L’INTERVENTO MILITARE IN AFGHANISTAN. QUALE SICUREZZA?

IN OCCASIONE DELL'AUDIZIONE AL SENATO TENUTASI IL 24FEBBRAIO SCORSO, IL PUNTO DI VISTA DEL CISDA SULLA PRESENZA E SUGLI OBIETTIVI DELLA MISSIONE DELLE TRUPPE ITALIANE IN AFGHANISTAN


Febbraio 2007 di Laura Quagliuolo

 


Onorevoli Senatori della Commissione Difesa del Senato,
vogliamo innanzitutto ringraziare tutti voi per averci consentito, con questa audizione, di esprimere il nostro punto di vista sulla presenza militare in Afghanistan. Parlo a nome delle Donne in Nero, un movimento di donne da molti anni impegnate a portare avanti una politica di pace “dal basso”. Ci rechiamo nei paesi attraversati da conflitti e guerre per intessere relazioni con associazioni e persone che in nei loro paesi si battono al fine di avere una pace giusta e per sostenere i loro progetti sociali e di pace. Privilegiamo lo sguardo femminile sia in quanto donne sia perché riteniamo che le donne, quasi sempre le prime vittime dei conflitti e dei fondamentalismi, siano anche una enorme risorsa per la costruzione di prospettive di pace.
Da sempre, chiediamo che i nostri governi rispettino e onorino l’articolo 11 della nostra Costituzione.

Dal 1999, in Afghanistan, lavoriamo a fianco di alcune associazioni e ong afghane, tra cui RAWA, HAWCA, OPAWC, con la presidente della provincia afghana di Bamyan Habiba Sorabi, con la deputata del parlamento afghano Malalai Joya, che nel luglio scorso è stata udita da alcuni deputati e senatori del nostro parlamento e dai vice presidenti della Camera Carlo Leoni e Giorgia Meloni, e abbiamo regolari contatti con membri del partito Hambastagi, i redattori della rivista Rozgaran, purtroppo chiusa per mancanza di fondi, con diversi esponenti della società civile afghana.

Ogni anno, dal 2002, almeno una volta all’anno accompagniamo delle delegazioni in Afghanistan - non solo a Kabul, ma a Bamyan, a Farah, a Jalalalbad, in Nangrahar - e tra i rifugiati del Pakistan per vedere di persona la situazione e per verificare l’andamento dei progetti gestiti dalle nostre associazioni di riferimento che sosteniamo attraverso il CISDA, una onlus che abbiamo fondato a questo scopo.
I nostri viaggi ci consentono quindi di raccogliere le voci dei molti afghani, ma non manchiamo di seguire i fatti anche dall’Italia, proprio per avere la massima comprensione della situazione; abbiamo letto e analizzato il lavoro della Commissione indipendente per i diritti umani (AIHRC), istituita dalla costituzione afgana, i diversi rapporti di HRW, di Amnesty International usciti dal 2003, i rapporti delle Nazioni Unite e ci documentiamo costantemente attraverso gli articoli dei più autorevoli commentatori italiani e stranieri (vedi allegati). Siamo anche in contatto con le più importanti ong italiane che lavorano in Afghanistan e abbiamo rapporti continuativi con l’Ambasciata Italiana a Kabul.

Ebbene, la maggioranza di queste persone e associazioni, i rapporti stilati dalle organizzazioni per i diritti umani, molti giornalisti sottolineano soprattutto una cosa: a seguito dell’intervento militare in Afghanistan, nel 2001, la coalizione internazionale ha commesso il gravissimo errore di riportare al potere molti esponenti dell’Alleanza del Nord, una coalizione di fazioni e partiti fondamentalisti, i cui leader sono stati accusati di crimini contro la popolazione civile dalle maggiori organizzazioni per i diritti umani, che si stanno appropriando dei fondi della ricostruzione, delle terre ecc., che controllano la produzione e il mercato dell’oppio, che non stanno facendo nulla per migliorare le condizioni della popolazione, che sono pronti scatenare una nuova guerra civile pur di mantenere il controllo del paese e delle risorse, che stanno reprimendo la popolazione e soprattutto le donne come e peggio dei talebani. Anche i dati statistici dell’UNICEF dimostrano che le condizioni di vita non sono cambiate e la popolazione è molto sfiduciata e allo stremo (vedi allegati)

Gli afghani, non uno escluso, ci chiedono che facciamo pressioni sui governi dei nostri paesi perché l'attenzione non si focalizzi solo sulla presenza o meno dei contingenti militari, ma sulle funzioni che questi contingenti devono avere e sulla giustizia, perché in Afghanistan non ci potrà essere pace fino a che le vittime di crimini non saranno risarcite e riconosciute, e i criminali condannati da un tribunale internazionale.


Il 31 gennaio 2007 la Camera bassa del Parlamento afghano (Wolesi Jirga) ha approvato quasi all’unanimità una risoluzione che, se approvata, garantirebbe l’impunità per tutti gli afghani coinvolti negli ultimi 25 anni di conflitti, inclusi il leader dei talebani Mullah Omar, l’ex primo ministro Hekmatyar, indicato perfino dagli Stati Uniti come uno tra i più pericolosi terroristi (e citato nel rapporto di Human Rights Watch Blood Stained Hands – 2005 - come uno dei maggiori responsabili di crimini commessi ai danni della popolazione, soprattutto negli anni della guerra civile tra il 1992 e il 1996) e il cui partito conta oltre 30 deputati, e molti membri del parlamento e del governo in carica, anch’essi macchiatisi di crimini.
Mohaqiq, un parlamentare e leader di una fazione filoiraniana, tra i principali promotori di questa gravissima iniziativa, ha dichiarato che “La risoluzione è stata presa al fine di sostenere gli sforzi di Karzai volti a favorire la riconciliazione nazionale”.
Noi pensiamo che qualsivoglia riconciliazione nazionale non possa avere successo se prescinde dal riconoscimento delle vittime e dalla condanna dei crimini e degli abusi.

La stessa UNAMA (Missione di Assistenza delle Nazioni Unite in Afghanistan) ha sottolineato, in un comunicato diffuso il giorno seguente alla risoluzione del parlamento, che “la lotta e il sacrificio del popolo afghano nella sua ricerca della pace, della libertà, dell’indipendenza e di una vita migliore durante oltre 25 anni di conflitti, merita pieno riconoscimento. L’UNAMA intende assicurare che i diritti delle vittime rimangano al centro del dibattito. Perché qualsiasi processo di riconciliazione nazionale abbia buon esito, le vittime devono essere riconosciute e l’impunità deve essere bandita. Nessuno, tranne le vittime stesse, ha il diritto di perdonare i responsabili per violazioni dei diritti umani. L’esperienza internazionale dimostra che la verità è fondamentale per la riconciliazione. Di conseguenza la ricerca della verità e i diritti delle vittime sono centrali al fine di implementare il Piano di Pacificazione, Pace e Giustizia per l’Afghanistan”.

A quanto pare, il Presidente afghano Karzai avrebbe rigettato questa risoluzione, ma questo non è certamente sufficiente per risolvere il problema della presenza di criminali di guerra, che continuano a rimanere al controllo dei posti chiave nelle istituzioni afghane.

Il parlamento afghano, legittimato e sostenuto da tutta la comunità internazionale e salutato come una grande conquista per la democrazia in quel paese, è composto per il 6% da trafficanti di droga, per il 4% da taleban considerati “moderati”, per il 72% da signori della guerra, per il 3% da religiosi conservatori e per il restante 15% da un’opposizione democratica e non implicata in crimini di guerra. Un caso emblematico che illustra il clima interno al parlamento afghano è appunto quello di Malalai Joya, deputata eletta a Farah, che dal suo scranno parlamentare continua a denunciare i criminali di guerra e a chiedere giustizia e che per questa ragione il 7 maggio 2006 è stata aggredita fisicamente nella stessa aula parlamentare e ha ricevuto diverse minacce di morte; un altro caso tra i tanti è quello della funzionaria governativa e attivista per i diritti umani di Kandahar Safia Amajan, assassinata nella sua città lo scorso settembre.

Gli afghani, alla fine del 2001, avevano salutato con favore la presenza delle truppe dell’ISAF: infatti il mandato ONU prevedeva che le truppe avessero il ruolo di peace keeping, di protezione della popolazione, di appoggio al processo di ricostruzione. I dati dimostrano che troppo poco di tutto questo si è realizzato e la NATO, da un anno a questa parte, ha espropriato l'ONU della missione, e il comando ISAF è recentemente passato nelle mani degli Stati Uniti che non hanno dimostrato di essere interessati alla pace e al benessere per la popolazione afghana ma solo al controllo del paese.
Oggi la NATO chiede all’Italia di rafforzare il suo contingente al sud, dove infuriano i combattimenti e gli attentati sono all’ordine del giorno.

Le regole d’ingaggio delle truppe ISAF, che hanno sostituito di fatto la missione Eduring Freedom, sono quindi differenti dal mandato originale dell’ONU: le truppe ISAF sono oggi in Afghanistan per combattere contro i talebani, per mantenere le posizioni di un governo debole, corrotto e pieno di criminali di guerra e per sostenere la politica degli Stati Uniti. A causa della politica dell’amministrazione statunitense i soldati americani sono detestati dalla popolazione, e lo stesso sta accadendo alle truppe ISAF impegnate nei fronti di guerra.

Questa situazione sta portando l’Afghanistan a fare enormi passi indietro. I talebani si rafforzano sempre più perché raccolgono lo scontento della popolazione, per la quale quasi nulli sono stati i miglioramenti nelle condizioni materiali. Gli afghani, nel 2001, avevano sperato nella fine degli abusi, delle violenze, della miseria, della guerra e che sarebbe finalmente partito un programma di ricostruzione che assicurasse i beni minimi per la sopravvivenza: acqua pulita, strutture sanitarie, scuole, lavoro, case, elettricità, maggiore libertà per le donne. Tutto questo, ci assicurano molti afghani con cui abbiamo parlato, si sarebbe potuto fare, o comunque avviare proficuamente, con i fondi donati al governo afghano dalla comunità internazionale. Tutto questo, insieme a un serio programma di giustizia transizionale che riconoscesse le vittime degli abusi, avrebbe potuto creare nella popolazione un clima di fiducia nel futuro. Tutto questo avrebbe realmente annullato il pericolo di una recrudescenza talebana.

Invece, della ricostruzione si vedono assai poche tracce, e sono concentrate soprattutto nella capitale, dove però i prezzi sono lievitati rendendo ancora più difficile la vita dei residenti, e la guerra al sud continua, una guerra le cui vittime continuano a essere soprattutto i civili, che troppo spesso le truppe occidentali fanno passare per miliziani talebani. Le province sono nella maggior parte dei casi abbandonate a se stesse.
Il governo di Hamid Karzai controlla a malapena la capitale; l’esercito nazionale è debole e mal pagato, mentre le milizie private sono ben pagate e bene armate.
La produzione di oppio, in mano ai signori della guerra, è aumentata, fino a divenire il 92% del quantitativo prodotto in tutto il mondo e a costituire la metà del PIL nazionale.
La corruzione dilaga, e la condizione delle donne è purtroppo tuttora drammatica: solo il 12 per cento sono alfabetizzate, la mortalità per maternità è di 1600 donne su 100.000, molte scuole femminili vengono chiuse o bruciate, le donne continuano a essere costrette a matrimoni forzati in età giovanissima, è stato istituito di nuovo, su pressioni dei fondamentalisti, il Ministero per la promozione della virtù e per la prevenzione del vizio, di retaggio talebano, e il già debole Ministero degli affari femminili è stato indebolito.

Però, tutti gli afghani con cui abbiamo parlato ci hanno anche detto chiaramente che la dipartita delle truppe ISAF comporterebbe immediatamente l'inizio di una nuova guerra civile cruentissima, dalla quale questo paese e la sua gente non riuscirebbero più a rialzarsi. I partiti e le associazioni realmente democratiche, la società civile, che si sono esposti nella speranza di vedere avviato un vero processo democratico, sono deboli e soprattutto privi di sostegno esterno e sarebbero i primi a soccombere di fronte alla ripresa delle ostilità. Molti afghani ci hanno detto anche che nessuna nazione può liberare un’altra nazione. La libertà non si ottiene solo elargendo denaro o inviando truppe straniere, ma deve essere conquistata e costruita dalla stessa società civile all’interno del suo paese. Quanto sta accadendo in Afghanistan ne è una chiara dimostrazione. Gli altri paesi possono solo essere di aiuto e sostegno. Le truppe ISAF dovranno però conquistarsi la fiducia e la stima della popolazione, pena il fallimento della missione.

Per questo gli afghani chiedono che i governi europei si smarchino dalla politica statunitense, che agiscano in maniera indipendente, che si attivino per far sì che i criminali di guerra vengano rimossi dalle cariche di potere, favorendo l'avvio di un tribunale internazionale per condannare i principali responsabili, che smettano di far credere alle loro opinioni pubbliche che questi criminali siano persone democraticamente elette, che ascoltino la voce della popolazione, che riconoscano che i sei anni passati non hanno comportato miglioramenti tangibili e chiedano conto al governo afghano dei soldi concessi per la ricostruzione. Chiedono inoltre che chi vuole veramente la pace e la democrazia per l'Afghanistan sostenga fattivamente i democratici e rafforzi le loro voci.
Questo è quanto ci chiedono gli afghani, e noi pensiamo che le loro voci debbano essere ascoltate se vogliamo realmente impegnarci per assicurare loro un futuro di pace.

Per queste ragioni chiediamo al nostro Governo quale sia la sua posizione in questo conflitto, chiediamo se l’intenzione è quella di continuare a sostenere la politica statunitense, ora minoritaria anche nel proprio parlamento e invisa alla stessa popolazione americana, chiediamo che venga esercitato un forte controllo per sapere dove va a finire ogni centesimo concesso al governo afghano per la ricostruzione, chiediamo che venga istituito un tribunale internazionale per condannare i criminali di guerra afghani.


Dall’introduzione del rapporto Blood stained hands di Human Rights Watch – 2005 -http://hrw.org/reports/2005/afghanistan0605/


Questo rapporto documenta solo una piccola parte dei due decenni passati [...]; vuole infatti focalizzare l’attenzione su un solo anno della storia dell’Afghanistan, quello tra l’aprile del 1992 e il marzo 1993, che seguì il collasso del governo filosovietico a Kabul. L’attenzione è inoltre focalizzata in un solo luogo: la capitale dell’Afghanistan, Kabul, e le sue immediate vicinanze. [...] Quell’anno, che avrebbe potuto segnare una nuova era di libertà per il paese, fu invece uno dei suoi periodi più bui.
Come dimostrato da questo rapporto, Kabul fu quell’anno teatro di un conflitto cruento tra diverse fazioni ostili tra loro [...]. Per tutto quel periodo le diverse fazioni in conflitto commisero infinite atrocità ai danni della popolazione civile afghana. Decine di migliaia di civili vennero uccisi e feriti nei combattimenti. Molti degli assassini di civili furono causati da diretti o indiscriminati attacchi ai danni della popolazione; vennero inoltre commessi altri gravi abusi delle leggi umanitarie internazionali (le leggi di guerra). Le milizie, in quel periodo, sequestrarono migliaia di civili; la maggior parte di essi sparì. Gran parte della città venne saccheggiata e distrutta. Le distruzioni che segnarono Kabul durante quel periodo, ferite di cui vi è ampia testimonianza ancora oggi, vennero perpetrate anche negli anni seguenti, fino alla presa di Kabul da parte dei talebani.
I crimini commessi in quel periodo non hanno ricevuto la stessa attenzione dei crimini commessi durante altre fasi della lunga guerra afghana. L’intera storia del conflitto in Afghanistan, a partire dall’invasione sovietica fino a oggi, è segnata da atrocità. Nel 1980 l’armata rossa sovietica commise moltissimi crimini di guerra e crimini contro l’umanità, colpendo indiscriminatamente i civili [...]. Anche durante il regime dei talebani (tra il 1996 e il 2001) vennero commessi numerosi crimini di guerra. [...] Le Nazioni Unite hanno stilato un elenco di crimini di guerra, di crimini contro l’umanità e di violazioni dei diritti umani per tutto il periodo tra il 1978 e il 2001 focalizzando però l’attenzione soprattutto sui crimini commessi dall’armata sovietica e dai talebani [...]; ma il periodo all’inizio del 1990 ha ricevuto relativamente poca attenzione. [...]
La seconda ragione per cui abbiamo focalizzato la nostra attenzione agli inizi degli anni ’90 è la grossa rilevanza che questi fatti rivestono nel presente. Molti dei principali comandanti e leader delle fazioni politiche implicati nei crimini citati in questo rapporto sono ora funzionari del governo afghano con incarichi importanti nella polizia, nell’esercito, nei servizi segreti e anche come consiglieri del presidente Hamid Karzai. [...]
Molti afghani, e in particolare gli abitanti di Kabul, pensano che, per gli abusi commessi, questi leader non siano idonei alle posizioni che rivestono. Noi concordiamo con questa tesi. Human Rights Watch ha lavorato in zone di conflitto e post conflitto in quattro continenti per oltre 25 anni. Abbiamo osservato i successi e i fallimenti di numerosi processi per la costruzione della pace e documentato di volta in volta come leader incaricati nel periodo di post conflitto con un passato di abusi [...] abbiano continuato a commettere abusi o consentito che l’illegalità continuasse o ritornasse.
Queste lezioni si possono applicare anche all’Afghanistan di oggi. Nonostante gli accordi di Bonn del 2001, che hanno sancito la formazione del governo del presidente Karzai, molte regioni dell’Afghanistan sono ancora sotto il controllo di signori della guerra che agiscono autonomamente e che controllano le loro milizie [...].
Molti dei signori della guerra e leader delle fazioni citati in questo rapporto sono coinvolti anche in violazioni di diritti umani perpetrate nella zona di Kabul dopo il 2001, abusi che includono il saccheggio di abitazioni, rapimenti, tortura di prigionieri, stupri e assassini.
Human Rights Watch ha documentato molti di questi abusi in altri rapporti stilati negli anni passati (Killing you is a very easy thing for us e Abuses in southeast Afghanistan – 2003; Paying for the taliban’s crimes: abuses against ethnic pashtuns in northern Afghanistan – 2002). Molti alti funzionari citati in questo rapporto e nei nostri rapporti precedenti sono anche implicati in casi diffusi di espropriazione delle terre, come descritto nel rapporto dell’AIHRC (A call for justice).
Dunque, la maggior parte dei signori della guerra coinvolti negli abusi dei primi anni ’90 sono recidivi. Questo è evidente anche a molti cittadini di Kabul che negli ultimi tre anni ci hanno ripetuto instancabilmente che “i signori della guerra sono e rimarranno signori della guerra”. Ma questa lezione sembra non sia stata imparata da molti funzionari, sia afghani sia internazionali.