OSSERVAZIONI SUL TESTO "LONTANE DAI MILITARI, LONTANE DA CHI LI IMITA"
MATERIALI DA UN TESTO


maggio 2001, di Lidia Cirillo

 

Care compagne, care amiche,
vorrei fare alcune osservazioni di metodo e di merito a proposito del testo che è andato in giro pressappoco nei giorni di Pasqua con il titolo Lontane dai militari, lontane da chi li imita. Il testo naturalmente è stato mandato anche a Nadia de Mond e a me, ma eravamo entrambe altrove e abbiamo potuto vederlo solo a cose fatte, quando ormai circolava non solo nel movimento, ma anche sulla stampa.
La prima osservazioni di metodo è che sarebbe stato meglio non interrompere una pratica consolidata in un anno e mezzo di vita della Marcia per cui i testi comuni si elaborano in comune. Conoscendo Monica, non attribuisco la vicenda ad alcuna volontà di prevaricazione, ma semplicemente alla fretta e all'ansia, in un contesto in cui ci sono valide ragioni per essere ansiose. Colgo tuttavia l'occasione per ricordare che in Italia, come nelle diverse dimensioni internazionali, la Marcia mette insieme donne con posizioni tra loro diversissime, spesso accomunate soprattutto dal desiderio di dare efficacia all'agire politico delle donne. Si tratta di un'impresa difficile ma, come le vicende dello scorso anno dimostrano, non impossibile. Condizione assolutamente necessaria dell'impresa è quella di darsi i tempi per trovare gli accordi che si rivelano di volta in volta possibili.
Le piattaforme mondiale ed europea sono state discusse per circa un anno; la piattaforma italiana ha avuto per fortuna un parto meno elaborato (è anche più striminzita) ma ogni virgola, ogni congiunzione, ogni formula sono state comunque discusse.
Una discussione sarebbe stata necessaria, perché non è vero purtroppo che fossimo tutte d'accordo. Nell'ultima riunione siamo state tutte d'accordo su ciò che avremmo dovuto fare e discutere noi, sulle forme di lotta e di presenza che avrebbero dovuto caratterizzarci. Non siamo state invece d'accordo sul giudizio a proposito delle vicende interne al movimento antiglobalizzazione.
Come Monica ricorderà, nell'ultima riunione di Genova sono stata proprio io a notare che erano emerse tre posizioni: una di "pacifismo strategico"; una che si pronunciava sull'hic et nunc, senza trarne alcuna universale filosofia della non-violenza; una che riteneva compito del movimento delle donne mettere in campo le sue specifiche forme di lotta, senza dare giudizi su quelle altrui.
Date queste premesse sarebbe stato meglio attendere la riunione del 6 maggio per prendere posizione sulle imprese di tal Casarini Luca, che tra l'altro (se non ho capito male) non hanno nulla a che fare con la manifestazione del 15-16 giugno.
Per quel che riguarda il merito, quel che personalmente non condivido è, diciamo così, la filosofia del testo.
Di solito le affermazioni sul carattere mascolino della violenza mi lasciano piuttosto freddina, perché non sempre ciò che ha senso a livello etologico e antropologico ha senso a livello storico-politico.
Certo nella specie umana la violenza è delegata all'individuo di sesso maschile, ma una volta detto questo non si è spiegato nulla.
Il giudizio sulla virilità della violenza non è in sé falso, ma semplicemente tautologico, non esplicativo, mostruosamente appiattente. Vale per le guerre con la clava del paleolitico, per le guerre puniche, per la Resistenza, per la terza guerra mondiale e riduce tutto a un semplicistico minimo comune denominatore. Io ho sempre pensato, invece, che il genere dovesse servire a capire di più e non di meno delle vicende storiche e politiche.
Ora, una cosa è fare un'affermazione simile in un testo con spiegazione anche di altra natura, una cosa è fare di questa la spiegazione delle spiegazioni, cioè l'unica spiegazione.
L'aspetto per me inaccettabile della riduzione della violenza a espressione del patriarcato, almeno come può essere fatta in un testo necessariamente breve, è che finisce col mettere inevitabilmente nello stesso sacco Torquemada e Che Guevara, la violenza fascista e quella antifascista, la violenza del padrone che mette in catene lo schiavo e quella dello schiavo che scuote e rompe le catene. Per quel che mi riguarda, con la mia lunga storia politica passata e presente, non me la sento di tracciare un segno di equivalenza tra violenza israeliana e palestinese. Questo non vuol dire naturalmente che io giustifichi ogni tipo di violenza materiale e ideologica fatta in nome della liberazione del popolo palestinese, alcune delle quali letteralmente vomitevoli, come il fare eco agli argomenti negazionisti dell'estrema destra europea sulla Shoah. Ma questo ovviamente è tutt'altro discorso.
Ho aderito alla Convenzione di donne contro la guerra perché c'era a garanzia il nome di Rosa Luxemburg. Rosa ha infatti scritto pagine lucide e belle contro il militarismo, ma è morta in una rivoluzione armata che lei stessa aveva voluto e organizzato.
Certo la violenza è patriarcale e maschile; la specie umana ha la tendenza a risolvere in modo violento i propri conflitti perché sono solo e sempre gli uomini a deciderne gli esiti, ma la critica della violenza come maschile non può poi ignorare che esistono aggrediti e aggressori, sfruttati e sfruttatori, oppressi ed oppressori. E soprattutto non si può ignorare che per le donne e il femminismo non è indifferente quale gruppi maschile prevalga. Sarebbe stata per noi la stessa cosa, se la seconda guerra mondiale fosse stata vinta da Hitler?
Ora, cara Monica, mentre scrivo queste cose mi sento anch'io oggetto di violenza. Perché devo affrontare con argomenti necessariamente schematici cose così importanti? Non stavamo parlando di Genova e delle manifestazioni contro la globalizzazione? E che cosa c'entra Marcos con Genova? Se Marcos in un contesto diverso avesse fatto la scelta di non abbandonare le armi, la cosa avrebbe potuto essere ugualmente legittima (o non esserlo, dipende solo dalle circostanze).
Certi argomenti poi oscurano la critica allo specifico dell'hic et nunc.
A mio avviso certe aree del movimento soffrono di una grave sindrome propria della sinistra che, sia pure in forme assai diverse, caratterizza anche gli apparati dei partiti e dei sindacati. La malattia si chiama sostitutismo e nel caso di queste aree si manifesta nella convinzione che il conflitto sia una loro questione privata. Il sostitutismo è la tendenza di coloro che fanno politica per professione, passione o mania a sostituire se stessi , le proprie specifiche esigenze, le proprie pratiche ai settori sociali di cui dovrebbero essere invece solo gli organizzatori.
Se si pensa che l'obiettivo di fondo è di costruire grandi movimenti di massa, scioperi, organizzazioni ecc. contro la globalizzazione e le sue conseguenze allora la validità delle forme di lotta si misura sulla loro capacità di ampliare l'area dei partecipanti e di creare interesse e consenso nell'opinione pubblica. In questo contesto le spranghe ottengono l'effetto opposto. Allontanano quante e quanti non sono disposte a prendere una certa quantità di randellate gratuite; fanno giungere ai media messaggi che non chiariscono l'effettiva posta in gioco.
Questo non significa che le manifestazioni contro la globalizzazione debbano svolgersi secondo la legalità, l'ordine e la buona educazione. Ma significa certamente che le forme di lotta devono avere un rapporto con l'ipotesi di crescita e di radicamento del movimento. Ciò che impressiona di certe aree oggi, come alla fine degli anni Settanta, è la loro assoluta strafottenza sulle conseguenze concrete del loro agire sul complesso della società. Punto di riferimento restano, oggi come ieri, piccolissime minoranze al cui interno affermarsi come i più forti e i più tosti.
Tuttavia sarà bene ricordare che tra gli ultimi anni Settanta e la prima metà degli anni Ottanta quelle e quelli che volevano ancora organizzare lotte e movimento, organizzazione e cultura solidaristica restarono schiacciate/i tra due sostitutismi: quello degli apparati di partiti e sindacati; quello di quanti decisero di ingaggiare la loro lotta personale contro lo Stato, facendosi scudo delle manifestazioni e dei movimenti e contribuendo significativamente al loro riflusso. Personalmente resto convinta che il primo dei due sostitutismi abbia avuto responsabilità più gravi del secondo, se non altro per le dimensioni delle conseguenze.
Aggiungo infine che non dovremmo perdere la misura di quel che per noi è più e meno importante. Più importante è che si sia tutte d'accordo, come è assolutamente possibile, sulle cose da fare insieme a giugno come movimento delle donne e marcia mondiale; meno importante essere d'accordo su giudizi di natura storica e antropologica, di cui potremo tranquillamente discutere in un altro momento purché naturalmente si continuino a rispettare regole di funzionamento che hanno consentito la convivenza e la coesistenza pacifica di donne come più diverse non si potrebbe, ma abbastanza intelligenti da capire che la ricostruzione di un movimento crea prospettive e speranze per tutte.

Lidia Cirillo