chieste se in Afghanistan non sia possibile aiutare la donna maltratta in un modo diverso, meno spersonalizzante, più evolutivo sul piano psicologico, più responsabilizzante.
Mi è venuto in mente il modello di Rawa, che ho potuto conoscere due anni fa, incontrando quattro donne maltrattate e parlando direttamente con loro.
Le donne maltrattate, prima di scappare di casa, entrano in contatto con una militante di Rawa che predispone la loro fuga, poi l’Associazione le accoglie in luoghi sicuri senza isolarle dal contesto sociale. Non vivono tutte assieme, ma in case diverse, in due o tre al massimo, per non destare sospetti.
Ricevono subito cure mediche, poi sono messe nella condizione di elaborare il lutto e la profonda depressione che attacca l’autostima, secondo il modello del mutuo aiuto.
Potendo raccontare e condividere la propria esperienza di vita con altre donne accomunate dallo stesso dolore, si sentiranno meno sole, impareranno a contestualizzare la loro sofferenza, a vederla come conseguenza di una radicata mentalità patriarcale e a poco a poco riusciranno a dare alla loro fuga il significato di una scelta di dignità e di coraggio.
A questo punto Rawa le aiuterà a prendere coscienza dei diritti delle donne in quanto esseri umani e non oggetti, mettendole nella condizione di sperimentare le loro capacità intellettive, manuali, organizzative. Le avvierà ai corsi di alfabetizzazione e di taglio e cucito, presenti nelle vicinanze del luogo in cui abitano, permettendo loro di uscire e di non vivere segregate. Quando avranno acquisito le competenze necessarie, potranno poi insegnare a loro volta e lavorare. La loro prestazione verrà pagata e ciò contribuirà a farle sentire adulte, capaci, autonome e responsabili.
Pur non potendo avere contatti diretti con la famiglia, avranno la possibilità, attraverso i supporter di Rawa, di far giungere notizie alle persone care e di riceverle.
Come si vede, il modello di Rawa è antitetico alla logica istituzionale che presiede lo shelter.
Collaborando con il ministero degli Affari femminili, la Ong afghana, che gestisce lo shelter, è costretta a muoversi dentro le strettoie e i limiti di un’istituzione governativa che, in un paese dominato dalla sharia, cerca almeno di ridurre il danno patito dalle donne maltrattate in fuga, offrendo loro un posto dove possono vivere con dignità e al riparo dal linciaggio.
Certo, lo shelter è una possibilità per le donne, ma non è l’unica né la migliore risposta al bisogno di giustizia sociale che le donne esprimono, ribellandosi alla violenza maschile.
In Afghanistan esiste un altro modo di affrontare il problema degli abusi subiti dalle donne, più evolutivo, più responsabilizzante e questo non dovremo dimenticarcelo.
Durante la visita allo shelter abbiamo vissuto momenti di disagio anche in seguito allo stile adottato dal responsabile nel trasmetterci le informazioni.
Quando siamo arrivate, siamo state accolte dall’assistente della direttrice, con la quale non abbiamo potuto scambiare nemmeno una parola perché il responsabile l’ha completamente estromessa dal discorso tanto è vero che lei, sentendosi inutile, dopo un po’ se n’è andata.
Siamo rimaste colpite inoltre dai suoi giudizi sulle prostitute, che sarebbero tendenzialmente bugiarde e strumentali, dalla sua difficoltà a cogliere, nelle cosiddette fantasie che accompagnano i racconti autobiografici, il normale scivolamento del pensiero dalla realtà al sogno, tipico in chi ha condotto un’esistenza terribile e attraverso la narrazione cerca in qualche modo di riscattarsi, permettendo all’io ideale di fare irruzione nell’io reale. Convinto che le prostitute non sono credibili, non ha ritenuto opportuno farci parlare con Halima che continuava a guardarci dalla finestra, esprimendo un grande desiderio di contatto e di vicinanza.
Anche quando abbiamo incontrato le altre donne, non ci ha aiutato a mediare con la lingua per poter avviare una comunicazione più diretta con loro, si è limitato a farcele vedere, creandoci qualche imbarazzo.
Nel tempo passato allo shelter avremmo desiderato che fossero le donne protagoniste dell’incontro, che fosse dato loro il maggior spazio possibile per raccontare la loro storia, l’esperienza che stanno facendo nel rifugio, i loro sogni, le loro aspettative.
Anche in questo caso mi è tornata in mente la diversa modalità di Rawa. Safura, che ci aveva accompagnato dalle donne maltrattate, si è ritirata in un angolo, in silenzio, permettendo alle donne di essere le vere protagoniste dell’incontro e solo alla fine, rispondendo alla nostre domande, ha integrato i loro racconti, esplicitando più nel dettaglio il modello seguito da Rawa nell’accoglimento e nel recupero delle stesse.

g) Per le strade di Kabul

Rispetto a come l'ho vista due anni fa, Kabul è cambiata ma a beneficio dei pochi già fortunati che non hanno mai conosciuto il dramma della povertà.
Ville lussuose protette da alti muri di cinta e sorvegliate da guardie armate, di proprietà di funzionari, uomini politici, ricchi mercanti e di alcuni signori della guerra, costruzioni moderne destinate a centri commerciali, banche e uffici, supermercati ben riforniti, internet caffé, saloni di bellezza, ristoranti e negozi che vendono di tutto.
Kabul è diventata un immenso cantiere, ma non si vedono tracce di edilizia popolare e i profughi, che stanno tornando, vagano senza dimora o si rifugiano sotto misere tende di plastica, o tra le mura sbrindellate degli edifici bombardati. Più di due milioni e mezzo di persone infatti aspettano una casa.
Il boom edilizio ha scatenato anche una guerra tra poveri. Safura precisa che i signori della guerra gestiscono anche la mano d’opera, portano i muratori pakistani a lavorare nell’edilizia perché sono più esperti e questo scatena una rabbia enorme tra gli afghani che si vedono privati di una possibilità di lavoro.
La massiccia presenza degli occidentali ha innestato inoltre un processo inflattivo molto forte, gli affitti delle case sono saliti alle stelle e tutto ha costi molto elevati.
Si approfondisce sempre di più il divario tra i pochi ricchi che possono permettersi ogni cosa e la folla di poveri che non possono permettersi quasi nulla.
Accanto alla nuova Kabul continua a sopravvivere la vecchia Kabul: una città devastata con i suoi edifici sventrati, le sue baracche sforacchiate dai proiettili, i suoi palazzi bombardati, la sporcizia, le fogne a cielo aperto ai bordi delle strade, il suo traffico ingovernabile, i suoi taxi gialli ammaccati che caricano decine di persone sistemando le donne nel portabagagli e soprattutto la Kabul che soffoca nella polvere densa, untuosa che impregna l’aria, ingrigendo e insudiciando ogni cosa, irritando gli occhi e la gola.
Ancora molti i mendicanti per le strade, quasi tutti bambini resi disabili dalle mine e vedove coperte da burqa sporchi e consumati; alcune di loro, rischiando di essere travolte dalle auto e dai carretti, sono sedute per terra in mezzo alla strada con il loro figlio più piccolo sdraiato su un misero tappetino; ferme e immobili come statue dolenti tendono la mano e non si lasciano intimidire dalle imprecazioni.
Raramente si incontrano donne con il viso scoperto, il ciadri (burqa) rimane la tragica divisa che sono costrette ad indossare, se vogliono attraversare lo spazio pubblico in sicurezza, senza rischiare di essere aggredite o insultate.


3. Verso Farah

Lasciamo Kabul e ci avventuriamo verso la provincia di Farah, situata nella parte occidentale dell’Afghanistan al confine con l’Iran.
Danish è con noi e questo ci rassicura e ci riempie di gioia.
In aereo raggiungiamo Herat, sorvolando l’imponente catena montuosa del Paropamiso, propaggine occidentale dell’Hindukush. Dall’alto la vista è stupenda: un susseguirsi di cime innevate che brillano alla luce del sole, accecando lo sguardo e poi altipiani brulli e ampie distese che dilatano il senso dello spazio.
Lasciato l’aeroporto, inizia il lungo e massacrante viaggio verso Farah su vetture scassate e senza sospensioni, condotte però da autisti provetti.
Sette ore e più di auto su una strada spesso impossibile, trafitta da buche profonde, cancellata da violenti corsi d’acqua che bisogna guadare a tutto gas per non rimanere travolti o impantanati, prestando attenzione a non sconfinare nei campi minati, segnalati con sassi colorati di vernice rossa.
Si procede a fatica nella polvere e nel fango, in uno scenario da mozzafiato, dove il deserto incontra le montagne e a tratti ospita povere case d’argilla dal tetto a cupola, dove lunghe file di dromedari camminano lenti e lontani, dove il tempo sembra sospeso nel timido declinare della luce che cade sulla pianura sconfinata, confondendo lo sguardo proteso sul nulla. Ogni tanto si incontra qualche vecchio seduto su un masso isolato che guarda in silenzio il cielo alto e immobile.
Passiamo accanto a villaggi sperduti dove l’elettricità non arriva, dove l’acqua è imbevibile, dove, il più delle volte, non ci sono scuole né servizi sanitari.
Sui tratti di strada più percorribili incontriamo piccoli asini che trasportano fascine di “spini del deserto”, un combustibile povero e a fiamma intensa usato per scaldare il forno del pane.
Procediamo senza poterci fermare perché la zona è insidiosa, essendo battuta da bande di predoni e da miliziani al servizio di qualche signore della guerra.
Arriviamo a Farah City all’ora del tramonto e siamo accolte con immensa gioia dalle donne di Rawa e dai loro supporter che sono stati in pena per noi tutto il giorno. Ci aspettavano da una settimana e non vedevano l’ora di incontrarci per esprimerci la loro gratitudine, per farci i complimenti per aver avuto il coraggio di attraversare un luogo davvero difficile e faticoso.
Ammasa e Sora, le due donne di Rawa che si occuperanno di noi, ci dicono che la strada che abbiamo percorso è davvero pericolosa, fino a due settimane fa le auto venivano assaltate dai banditi e solo da pochi giorni è controllata da qualche check point dei soldati governativi.
Sono dunque felicissime di poterci abbracciare.
L’ospitalità è davvero commuovente, piena di attenzione e di discrezione; tutto il meglio di cui possono disporre è per noi. Un grande desiderio di comunicare, nonostante la difficoltà della lingua, un’affettività calda e rispettosa ci circonda e ci protegge.
Di sera, sotto un cielo cosparso di stelle e illuminato da uno spicchio di luna orizzontale, ci raccogliamo tutti, uomini, donne e ragazzi, nel cortiletto interno (funduc) della casa che ci ospita, chiuso da un muro di cinta per sottrarre le donne allo sguardo degli estranei, come è d’uso in Afghanistan. Parliamo di noi, delle nostre famiglie, dei mariti, dei figli, del lavoro, rispondendo alle domande dei più spigliati e bevendo tchai (the) a litri. Le nostre due guardie del corpo, che non hanno proprio nulla di militaresco nonostante il kalashnikov, vigilano attentamente su di noi, ridendo insieme a noi e facendosi fotografare.
C’è un’atmosfera di amicizia e di grande familiarità, come se ci conoscessimo da sempre e ci ritrovassimo dopo un periodo di lontananza.
In questo clima di festa riusciamo a parlare anche di cose serie, informandoci sulla situazione politica a Farah.
Ammasa e Sora ci dicono che l’attuale governatore è un democratico e anche una persona colta, ma debole; è sceso a compromessi con tutti, proprio come Karzai, e non sta facendo assolutamente nulla per la provincia.
Avevano riposto molte speranze in lui, ma sono delusi. C’è ancora molta corruzione e molte sono le ruberie; recentemente gli studenti sono scesi in piazza per protestare perché avevano scoperto che i libri regalati alle scuole da alcune Ong venivano venduti al bazar.
Ascoltandole, mi viene in mente quanto ci aveva raccontato Malalai Joya nel dicembre scorso quando era venuta in Italia per ritirare il premio “Donna dell’anno 2004” promosso dal Consiglio regionale della Valle d’Aosta e destinato alla donna che si era distinta per il suo impegno a favore dei diritti umani e della giustizia sociale.
Eletto presidente (ottobre 2004), Karzai aveva inviato a Farah, come governatore, Bashir, un personaggio politicamente schierato con il partito islamista Hez-e-Islami, il cui leader è il feroce fondamentalista Gulbuddin Hekmatyar.
Bashir è un criminale responsabile di tali e tanti delitti che perfino la sua città natale, Barlam, lo rifiuta, impedendogli di tornare. Nel periodo in cui è rimasto a Farah, ha governato circondandosi di uomini legati a Ismail Khan, signore della guerra autoproclamatosi emiro di Herat, e ha perfino ridato spazio ai taleban.
Controllava completamente l’informazione, impedendo che venissero diffuse notizie sulle prese di posizione dei democratici e in particolare sull’operato di Malalai Joya da lui accusata di fomentare disordini.
Non ha mai garantito una scorta a Malalai per proteggerla durante i suoi spostamenti nella provincia e più volte i suoi poliziotti hanno preso d’assalto la sua casa con la speranza di riuscire a farla tacere.
Malalai aveva raccolto tutta la documentazione per denunciare Bashir e si era recata a Kabul da Karzai per convincerlo a prendere una posizione contro un personaggio così inaffidabile.
Passati alcuni giorni, la gente di Farah, non vedendola tornare, ha cominciato a pensare che l’avessero trattenuta e si è riversata per le strade.
Donne senza burqa e a viso scoperto, giovani, uomini, tutti hanno manifestato contro il fondamentalismo, i signori della guerra e i loro servi, chiedendo apertamente la rimozione del dittatore Bashir.
Malalai diceva che oggi a Farah c’è un grande fermento, un grande desiderio di cambiare e soprattutto di farla finita con i fondamentalisti che in nome dell’Islam hanno commesso e continuano a commettere i crimini più efferati a danno del popolo afghano.
Sento crescere forte in me il desiderio di conoscere presto e da vicino la gente di Farah che ha osato tanto e non ha nessuna intenzione di tornare indietro.
A Farah è ormai scesa la notte. Ci separiamo, ma nell’aria resta la risata sonora e contagiosa di Ammasa, una giovane donna alta, forte, molto comunicativa nei gesti, che ci ha riempito il cuore di allegria.

a) Farah: incontro con alcune donne supporter di Rawa

Il mattino presto riceviamo la visita di quindici donne supporter di Rawa. Arrivano avvolte in un lungo mantello nero che lascia scoperto solo il volto. Ieri, dodici di loro avevano organizzato di venirci incontro per darci il benvenuto e percorrere insieme a noi l’ultima ora di strada, ma non sono state informate in tempo sull’orario del nostro arrivo e allora si sono presentate tutte insieme stamani con il desiderio di parlarci del loro cammino di crescita che le ha portate ad acquisire coscienza dei loro diritti come donne e come persone.
Tutte ringraziano Rawa e Malalai Joya per aver aperto corsi di alfabetizzazione per le donne e le ragazze. A Farah non c’erano scuole e tuttora le ragazze analfabete di dodici/tredici anni non possono frequentare la scuola di stato perché hanno superato i limiti di età previsti per la scuola primaria, né possono frequentare la scuola ragazze sposate.
Dice una donna:”Sono 25 anni che l’Afghanistan è in guerra. La vita era impossibile e le donne erano negate e dimenticate. Nessuno ha mai fatto niente per loro. Ora, grazie a Rawa, a Malalai e ai suppoter che sostengono il loro lavoro, noi possiamo esistere, andare a scuola, avere una dignità e possiamo sperare perché siamo sicure che i nostri figli e le nostre figlie avranno un futuro migliore del nostro”.
Un’altra donna ricorda l’immensa sofferenza patita dalle donne durante il periodo dei taleban, la paura che toglieva il respiro, la furibonda violenza che non risparmiava nessuno e rendeva la vita così insicura, così precaria. I mariti venivano picchiati, le donne incinte venivano prese a calci, nessuno era al sicuro. Le donne però hanno resistito e di nascosto hanno continuato a frequentare i corsi di Rawa consapevoli di correre seri rischi se fossero state scoperte. In loro il bisogno di imparare era più forte di qualsiasi minaccia e di qualsiasi proibizione.
Chiediamo se il lavoro svolto da Rawa ha avuto una ricaduta anche nella società e non solo nella loro vita privata.
Una donna risponde:”Ha cambiato moltissimo la mentalità nelle donne che, essendo state scolarizzate, hanno potuto comprendere il valore dei diritti umani e scoprire di essere delle persone e non delle cose di proprietà dell’uomo. Il loro cambiamento si è ripercosso all’interno della famiglia, coinvolgendo i mariti e i figli maschi e si è poi allargato alla società. L’elezione di Malalai alla Loya Jirga è il segno tangibile di questo processo di emancipazione dalla mentalità tradizionale che imprigionava e impoveriva tutti, uomini e donne.
Noi donne siamo felici perché abbiamo constatato che anche gli uomini possono cambiare quando noi non siamo più disposte a farci negare.
Oggi, a Farah, c’è un grande fermento. Ad esempio, l’otto marzo, ben duemila donne hanno partecipato alle manifestazioni organizzate per la Giornata della donna. Fino a non molto tempo fa noi donne non uscivamo nemmeno di casa, eravamo segregate, senza parole e senza diritti.
Oggi parliamo, sappiamo di avere una dignità, i nostri uomini se ne accorgono e ci sostengono quando lottiamo per i diritti umani, perché capiscono che è una lotta che va anche a loro beneficio.”
Ascoltiamo commosse queste donne che si sono “risvegliate” e forse per la prima volta io comprendo fino in fondo il senso delle parole dette da Meena in una sua poesia:
“Sono la donna che si è risvegliata.
Ho trovato la mia strada e mai più tornerò indietro.
La mia voce si è unita a quella di migliaia di donne risorte.”
Con il cuore e con la mente comprendo anche l’immenso valore dell’impegno di Rawa che, aiutando la persona a costruire dentro di sé le ragioni dell’autostima, la libera dalla paura e la rende capace di camminare verso il futuro.

b) Al villaggio di Rokin

Ci dirigiamo verso il villaggio di Rokin e ci rendiamo subito conto dell’inettitudine del governatore, di cui parlavano Sora e Ammasa. Le strade sono completamente dissestate, quasi impraticabili: buche profonde, fango, tratti allagati rallentano la marcia.
La mancanza di una rete viaria decente dilata le distanze, favorisce l’isolamento tra i villaggi e rende difficile lo svolgimento dell’esistenza nella sua quotidianità.
Davanti ai nostri occhi scorrono brulle distese di terra rossastra, campi coltivati, agglomerati di case d’argilla circondate da un muro di cinta su cui si aprono piccoli cancelli colorati e poi qualche piccolo cimitero, segnalato da bandierine sfilacciate che sventolano attorno ai tumuli.
- La Danish School - Arriviamo alla Danish school accolte da un gruppo di donne.
La scuola è gestita da Rawa, comprende dalla prima alla quarta classe ed è stata inaugurata due anni fa, si trova in un solido edificio in muratura e dispone di un ampio cortile, dove ci sono due altalene, un campo di pallavolo e uno di basket.
E’ finanziata da una ricca famiglia afghana del posto che ha provveduto anche all’acquisto dell’intero complesso.
E’ frequentata da 150 bambine e ragazze, di cui il 35% risiede a Rokin mentre il rimanente proviene da villaggi vicini che distano un quarto d’ora di strada circa, tutte le insegnanti invece vivono a Rokin.
Sono le famiglie a scegliere di mandare le figlie nella scuola di Rawa perché ne condividono pienamente il modello pedagogico e anche per ragioni di sicurezza.
Entriamo nelle classi, piccole ma corredate di tutto l’occorrente: banchi e sedie di legno, lavagna, carte geografiche e materiale didattico alle pareti, i libri di testo sono condivisi, uno ogni due alunne.
Le bambine portano una divisa fornita da Rawa e hanno tutte il capo coperto.
E’ bello vedere queste scolarette attente che si sentono importanti perché hanno imparato a leggere e a scrivere, è commuovente sentire la voce di Rohela, che frequenta la seconda classe, recitare a memoria e con molta partecipazione i versi di una poesia, subito seguita da due altre compagne, tutte desiderose di mostrarci quanto imparano e quanto sono diligenti. La loro maestra, una ragazza di 16 anni, le guarda compiaciuta e le incoraggia con un sorriso.
Visitiamo anche il corso di computer seguito da 16 ragazze che siedono orgogliose davanti al monitor, dimostrando di saper usare il mouse con disinvoltura.
A tutte loro Rawa non fornirà soltanto quelle conoscenze di base previste dal curriculum scolastico, ma si preoccuperà soprattutto di dare una formazione civica che le renderà capaci di vivere nel rispetto di sé e dell’altro e le educherà alla pace.
In attesa che le lezioni finiscano, entriamo in una sala dove le donne ci fanno accomodare per offrirci the, biscotti, uvetta, noccioline, caramelle e per parlarci del loro cammino di emancipazione.
Maryam, la direttrice della scuola, controlla che tutte abbiano ciò che desiderano.
Maryam si porta dentro un grande dolore che l’ ha fatta dubitare di se stessa. Sua figlia era stata violentata e lei era caduta nella disperazione più nera, non voleva più vivere, non tollerava di non essere stata in grado di proteggerla, aveva vergogna e si era segregata in casa. E’ uscita dalla disperazione che la paralizzava e la isolava grazie alle donne di Rawa che le hanno offerto di dirigere la scuola, esprimendole con questo gesto una stima concreta e riconoscendo apertamente il suo valore.
Le donne ci ringraziano, ci dicono che ci hanno aspettato tanto e che sono felici perché ora possono ospitarci nel loro paese. Molte hanno passato lunghi anni nei campi profughi in Iran, sentendosi straniere e sradicate dai luoghi familiari dove avevano vissuto la loro vita.
L’esperienza in Iran è stata dura, ma le ha rese molto forti. Là hanno potuto verificare che anche in un paese islamico le donne possono avere dei diritti, andare a scuola, lavorare e questo è stato un grande stimolo per cercare di cambiare la loro condizione di donne negate, dimenticate, cancellate dalla feroce misoginia dei taleban e dei mujaheddin. Hanno pensato che, quando sarebbero tornate nel loro paese, avrebbero lottato con ogni mezzo per esistere come esseri umani e lo hanno fatto.
Grazie a Rawa e ai supporter che finanziano i progetti dell’associazione, hanno seguito i corsi di alfabetizzazione, hanno conosciuto i loro diritti e ora si sentono diverse, vive.
Con entusiasmo e con la voce incrinata dall’emozione una donna dice:”Questo è solo l’inizio del processo di cambiamento che noi donne abbiamo innescato, trascinando con noi i nostri mariti e i nostri figli. Insieme a loro continueremo su questa strada per abbattere la mentalità tradizionale, per costruire la democrazia”.
Come si vede, questo è un motivo ricorrente nelle donne di Farah, forse perché la loro provincia è stata duramente colpita dal fondamentalismo religioso nelle sue espressioni più barbare e più folli.
Prima di lasciare la scuola, le alunne e le maestre, raccolte nell’atrio, ci hanno dato il saluto ufficiale e ci hanno espresso coralmente la loro gratitudine. Un’insegnante ha detto con forza che il governo di Karzai non sta facendo niente per il popolo afghano perché è prigioniero dei signori della guerra che hanno una mentalità criminale e sono nemici dichiarati delle donne. Non è stato avviato alcun progetto sanitario, nei villaggi non ci sono ospedali né servizi medici; le donne continuano a morire di parto e i bambini per malattie banali. Il governo insomma è completamente latitante e senza l’aiuto dei supporter loro non potrebbero fare nulla, ma questo è solo una goccia nel mare sconfinato dei bisogni e della povertà che travolge l’Afghanistan.
Il saluto si conclude con un coro di ragazze che cantano una canzone popolare che celebra l’amore del popolo afghano per la sua patria.
Nel cortile ci aspetta il capo del villaggio insieme a una decina di anziani, riconosciuti dagli abitanti come “i saggi” che, con la loro sapienza e autorevolezza, riescono a mantenere la pace e a risolvere i conflitti tra le persone.
Sono venuti appositamente per darci il benvenuto e ringraziarci .
In fila ordinata e tutti in piedi su un muretto esprimono una dignità e una compostezza che suscitano un grande rispetto.
Con voce grave e solenne il capo villaggio, rappresentante di Farah alla Loya Jirga, parla a nome di tutti e noi ci sentiamo trasportate in un altro tempo, in un altro mondo , in una realtà sconosciuta dove ancora si celebra il rito dell’ospitalità che trasforma lo straniero in fratello e lo rende sacro.

- Visita ai canali di irrigazione
Tutti insieme sotto il sole cocente del tardo mezzogiorno ci inoltriamo nella pianura sconfinata per vedere i tre canali fatti riparare da Rawa per portare acqua a più di quarantamila persone e irrigare i campi destinati alla coltivazione di grano e di ortaggi. Siamo scortati da molte guardie del corpo che seguono i nostri passi, tenendo il nostro stesso ritmo, proteggendoci da ogni lato.
Il paesaggio è sempre bellissimo con le sue montagne in lontananza che chiudono la linea dell’orizzonte, i colori caldi dell’erba bruciata, le foglie verdi degli ortaggi a volte protetti in piccole serre e anche qualche campo di hascish.
I canali sono stretti , profondi e ricchi di acqua; convogliando le acque, rendono fertile un’area che altrimenti sarebbe trasformata in un pantano.
Si coltivano alberi da frutta, cetrioli, cipolle, pomodori, melanzane, grano, uvetta; i cetrioli e l’uvetta, coltivati in serra, maturano prima e così possono essere venduti come primizie anche a Herat.
Dopo averci dato queste informazioni, il capo villaggio, fermo e immobile nel suo corpo esile e slanciato, ci parla del suo amato paese e del suo popolo e noi ascoltiamo il suo appassionato racconto della storia dell’Afghanistan, dall’invasione sovietica (1979-89) ai giorni nostri.
Venticinque anni di guerra hanno completamente distrutto l’agricoltura, le infrastrutture, gli edifici, le scuole, infestato il territorio di migliaia di mine, creato migliaia di profughi, impoverito il paese anche dal punto di vista culturale.
La mancanza di istruzione e la povertà hanno facilitato il reclutamento di migliaia di uomini, giovani e ragazzi nelle file dei mujaheddin e dei taleban per combattere la “guerra santa” prima contro i sovietici e poi contro l’ intero occidente
Nella lotta di resistenza contro l’Urss sono morte un milione e mezzo di persone, nella guerra civile (1992-96), scoppiata tra fazioni opposte di mujaheddin, sono morte più di settantamila persone solo a Kabul. La furia oscurantista dei taleban ha precipitato poi il paese nelle barbarie.
Il fondamentalismo dei jihadi (guerriglieri islamici), espressione più violenta e radicale della mentalità tribale, ha negato ogni diritto alle donne e ha portato migliaia di giovani donne al suicidio.
Gli Stati Uniti hanno sempre sostenuto i fondamentalisti e li hanno usati per imporre i loro interessi. Anche dopo l’11 settembre hanno commesso lo stesso errore, ricorrendo alle milizie dei signori della guerra riuniti nell’Alleanza del Nord per combattere i taleban e i terroristi di al-Qaeda.
Oggi i signori della guerra, responsabili della distruzione dell’Afghanistan e veri criminali che hanno commesso i più efferati delitti contro la popolazione, occupano le cariche più importanti nel governo Karzai, bloccando ogni processo democratico, accaparrandosi gran parte degli aiuti finanziari destinati al paese, alimentando e controllando interamente il traffico di oppio e di armi.
Abbandonato al suo destino e completamente dimenticato dall’Occidente dopo il ritiro dell’Urss, l’Afghanistan è precipitato in una notte buia, diventando il covo di terroristi sostenuti dall’Arabia Saudita, alleata agli Usa, dal Pakistan, dall’Iran.
Ritornato alla ribalta nel 2001, dopo il crollo delle Torri Gemelle di New York, ora è nuovamente avvolto nelle nebbie di una informazione che nasconde la realtà di un Afghanistan non pacificato, dove la sicurezza rimane un miraggio e la democrazia un sogno.
“Se vogliamo un mondo di pace - dice con fermezza il capo villaggio - non dobbiamo dimenticare che l’Afghanistan fa parte del mondo. Dobbiamo disarmare i signori della guerra e portarli davanti a un tribunale internazionale dove possano essere giudicati e condannati per i crimini commessi. Sono loro i veri nemici della pace, quelli che proteggono i terroristi e vendono il nostro paese agli interessi di potenze straniere preoccupate unicamente di usare l’Afghanistan per la sua importanza strategica nel cuore dell’Asia. Aiutateci a vigilare e soprattutto non dimenticatevi del mio paese che sta rischiando di precipitare nuovamente nel caos dell’anarchia. Continuate a parlare del mio popolo, non lasciateci soli, non dimenticateci.”.
Sono parole che cadono come pietre e non possono rimanere inascoltate, parole che ho sentito più volte nelle analisi di molte donne e uomini democratici con cui ci siamo confrontate.
In Occidente invece l’Afghanistan non fa più notizia: si deve credere che la guerra contro i taleban ha liberato le donne dalla schiavitù del burqa, che il paese si è dato una Costituzione e si sta avviando verso la democrazia e soprattutto si deve credere che la guerra combattuta dall’Occidente ha aperto al paese una vera possibilità di futuro.

c) Farah: incontro con Malalai Joya

Tornate a Farah City, nel pomeriggio incontriamo Malai Joya e una rappresentanza di donne che l’avevano accolta, protetta e avevano manifestato in sua difesa quando è tornata dalla Loya Jirga (gennaio 2004) dove aveva denunciato i signori della guerra, aveva chiesto il loro allontanamento dalla vita politica del paese e la loro incriminazione per delitti contro l’umanità davanti a un tribunale internazionale
Malalai è una giovane donna di ventiquattro anni, dolcissima e determinata, che ha dedicato la sua vita al suo popolo, di cui si sente la portavoce. Il senso della sua esistenza sembra coincidere con l’impegno ad agire in prima persona per la liberazione e l’ emancipazione del suo paese, impegno che si è assunta in prima persona con uno spirito di sacrificio e di abnegazione che lascia senza parole.
Ha fondato Opwac, (Organization for Promoting Afghan Women’s Capabilities), un’ organizzazione non governativa che si prefigge di promuovere le capacità delle donne in un paese che le ha sempre negate.
Ci accoglie nella sua casa, offrendoci il pranzo che ha preparato insieme a sua madre e alle sue sorelle. Elegante nel suo abito tradizionale e sorridente, ci viene incontro felice di rivederci e di ospitarci nel suo paese. Incontrando i suoi occhi scuri, accogliendo i suoi gesti delicati e gentili, abbracciando il suo corpo piccolo ma forte, provo un’infinita tenerezza.
Malalai si è sposata la scorsa settimana. Quando l’abbiamo incontrata a dicembre non aveva in programma un matrimonio in tempi ravvicinati; lo ha accelerato per tranquillizzare la madre che era sempre molto in ansia per lei e anche perché consapevole che, secondo la tradizione afghana, una donna non sposata è un’anomalia, suscita sospetti, è poco credibile ed è anche maggiormente esposta al pericolo soprattutto se svolge una funzione pubblica.

- Centro medico di Hamoon
Nel tardo pomeriggio visitiamo il Centro medico Hamoon gestito da Opwac. I finanziamenti provengono dalla Germania, ma da due mesi le donazioni si sono ridotte e questo ha imposto una ristrutturazione. Da ospedale è diventato un ambulatorio solo per donne e bambini che ricevono visite e medicine gratuitamente. Dispone di una pediatra e di una ginecologa che visitano 25-30 persone al giorno, è aperto tutti i giorni dalle ore 15 alle 18.
Vi sono anche medici volontari che danno il loro contributo gratuitamente e questo consente di contenere le spese e anche di curare più persone.
I mezzi però sono sempre pochi, per cui non si può soddisfare pienamente i bisogni sanitari della popolazione.
Pur essendo un centro piccolo, dispone di due ambulanze molto utili per il trasporto all’ospedale governativo dei malati che qui non si possono curare. Le ambulanze, anche se non possono correre velocemente a causa delle strade dissestate, sono almeno attrezzate per fornire il primo soccorso.
In tutta la provincia di Farah, che ha una popolazione di 900.000 abitanti, esistono le seguenti strutture sanitarie:
- un ospedale generale governativo
- il centro medico di Opwac
- un piccolo ambulatorio
- un ospedale della Croce Rossa.
Chiediamo a Malalai il motivo della riduzione dei finanziamenti al suo Centro.
Ci risponde che questi finanziamenti sono stati molto elevati fino a tre anni fa e sono diminuiti dopo la guerra in Iraq; l’attenzione si è spostata sulla popolazione irakena e l’Afghanistan è passato in secondo piano. Lei cerca in tutti i modi, andando in giro per il mondo, di parlare degli immensi bisogni del suo paese e di richiamare l’attenzione sull’Afghanistan, ma è consapevole che troppi sono i paesi travolti dalle guerre che hanno bisogno di aiuto.

- Corsi di computer
Lasciato l’ambulatorio, visitiamo i corsi di computer gestiti da Opwac e frequentati da un centinaio di ragazzi e ragazze. I corsi sono pomeridiani e durano tre o cinque mesi in relazione al livello di conoscenza che i corsisti desiderano raggiungere.
Maschi e femmine sono separati, frequentano cioè i corsi in orari diversi, ma gli insegnanti sono solo maschi. Un insegnante giovanissimo, che lavora qui da due mesi, dopo essere rientrato dall’Iran dove ha vissuto molti anni come profugo, ci spiega in che cosa consiste l’insegnamento di base, poi sente il bisogno di ringraziare Opwac e i suoi supporter per l’opportunità offerta a molti giovani afghani di acquisire una competenza che potrà servire anche per trovare un lavoro.
Malalai ci dice che normalmente viene qui quattro volte al mese per parlare con le ragazze, per aggiornarle su quanto succede nella provincia di Farah e in Afghanistan, sulle iniziative delle donne nella lotta per i diritti umani affermati dalla Costituzione. Ultimamente è stata molto all’estero e ha dovuto trascurare questo impegno a cui lei tiene molto. Sottolinea che mantenere un rapporto con la gente della sua provincia è il compito fondamentale di ogni delegato eletto alla Loya Jirga. Rientrata da Kabul, dove aveva partecipato al dibattito per il varo della Costituzione, ha organizzato molti incontri con le persone di Farah per spiegare i contenuti e lo spirito della Costituzione e tuttora cerca di verificare, attraverso il confronto con la gente, se i diritti umani vengono effettivamente rispettati e promossi dagli organismi governativi.
Questo spiega le iniziative che aveva preso per chiedere la destituzione di Bashir, il governatore inviato a Farah; questo spiega il suo coinvolgimento in prima persona nella lotta delle donne di Farah per il diritto all’istruzione; questo ci aiuta a capire perché Malalai dice sempre che lei vuole essere solo la voce del suo popolo.
Ascoltandola, mi è venuto in mente quanto ci aveva detto a dicembre:”Ognuno di noi ha un compito, io ho questo compito verso il mio popolo. Se smettessi di dare voce all’ infinita sofferenza delle persone che mi hanno eletto e al loro ineludibile bisogno di giustizia, forse il mio corpo sarebbe più al sicuro, ma la mia mente smetterebbe di vivere”.

- Malalai Office
Entriamo nell’ufficio della delegata alla Loya Jirga, Malalai Joya. Una stanza accogliente e calda, con ampi divani, sulle pareti la parola “pace” scritta in tutte le lingue del mondo e la bandiera relativa, la carta geografica dell’Afghanistan e del mondo.
Malalai è seduta accanto al marito, un uomo giovane, quasi un ragazzo, delicato, gentile, che ha voluto incontrarci e conoscerci perché Malalai gli aveva parlato molto bene e con grande entusiasmo dei supporter italiani. Ci ringrazia per l’accoglienza amichevole che le abbiamo riservato quando è venuta in Italia, per tutto quello che abbiamo fatto e faremo per aiutarla a realizzare i suoi obiettivi in favore del popolo afghano.
Arriva una rappresentanza delle donne che hanno manifestato in difesa di Malalai. Senza velo sono scese nella piazza centrale di Farah, pronte a sfidare chiunque cercasse di ostacolarle.
C’erano più di quattromila persone ad accogliere Malalai e le donne erano in prima fila, decise, determinate e soprattutto libere dalla paura.
Ci danno il benvenuto, ci portano il saluto di tutte le donne di Farah e ci parlano della loro impresa con orgoglio.
Anche noi portiamo il nostro saluto con le seguenti parole:
“Incontrarvi e conoscere da vicino il vostro coraggio è un grande privilegio per noi, un’esperienza unica che rende più ricca la nostra vita. Voi siete il futuro, voi siete la speranza, voi siete la pace che avanza e si afferma contro l’orrore della guerra; voi siete il segno tangibile del rispetto dovuto ad ogni persona; voi siete il cambiamento di cui il mondo ha bisogno per uscire dalla follia. Noi vi sentiamo sorelle e saremo con voi sempre. Percorreremo insieme la strada della giustizia, della fratellanza tra i popoli e insieme costruiremo un mondo dove ogni essere umano potrà vivere in pace. Grazie per tutto quello che state facendo anche per noi. Noi vi porteremo sempre nei nostri cuori ”.
Ci abbracciamo e la commozione sale alla gola.
Chiediamo a Malalai se anche nelle altre province dell’Afghanistan è in atto questo cambiamento, se c’è la stessa determinazione a pretendere che i diritti umani vengano realizzati.
Ci risponde che la provincia di Farah è speciale perché ha sofferto molto. Anche in altre province comunque ci sono state prese di posizione a suo favore e contro i signori della guerra perché la gente sa che, quando lei parla chiedendo giustizia, parla per tutto l’Afghanistan.
Spesso la fermano per strada e le dicono:”Tu sei un’afghana che sta lottando per tutti noi e noi siamo con te.”
Chiediamo a Malalai se ha intenzione di presentarsi alle prossime elezioni parlamentari e lei risponde che farà quello che il suo popolo le chiederà di fare. Conosce i leader del partito Hambastagi e ha stima di loro perché sono dei veri democratici e stanno facendo molto nelle varie province per promuovere i diritti umani e per le donne.
Lei vorrebbe essere indipendente, per permettere al maggior numero possibile di persone di riconoscersi nel suo progetto di cambiamento della società; vorrebbe essere libera nel suo agire, perché pensa che in questo modo potrebbe far capire meglio al mondo intero che una donna afghana può fare politica se ha le idee chiare e la gente dalla sua parte, comunque accetterà di candidarsi se il suo popolo glielo chiederà e assicura fin d’ora che, dovunque sarà, continuerà a parlare.
Malalai ha davvero le idee chiare: per lei fare politica significa operare ogni giorno a contatto con le persone in carne ed ossa, conoscere i loro bisogni, condividere la loro sofferenza e trovare insieme a loro la via migliore per affermare la giustizia contro la prepotenza.
E’ la strada della politica come servizio e non come potere.
Malalai si è formata in una scuola di Rawa, al mattino studiava e al pomeriggio insegnava. E’ diventata assistente sociale e ha lavorato in alcune ONG. La sua professione l’ ha messa in contatto con molte persone che le raccontavano esperienze di vita attraversate da un dolore immenso. Si sentiva impotente, quando tornava a casa spesso piangeva e non riusciva a mangiare tanta era la pena che provava.
Suo padre, un uomo profondamente democratico, le ha trasmesso il senso della giustizia ed è stato per lei un maestro di vita. Si stava laureando in medicina, ma ha interrotto gli studi per partecipare attivamente alla resistenza contro l’invasione sovietica e ha perso una gamba.
Per salvare la sua famiglia dalla violenza della guerra civile, è scappato in Iran. Malalai è cresciuta in un campo profughi a contatto con la gente, condividendo la condizione dell’esiliato che ha perso tutto ed è costretto a vivere ai margini della società.
E’ l’enorme sofferenza del suo popolo che l’ ha portata a diventare quella che è.
Mentre la salutavo, è affiorato alla mia mente questo racconto della sua vita che lei ci aveva fatto nel dicembre scorso e mi è venuto spontaneo abbracciarla più forte come se volessi proteggerla e cercassi, con il calore del mio affetto, di risarcirla delle troppe cose che le sono state tolte.

- Orfanotrofi di Rawa
A Farah Rawa gestisce due orfanotrofi, uno maschile con quaranta ospiti, l’altro femminile con 50 ospiti; non tutti sono orfani, alcuni hanno un padre o una madre che però non hanno i mezzi per mantenere i figli.
Quello femminile è diretto da due educatrici, quello maschile da un uomo e da una donna con una competenza professionale specifica, il resto del personale è costituito da due cuoche e da due educatori. I responsabili vivono nell’orfanotrofio.
Gli ospiti hanno un’età compresa tra i 5 e i 15 anni.
Dopo aver fatto colazione, escono per frequentare la scuola pubblica, quando tornano hanno il pranzo, al pomeriggio fanno i compiti e giocano, alla sera consumano la cena e poi guardano la televisione.
Qualche volta vanno a casa, se hanno dei parenti, altre volte ricevono visite.
Quando entriamo, stanno guardando la televisione. Ci salutano sorridendo, dandoci la mano. C’è un clima sereno, familiare e gioioso. I maschietti si esibiscono recitando poesie e cantando canzoni, le bambine preferiscono mostrarci i lavoretti che stanno facendo; tutti ricevono con piacere carezze e baci.
Il loro aspetto sano, pulito, ordinato e la loro serenità sono la conferma che vengono trattati con molta cura e molto affetto.
I due orfanotrofi sono sorvegliati dalle stesse guardie che presidiano l’ufficio di Malalai situato nella stessa via.
Facciamo fatica a separarci dai bambini e dalle bambine che non sanno più cosa inventare per trattenerci.
Ceniamo all’aperto nel cortile dell’orfanotrofio maschile che dispone di una cucina.
E’ scesa la notte e dobbiamo tornare a casa. Camminiamo sotto il cielo stellato preceduti da un’auto che cerca di illuminare la strada per evitarci di cadere nelle frequenti buche.
Siamo in compagnia di Danish, Sora, Ammasa, Maryam, sorvegliate dalle guardie del corpo e protette dai supporter maschili di Rawa.
La giornata è stata davvero intensa, ricca di emozioni, di incontri con donne e uomini straordinari.
Abbiamo conosciuto bambini e bambine sereni che si stanno preparando alla loro vita futura con molto impegno e serietà.
Abbiamo conosciuto la tenerezza, la dignità, la fierezza, l’orgoglio, la passione, la determinazione, il coraggio delle donne e degli uomini di Farah che stanno cercando di trasformare il loro paese in un luogo vivibile.
Abbiamo sentito nei loro gesti un grande rispetto per l’ospite, accolto in ogni momento con gratitudine e spirito fraterno.
Concludiamo la giornata sedute nel cortiletto della “nostra casa”, rallegrate dalla risata contagiosa di Ammasa che parla continuamente in dari con una mimica così esplicita che riusciamo a intuire i suoi sentimenti e a ridere con lei.

4. Ritorno a Herat

E’ arrivato il momento di lasciare Farah dove abbiamo trascorso due notti e un’intera giornata.
Al mattino presto arriva la segretaria di Malalai con un regalo per ciascuna di noi, una bellissima sciarpa di un intenso color arancio impreziosita da leggeri ricami, poi arriva Ammasa che ci dona un foulard con disegni floreali, poi arrivano Maryam e Sora che insistono perché prendiamo altro the e infine arrivano gli uomini che hanno preparato il nostro alloggio con molta cura.
Dobbiamo salutarci e partire in fretta perché la strada davanti a noi è lunga e difficile.
Siamo emozionate, commosse, abbiamo le lacrime agli occhi.
Entrata nell’auto, indugio ancora, guardo Maryam e Ammasa che cercano di consolarmi e, salutandomi, portano la mano destra sul cuore, gesto che io ricambio per dire loro che saranno sempre nel mio cuore.
“Hodo offis, Maryam jan, tashakor.” “Hodo offis, Ammasa jan, tashakor”.
“Arrivederci, cara Maryam, grazie”. “Arrivederci, cara Ammasa, grazie”.
Partiamo scortate da due auto con le guardie del corpo che ci accompagneranno per un lungo tratto con la solita discrezione.
La landa brulla e desolata, le montagne imponenti, i campi minati, i corsi d’acqua irruenti, il terreno fangoso che rallenta la marcia, il cielo azzurro e luminosissimo scorrono nuovamente davanti ai miei occhi che non smetterebbero mai di guardare.
Ad una sosta forzata per raffreddare il motore fumante, un vecchio, alto, dai tratti tipicamente tagiki, vestito miseramente ma molto dignitoso nel portamento, si avvicina per offrirci ospitalità, invitandoci nella sua povera capanna d’argilla dove potremo avere tchai e nan, the e pane.
Ecco un altro segno della gentilezza del popolo afghano verso lo straniero.
Non possiamo fermarci, dobbiamo muoverci per arrivare in tempo all’aeroporto.
In prossimità di Herat il cielo si oscura, nuvole dense e nere, orlate di una luce vivida, rovesciano un forte acquazzone che per fortuna dura poco. Quasi all’improvviso il colore rosso del tramonto incendia le montagne, creando forti contrasti di luce e di ombre che alterano la percezione dello spazio circostante.
Siamo all’aeroporto, ma dopo ore d’attesa siamo costrette a passare la notte ad Herat perché il volo è stato cancellato.
La sera Sahar e Naja, due giovanissime donne di Rawa, arrivano in albergo in compagnia di Shafic, supporter di Rawa, per portarci in un parco a fare un picnic sotto le stelle, secondo le usanze del luogo.
Herat è una città a 900 metri di altitudine, spazzata dal vento per gran parte dell’anno.
L’aria è fredda ma non ci scoraggiamo e così facciamo un’esperienza davvero insolita.
In albergo chiediamo a Sahar e Naja di parlarci dell’attività di Rawa a Herat.
Qui Rawa ha solo corsi di alfabetizzazione.
Qui l’integralismo religioso e la mentalità patriarcale schiacciano le donne, non riconoscendo loro alcun diritto. Molte di loro, di età compresa tra i 12 e i 35 anni, si danno fuoco per sfuggire ai matrimoni forzati, alla violenza domestica, alle rigide tradizioni tribali. Nel corso dell’ultimo anno più di 700 donne hanno scelto di auto-immolarsi e una cinquantina sono morte. Le famiglie non denunciano il fatto e cercano di camuffarlo come incidente domestico perché vivono l’evento come un attentato all’onore del maschio, come la manifestazione evidente della sua debolezza e della sua incapacità di tenere sotto controllo le sue donne. Le sopravvissute hanno una vita ancora più dura perché, con il loro corpo sfigurato, sono il segno tangibile di una ribellione femminile agita contro il maschio, di un estremo gesto di libertà che umilia l’uomo, rendendolo ancora più aggressivo.
Il mattino seguente facciamo un giro per la città che un tempo conobbe gli splendori della grande città imperiale, vediamo i minareti e la Moschea del Venerdì. Dei nove imponenti minareti rivestiti di ceramica azzurra che risalgono alla seconda metà del XV secolo, oggi ne rimangono solo quattro che però hanno quasi completamente perso il bellissimo rivestimento. Poco lontano la moschea, di origine antichissima, probabilmente anteriore al Mille, appare in tutto il suo splendore grazie all’effetto cromatico del suo rivestimento di ceramica blu, gialla, turchese, bianca. All’interno ospita il laboratorio dei ceramisti che possiamo vedere accompagnate da un addetto desideroso di mostrarci la grande perizia di chi vi lavora.
Per le strade le donne camminano veloci coperte dal burqa e dal chador, il traffico è caotico, carretti trascinati da asini e auto strombazzanti si contendono il diritto di precedenza, molti i bazar in cui si vende di tutto e molti i negozi in cui si vendono solo burqa.


5. Rientro a Kabul, ritorno in Pakistan, partenza per l’Italia

La mattina dopo riusciamo a partire. A Kabul ci aspetta Safura con Madmuda e una donna anziana che ha preparato per noi un pranzo raffinatissimo. E’ felice di rivederci, vuole sapere come è andato il viaggio a Farah e se ci siamo stancate molto. La rassicuriamo, le diciamo che abbiamo fatto un’esperienza bellissima e che abbiamo conosciuto persone straordinarie. Lei ci ascolta con quell’attenzione, con quella partecipazione che ben conosciamo e che sempre ci commuove.
Il tempo a nostra disposizione è poco e non ci basta per ringraziarla.
Il momento della separazione è sempre doloroso. Lasciamo un’amica, una sorella, una donna di grande valore che vive in un paese insicuro, un paese che noi abbiamo imparato ad amare per il coraggio e la grandezza delle sue donne.
Lasciamo anche Danish, la nostra cara e giovane compagna di viaggio, vivace, curiosa, ironica, infaticabile, sempre pronta ad aiutarci a cogliere le sfumature di quello che accadeva intorno a noi.
Partiamo dopo gli abbracci e i baci che ormai sono diventati cinque, il massimo della vicinanza e dell’affetto.
Torniamo a Islamabad che ci sembra un paradiso dopo la polvere di Kabul e le strade dissestate di Farah.
E prima di ripartire per l’Italia, incontriamo nuovamente Zoia che, con la sua solita precisione, ci ricorda le priorità nei progetti che abbiamo promesso di sostenere.
Rivediamo Sohaila, Maryam, Sharara e anche Danish che ha voluto farci una sorpresa.
La gioia e la tristezza si mescolano, la mente indugia nei ricordi quasi per prolungare il tempo trascorso assieme, il timore che possa succedere qualcosa a chi ci è diventato caro ci crea molta inquietudine.
Dico grazie a queste donne meravigliose che sono capaci di sperare, che hanno la forza di non piegare la testa di fronte ai soprusi, che sanno amare con dedizione e rispetto, che sanno dire parole vere, che sanno accogliere la paura e la sofferenza di un popolo per trasformarle in coraggio e in passione per la libertà.
Conoscerle è un grande privilegio, camminare accanto a loro è una grande ricchezza ma anche una grande responsabilità, che chiede di mantenere viva l’attenzione sull’Afghanistan ed esige un impegno costante a sostegno dei loro progetti per la realizzazione dei diritti umani in un paese che ha tanto bisogno di pace per avere un futuro.