Vecchio e nuovo secolo americano.
Due recenti libri offrono una serie d’interessanti elementi di riflessione sul ruolo degli Stati Uniti nel mondo. Si tratta del lavoro di Stefano Capello "Oltre il giardino. Guerra infinita ed egemonia americana sull’economia mondo capitalistica" (Milano, Zero in condotta, 2003) e di quello dello storico canadese Jacques R. Pauwels "Il mito della guerra buona. Gli Usa e la Seconda Guerra Mondiale" (Roma, Datanews, 2003). Recensioni di Diego Giachetti. Settembre 2003.


Due recenti libri offrono una serie d’interessanti elementi di riflessione sul ruolo degli Stati Uniti nel mondo. Si tratta del lavoro di Stefano Capello, Oltre il giardino. Guerra infinita ed egemonia americana sull’economia mondo capitalistica, (Milano, Zero in condotta, 2003) e di quello dello storico canadese Jacques R. Pauwels, Il mito della guerra buona. Gli Usa e la Seconda Guerra Mondiale, (Roma, Datanews, 2003). Dal punto di vista dell’analisi storica un tema di carattere generale li accomuna, quello della genesi e dell’affermazione del ruolo di potenza mondiale dominante degli Stati Uniti nel corso del Novecento. Entrambi i libri nel frettoloso e recente dibattito su "filoamericani" e "antiamericani" si collocano in quest’ultima categoria, o meglio, i sicofanti difensori delle virtù statunitensi li definirebbero tali solo perché hanno il coraggio di sollevare il velo che nasconde apparentemente la realtà e i fatti. Si tratta quindi di lavori che, per dirla con una parola post moderna e molto di moda oggi, decostruiscono l’apparenza propagandistica, a cominciare dal mito della "guerra buona", come fa lo storico canadese a proposito della partecipazione degli Stati Uniti alla Seconda Guerra Mondiale. La tesi sostenuta è che l’intervento degli Stati Uniti nell’ultima guerra mondiale non fu dettato dall’altruismo, dall’amore per la libertà violata, dal disprezzo verso le dittature fascista e nazista, per porre fine alle discriminazioni razziali e alla persecuzione degli ebrei nell’Europa sotto il dominio nazista, per contrastare l’autoritarismo militarista giapponese che dilagava nel Pacifico, ma da specifiche ragioni legate ad interessi economici e politici dell’élite dirigente americana.

Nell’analizzare le guerre americane gli autori non si soffermano tanto sugli eventi militari o sulla storia della diplomazia internazionale, quanto sulla situazione economico sociale e su come questa condiziona e influenza le scelte dell’establishment statunitense. Nei libri, quindi, sono messe in luce le connessioni tra i problemi economici e sociali interni agli Stati Uniti, la strategia militare e la diplomazia internazionale di Washington, per dimostrare che quello che la Casa Bianca fa o non fa tende a riflettere gl’interessi delle élite politiche, economiche, sociali e militari della nazione, componenti l’establishment, secondo l’accezione usata nell’ancora attuale indagine del sociologo Cecil Wright Mills, intitolata appunto L’elite del potere.

Gli Stati Uniti e la Prima guerra Mondiale

L’entrata degli Stati Uniti d’America nel Novecento ebbe all’epoca scarsa considerazione analitica e politica tra le file del movimento operaio d’inizio secolo scorso, molto attento allo sviluppo della situazione nei paesi europei e propenso a considerare la realtà americana un insieme di anomalie che rendevano difficile la comprensione della situazione interna, oltre che del ruolo internazionale. Abituati ad analizzare un capitalismo imperialistico, che tra il 1870 e il 1914 si era espanso colonizzando e occupando territori ricchi di materie prime, diedero inizialmente poco peso all’economia statunitense che andava costruendosi in modo diverso, su un territorio vasto, ricchissimo di materie prime e potenzialmente dotata di un ampio mercato interno.

Nella stessa Internazionale Comunista era riscontrabile l’eredità della Seconda Internazionale che portava a sottovalutare le aree extraeuropee e la ristrutturazione e ridefinizione sociale e statale del dominio capitalistico, che vedeva l’entrata in scena degli Stati Uniti, prefigurando un mondo e un’analisi ancora troppo legata all’Europa letta come "sistema di Versailles" da cui gli USA erano esclusi. Eppure i primi elementi del peso reale dell’amministrazione americana in Europa già c’erano nel primo dopoguerra, basti pensare al piano Dawes, al Piano Young, agli aiuti finanziari al regime fascista. Lo stesso intervento statunitense nella Prima Guerra Mondiale fu letto, salvo poche eccezioni, come un appoggio alle forze dell’Intesa in una guerra considerata scontro interimperialistico tra forze europee e non come spia di una nuova realtà imperialista mondiale. La guerra mondiale —scriveva Trotsky in un libro edito in Italia nel 1921- "non ha proposto una nuova potenza mondiale che si affianca all’Intesa, ma una potenza che sostituisce e subordina l’Intesa" (Il fallimento della Seconda Internazionale).

Le modalità di espansione mondiale del capitalismo americano, scrive Stefano Capello, sono diverse da quelle usate da altri stati capitalisti più vecchi e consistono principalmente nel penetrare all’interno dei mercati con proprie imprese, piuttosto che conquistare territori, anche in considerazione del fatto che il mondo da colonizzare è ormai ridotto ai minimi termini essendoselo già suddiviso gli stati imperialisti europei. Una strategia di penetrazione dei mercati che si ripete nel secondo dopoguerra, quando avviene il trasferimento di capitali inizialmente sotto forma di aiuti economici per la ricostruzione e poi di aiuti militari e trasferimento di capitali per favorire l’installazione di imprese americane in Europa e in Giappone.

Giunti sull’arena del capitalismo mondiale quando spazi di mercato, luoghi ricchi di materie prime, vie di transito delle merci, erano già occupati, controllati e suddivisi tra stati imperialisti più vecchi, gli Stati Uniti hanno dovuto appoggiare la loro strategia di penetrazione nel mercato mondiale con un’ideologia interventista in nome della "libertà nel mondo", armata di bandiere "democratiche", "pacifiste". Chiarissimo in merito quanto scriveva Leon Trotsky subito dopo la Prima Guerra mondiale: "essi sono intervenuti nell’arena mondiale quando l’intero globo terrestre era già conquistato, diviso, oppresso. Per questo l’avanzata imperialista degli Stati Uniti si effettua sotto le parole d’ordine: "Libertà dei mari", "Frontiere aperte". Perciò, quando l’America è costretta a compiere apertamente una canagliata militarista, agli occhi della sua popolazione e, in una certa misura, di tutta l’umanità, la responsabilità incombe unicamente sui cittadini ritardati del resto del mondo […] L’America libera sempre qualcuno: in qualche modo, è la sua professione […] La storia favorisce il capitale americano. Per ogni brigantaggio gli fornisce una parola d’ordine di emancipazione. In Europa, gli Stati Uniti chiedono l’applicazione della politica delle "porte aperte" […]. Che dice l’America a proposito degli Oceani? "Libertà dei mari!". E’ una parola d’ordine che suona bene. Cosa significa in realtà? "Flotta inglese scansati un poco, lasciami passare". (Europa e America, Milano, 1980).

Gli Stati Uniti, a cominciare dalla Prima Guerra Mondiale, si presentarono al mondo come un paese che interveniva per estendere la democrazia e la libertà nel mondo, nonostante l’intervento apparisse tardivo, quando ormai la guerra era in corso da tre anni durante i quali avevano capitalizzato e valorizzato il bisogno di denaro, materie prime e armi dei belligeranti europei. Solo quando, col cedimento dello stato zarista russo a cavallo tra il 1916-17 si paventava la possibilità di una vittoria della Germania e dell’Austria-Ungheria gli Stati Uniti scesero in campo per difendere i loro interessi in Europa. E anche nella Seconda Guerra Mondiale, presentata come una lotta irriducibile tra democrazia e totalitarismo, l’intervento degli Stati Uniti fu tardivo, furono trascinati nel conflitto perché aggrediti dall’imperialismo giapponese, quando la guerra era già in corso da più di due anni. L’intervento degli Stati Uniti in un conflitto tra potenze imperialiste, quelle che difendevano posizioni acquisite e quelle che volevano assicuransi vantaggi da una nuova spartizione dei mercati mondiale, delle colonie e delle risorse, aveva motivazioni analoghe. Solo a guerra scatenata si scoprì la brutalità del fascismo e del nazismo attribuendo alla guerra un contenuto politico e ideologico teso a favorire l’instaurazione di sistemi politici e ideologici simili a quelli delle potenze vincitrici.

Stati Uniti e fascismi

L’establishment imprenditoriale americano e quello politico guardarono con interesse e simpatia all’avvento dei fascismi in Italia e in Germania, in quanto erano più anticomuniste che antifasciste. Politicamente quei regimi erano una riposta politica forte e positiva alla minaccia bolscevica, riportavano l’ordine padronale e imprenditoriale, erano un esempio, che agli imprenditori americani piaceva, di come si distruggevano gli intralci che i sindacati ponevano al libero sfruttamento e asservimento della manodopera. Molte imprese americane fecero buoni affari con questi regimi. Senza i veicoli a motore americani —afferma Jacques R. Pauwels - il caucciù, il petrolio, la tecnologia delle telecomunicazioni e della gestione delle informazioni fornita dall’ITT e dall’IBM, la Germania hitleriana non avrebbe potuto nemmeno sognarsi i clamorosi e rapidi successi militari dei primi anni della guerra lampo tedesca. Ci fu un momento, scrive, nel quale General Motors e Ford fabbricavano non meno della metà della produzione totale di carri armati tedeschi. E quando la Germania fu sconfitta le corporation americane non ebbero alcun disturbo per i servizi resi al nemico. La General Motors e le altre corporation che avevano fatto affari coi nazisti non furono punite, anzi furono risarcite per i danni subiti dalle loro affiliate tedesche a causa della incursioni aeree angloamericane.

Neanche l’ostentato e proclamato odio razziale dei nazisti offendeva la sensibilità americana negli anni Trenta. Negli anni Venti e Trenta esso era diffuso non solamente in Germania ma in molti altri paesi, inclusi gli Stati Uniti. Il più conosciuto antisemita americano fu l’industriale Henry Ford che ammirava Hitler e lo appoggiò economicamente e il cui libro antisemita, Internazionale ebraica, ispirò il futuro fuhrer. Un’ammirazione ricambiata, infatti, Hitler teneva un suo ritratto nello studio e nel 1938 gli conferì la più alta decorazione che la Germania potesse assegnare a uno straniero.

Lo scoppio della guerra in Europa aprì agli stati Uniti opportunità interessanti per l’industria impantanata da quasi un decennio in una profonda crisi economica. Gli aiuti americani all’Inghilterra furono subordinati alla firma di un contratto che faceva promettere agli inglesi lo smantellamento, al termine della guerra, del sistema protezionista di tariffe che non proibiva ma limitava seriamente le esportazioni americane verso la Gran Bretagna e le sue colonie.

La Seconda Guerra Mondiale

Lo scenario più vantaggioso per l’establishment americano era che la guerra fra Inghilterra e Germania non si concludesse subito ma durasse a lungo in modo da poter continuare ad inviare rifornimenti al socio britannico. Temevano invece l’affermarsi di un’Europa sotto il dominio tedesco che avrebbe chiuso il mercato continentale alle merci e agli affari americani, si trattava quindi di una preoccupazione economica non certo inerente al tipo di regime politico che i nazisti stavano estendo in Europa.

Quando il 22 giugno 1941 scattò l’operazione Barbarossa, cioè l’attacco tedesco all’Unione Sovietica, l’élite americana si augurò che la guerra sul fronte orientale durasse a lungo così da logorare entrambi i contendenti. Grazie alla guerra dilagante in Europa agli Stati Uniti era data la possibilità di uscire dalla grande depressione che durava ormai da dieci anni poiché i mercati della Gran Bretagna e dell’URSS si aprivano ai prodotti industriali americani. L’incubo degli "sporchi anni trenta" e della crisi della domanda terminò grazie al conflitto. Scrive a proposito l’autore americano Studt Terkel: "la guerra fu l’alchimista che trasformò i tempi cattivi in tempi buoni"; la produzione salì all’aumentare della domanda bellica, salirono i profitti, crollò la disoccupazione. Di qui l’interesse che la guerra durasse a lungo senza vittorie lampo, come diceva una nota diffusa dal senatore Harry S. Truman il 24 giugno 1941: "se vedremo che la Germania sta vincendo aiuteremo la Russia e quando starà vincendo la Russia aiuteremo la Germania in modo che si logorino il più possibile".

I piani americani consistenti nel trarre il massimo profitto economico e politico dalla guerra in corso, senza parteciparvi, subirono una modifica a causa dell’attacco giapponese a Pearl Harbour, nel dicembre del 1941. A proposito dell’entrata in guerra degli Stati Uniti va ribadita, con lo storico americano Howard Zinn, una verità che può sembrare banale e nota (ma ciò che è noto non necessariamente è conosciuto): "non furono le persecuzioni di Hitler agli ebrei quello che portò gli Stati Uniti nella Seconda Guerra Mondiale. Quello che li fece partecipare pienamente al conflitto fu l’attacco giapponese di Pearl Harbour, un’enclave dell’Impero americano nel Pacifico".

Per uno scherzo non previsto della storia gli americani si trovarono così a combattere il nazifascismo a fianco di quelli che consideravano il loro nemico più pericoloso: il comunismo sovietico. Se sulla stampa caddero i toni anticomunisti, tipici degli anni precedenti, ma l’élite americana non poteva non essere preoccupata per la presenza di questo strano alleato, ideologicamente ed economicamente avverso al sistema americano. La strategia americana adottata in accordo con gl’inglesi, consistette nel lasciare che le armate tedesche e sovietiche si consumassero nelle grandi battaglie sul fronte Orientale. A differenza di Roosevelt disposto ad aprire al più presto un secondo fronte in Europa per alleggerire il peso della guerra che ricadeva tutto sull’Armata Rossa, Churchil si opponeva. In merito, diversi analisti hanno sostenuto che già nell’estate del 1942 militarmente era possibile tentare di aprire un secondo fronte sulle coste francesi o da qualche altra parte delle coste occidentali. A favore di quest’ipotesi è stato ricordato che in quell’anno i tedeschi disponevano ad occidente di sole 59 divisioni contro le 260 schierate sul fronte russo, che non erano ancora trincerati bene come lo saranno nel 1944, poiché l’ordine di costruire il Vallo Atlantico fu dato da Hitler nell’agosto del 1942 e la costruzione iniziò nell’autunno e terminò nella primavera del 1944.

Invece dello sbarco ad occidente gli angloamericani aprirono il terzo fronte, ciò l’inizio di una serie massiccia di bombardamenti sulle città e sulle industrie tedesche. Tali bombardamenti non riuscirono però ad evitare l’incremento della produzione bellica tedesca, che raggiunse il suo apice nel 1944, per poi crollare vertiginosamente negli ultimi mesi di guerra. Essi provocarono tra la popolazione civile 300.000 morti, non produssero l’aspettato crollo psicologico tra la popolazione tedesca, anzi, incrementarono l’odio verso gli alleati. I bombardamenti erano anche un segnale politico e un monito che gli angloamericani mandavano ai sovietici, soprattutto quando l’avanzata verso Berlino si fece inarrestabile. In tal senso e in quel contesto, nel libro sulla "guerra buona" si legge il bombardamento massiccio e distruttivo subito dalla città di Dresda il 4 febbraio 1945, rasa al suolo da 750.000 bombe incendiarie. Lo storico americano Michael S. Sherri sostiene che Dresda era militarmente ed economicamente un bersaglio insignificante per giustificare un bombardamento del genere. Inoltre la Germania era ormai sull’orlo del collasso finale, quindi esso aveva la funzione di far capire ai sovietici la potenza distruttiva dell’armata aerea angloamericana.

Le cose cambiarono dopo la battaglia di Stalingrado, la riconquista dei territori russi e l’affacciarsi dell’Armata Rossa ai confini dei paesi dell’Europa Orientale non rendevano particolarmente felici gli angloamericani poiché consideravano perlomeno incresciosa la prospettiva di dove spartire coi sovietici il ruolo di guardiani dell’Europa nel dopoguerra. Quando fu chiaro che buona parte dei paesi orientali del vecchio continente sarebbero stati invasi dai sovietici, gli angloamericani si convinsero della necessità di aprire il secondo fronte per arrivare il più presto possibile, e possibilmente prima dei "rossi", nel cuore della Germania, visto anche il fallimento della cosiddetta via mediterranea al Terzo Reich intrapresa con lo sbarco in Sicilia del giugno 1943, che arrancava con fatica nel risalire la penisola italiana.

Preoccupati del fatto che metà Europa cadesse sotto l’influenza comunista gli alleati occidentali accarezzarono la seducente opportunità di un armistizio separato con la Germania, previa la destituzione di Hitler, come già era avvenuto per l’Italia quando, dopo il 25 luglio del 1943, Mussolini fu destituito e arrestato, si formò un nuovo governo presieduto dal maresciallo Badoglio il quale aprì trattative di resa che portarono all’armistizio e, in seguito all’invasione tedesca, alla cobelligeranza italiana a fianco degli alleati. Le speranze di una sostituzione del governo nazista con una giunta militare con la quale fosse possibile raggiungere un accordo in funzione antisovietica, mantenendo così alla Germania le conquiste fatte da Hitler in Europa orientale, decaddero dopo che molti leader dell’opposizione tedesca furono liquidati dai nazisti in seguito al fallito attentato a Hitler del 20 luglio 1944. Molti sono gl’indizi che fanno ritenere che tale prospettiva serpeggiasse, valga d’esempio, il dialogo telefonico tra il generale Patton e il generale Joseph T. McNarney, riportato nel libro. Dice Patton: "Dovremo combattere contro i sovietici presto o tardi. Potremo farlo facilmente con l’aiuto delle truppe tedesche. Loro odiano quei bastardi. Potremo creare un po’ d’incidenti e portarci in guerra con quei figli di puttana". Tale progetto fallì non solo a causa del mancato ricambio governativo in Germania, ma anche perché l’opinione pubblica negli Stati Uniti e nei paesi dell’Europa liberati non avrebbe tollerato una crociata antisovietica condotta assieme ai tedeschi.

Negli anni ’20 e ’30 le elite politiche americane erano state anticomuniste. Dopo Pearl Harbour i fasciti erano diventati i nemici dell’America, mentre le stranezze della guerra avevano trasformato l’URSS in un alleato; così, momentaneamente, le luci dell’anticomunismo furono schermate. Per l’élite USA la guerra contro la Germania nazista fu un’anomalia, un non desiderato interludio che disturbò e ritardò i piani anticomunisti. Nel 1945 con la disfatta del fascismo si ristabilirono le condizioni per una ripresa dell’anticomunismo, l’unica ideologia che poteva competere con quella americana della democrazia, della libertà individuale, della proprietà privata, del libero commercio. In questo contesto i nazisti furono presentati come dei sadici, una banda di gangster, criminali e avventurieri assetati di potere; la loro ascesa al potere era stata una tragica e misteriosa fatalità della storia. Furono tralasciati studi ricerche, riflessioni sulla dinamica sociale ed economica che aveva favorito l’avvento dei fascismi in Europa, un silenzio storico-politico calò sugli intrecci tra fascismo, bancari, borghesia industriale e terriera, vertici dell’esercito, un velo nascose quella condizione evidente per cui, come aveva detto Max Horkheimer, quelli che vogliono parlare di fascismo non possono tacere del capitalismo.

Gli anni della guerra fredda e la sua fine

Gli Stati Uniti emergevano dal conflitto mondiale da unici e veri vincitori. Erano la più grande potenza del mondo e si aspettavano che il XX secolo diventasse il "secolo americano". I suoi nemici, Germania e Giappone, erano annientati, i suoi alleati economicamente abbattuti. La Francia era solo l’ombra dell’antica potenza, la Gran Bretagna era esausta, L’URSS aveva subito pesantissime perdite. Dai paesi liberati l’America si aspettava cooperazione rispetto al libero commercio e porte aperte agli investimenti dei suoi capitali. Erano determinati a inondare il mondo non solo dei prodotti made in USA, ma simultaneamente della loro visione del mondo che includeva libertà individuale, democrazia liberale, libera impresa e libero commercio. Così avevano fatto in ogni paese liberato, imponendo il sistema socio-politico ed economico dello Stato liberatore, avevano mostrato che erano i liberatori a decidere come punire o perdonare i fascisti, in quali forme la democrazia veniva ripristinata, quale spazio dovevano avere i movimenti della resistenza antifascista, quali riforme politiche, sociali ed economiche era possibile introdurre. Tale condotta aveva dato a Stalin un’implicita carta bianca per procedere in modo analogo nei paesi liberati dall’Armata Rossa.

Col monopolio dell’atomica gli Stati Uniti pensavano di dettare le condizioni all’URSS. In questo quadro interpretativo le due esplosioni nucleari sulle due città giapponesi vollero essere, come nel caso di Dresda, un segnale per il Cremlino. L’arma atomica, scrive lo storico americano Sean Dennis Cashman, "si usò per motivi politici". Così la Guerra Fredda cominciò quando la dirigenza americana credette che, con l’aiuto della bomba atomica, fosse in grado d’imporre la sua volontà ai sovietici posizionati in Europa Orientale e in Germania. Una minaccia che sortì l’effetto opposto a quello sperato, lungi dal ritirarsi lo stato maggiore sovietico comprese quasi subito che la miglior difesa contro il pericolo di un attacco nucleare era quella di dispiegare l’Armata Rossa più vicina possibile alle linee americane nei paesi dell’Europa, così da rendere inutilizzabile l’arma atomica. E non solo, sotto la pressione americana Stalin, che nel 1944-45 non aveva dato avvio ad alcun cambiamento sociale e politico nei paesi invasi dall’Armata Rossa, iniziò a costruire regimi comunisti e/o filosovietici nei paesi orientali.

Complessivamente però un URSS ostile si rivelava più utile agli americani di una alleata in quanto consentiva loro di screditare e bollare come traditori non solo i pochi comunisti americani, ma anche i più numerosi progressisti radicali della sinistra democratica, e di mantenere e aumentare le spese militari che sostenevano l’economia. Era l’inizio di quel meccanismo di sviluppo definito keynesismo militare e/o sistema Pentagono che comportò un aumento esponenziale del debito pubblico salito dai 258 miliardi di dollari del 1945 ai 3.200 miliardi del 1990. La Guerra Fredda, inoltre, costrinse l’URSS ad investire grandi risorse in armamenti e questa fu, secondo Jacques R. Pauwels, "un’esperienza fatale", perché la corsa agli armamenti, assieme all’inefficienza del sistema burocratico di gestione della società e dello Stato, furono le cause strutturali che determinarono il crollo del sistema sovietico nel biennio 1989-‘91.

Con la fine della Guerra Fredda l’élite americana era rimasta orfana del suo perfetto nemico, ne servivano di nuovi perché la smilitarizzazione dell’economia americana non avrebbe solo ostruito la fonte degli utili per le imprese, avrebbe messo il paese di fronte ad un’insufficiente domanda economica.

Dalla Guerra Fredda a quella permanente

L’implosione dei sistemi a socialismo reale e la conseguente fine del bipolarismo sembrava aprire una nuova fase di competizione intercapitalistica fra aree geografiche (asiatica, europea, americana) quasi che il "gioco" del risiko novecentesco riprendesse dall’inizio, quando il conflitto interimperialista tra stati era presente, forte, vivace e capace di scatenare ben due guerre mondiali. Oggi però, nota Stefano Capello, a 13 anni dalla caduta del muro di Berlino questo non è avvenuto, in quanto nel mercato mondiale quello americano ha un peso preponderante. Non esiste in questo momento alcun stato o gruppi di stati che possano credibilmente contrastare il dominio degli Stati Uniti sull’economia mondo. Si tratta però di un primato che va difeso ed espanso in quanto la fine del sistema sovietico, se ha permesso agli Stati Uniti di dominare il mondo senza trovare per ora opposizioni significative, pone un problema: il venir meno del nemico comune incrina e rompe la solidarietà tra gli alleati del tempo della guerra fredda attorno agli Stati Uniti e apre la possibilità alla formazione di potenze regionali. La fine del mondo bipolare permetteva teoricamente alla nascente Europa e al Giappone (nonché in potenza alla Cina) di svilupparsi come potenze autonome, commercialmente ed economicamente in competizione con il centro statunitense. Così per gli Stati Uniti diventava centrale l’occupazione dell’intera antica via di comunicazione eurasiatica posta tra i Balcani e la Cina in quanto in quell’area aerea è presente la maggior quota delle risorse energetiche funzionali all’Occidente per consentire lo sviluppo della sua economia. Naturalmente, oltre alle risorse ci sono anche gli oleodotti e i gasdotti che ne permettono i trasporti. Questa è la ragione per cui i Balcani, area europea non certo ricca di materie prime, hanno un’importanza centrale nella geopolitica mondiale: essi sono la porta che consente ai paesi europei l’accesso alle risorse del Medio Oriente, e, inoltre, oggi sono parte di quei corridoi energetici che permetterebbero agli angloamericani di bypassare l’ingombrante presenza russa nel trasporto di gas e petrolio.

Ecco allora, efficacemente riassunte nel libro di Stefano Capello, le ragioni delle guerre del Nuovo Ordine Mondiale e l’operazione Enduring Freedom. Con queste guerre gli USA intendono centrare quattro obiettivi: arrivare al controllo diretto delle principali risorse mondiali e delle vie commerciali, tramite la presenza militare e la costituzione di governi locali che dipendano direttamente da loro; impedire ai potenziali competitori un accesso autonomo alle risorse principali per lo sviluppo economico, come quelle energetiche e, infine, mantenere un ruolo di leadership assoluta nei confronti dei paesi europei e del Giappone, in modo da mantenerli in posizione subordinata all’interno dell’ordine internazionale ad egemonia e guida statunitense.

La recentissima guerra contro l’Iraq rappresenta non tanto il fallimento di chi vi si è opposto, ma di chi la giustifica dopo aver promesso un mondo globale di pace, giustizia liberale e liberista, di democrazia trionfante sui totalitarismi del Novecento. Si era detto e fatto credere che la fine del bipolarismo e la permanenza di un’unica superpotenza avrebbero favorito la distensione internazionale. In realtà è accaduto il contrario: la presenza di un’unica superpotenza non ha favorito la pace e la distensione, ha fomentato il conflitto. Dopo la Guerra fredda, in Occidente s’era diffusa l’aspettativa che gli Stati Uniti avrebbero usato la loro potenza per stabilire un nuovo ordine multilaterale; invece, già nel corso degli anni Novanta, era chiaro che si apriva un periodo d’instabilità nuovo e più pericoloso del precedente. Per capire quanto sta accadendo si è voluto fare un paragone con l’età napoleonica: come allora, anche oggi le potenze minori possono ritenere che sia pagante una posizione di sudditanza e di condiscendenza, nel breve periodo, verso gli Stati Uniti, ma avvertono "che è disastrosa come strategia di lungo periodo poiché è semplicemente un invito a una maggiore aggressività. In questo consiste in definitiva la contrapposizione sull’Iraq nel Consiglio di sicurezza dell’ONU" (Walden Bello, "Erre", n. 2, marzo-aprile 2003).

Il dominio degli Stati Uniti nel sistema mondo economico e geopolitico è in via di espansione e di crescita dopo la fine del sistema bipolare e questo determina uno scenario nuovo perché nel momento in cui gli americani mettono il mondo alle loro dipendenze, cadono anch’essi sotto la dipendenza del mondo intero, con tutte le sue contraddizioni e gli sconvolgimenti in vista.