Né con Bush né con Saddam?
Una polemica pretestuosa sollevata dalla stampa di destra contro una dichiarazione di Epifani, porta in realtà allo scoperto un nodo politico irrisolto del movimento pacifista. REDS. Aprile 2003.


I fatti

Negli ultimi giorni di marzo una dichiarazione di Epifani, segretario generale della Cgil, era stata tradotta con la praola d'ordine "né con Bush né con Saddam". I media ne hanno imbastito un caso per mettere in difficoltà i pacifisti e sul Corriere della Sera del 27 marzo Epifani pubblicava una lettera pasticciona e confusa in chiave difensiva in cui dichiarava di non voler "essere schiacciato o coinvolto nella logica della contrapposizione e di schieramento che ogni guerra propone secondo il binomio 'o si sta da una parte o si sta dall'altra'". Il gruppo dirigente dalemiano naturalmente ne ha approfittato, dalle colonne del suo quotidiano Il Riformista, dichiarandosi "inorridito" di fronte a chi osa paragonare la "grande democrazia" Usa con il "sanguinario" dittatore di Baghdad.

In questa incipiente campagna di stampa però qualcosa si è inceppato. In un sondaggio curato da Renato Mannheimer sul Corriere della Sera del 29 marzo, risultava che con l'affermazione "Né con Bush né con Saddam" concorda la maggioranza degli italiani: il 45%, mentre condivide l'affermazione (poco o niente) il 41%. Il 30 marzo durante l'assemblea di Aprile, associazione della sinistra Ds, Giovanni Berlinguer compiva un ulteriore passo dichiarando che "è sbagliato auspicare una rapida vittoria delle truppe americane: il popolo iracheno passerebbe da un'oppressione all'altra". Mentre i dalemiani si assestano sulla linea del "ragioniamo sul dopoguerra", il che vuol dire dare per scontato una rapida vittoria statunitense, la sinistra DS, il Prc, Agnoletto, i disobbedienti si attestavano sulla linea di chiedere una tregua immediata in modo da evitare vittime tra i civili. Cofferati, infine, dichiarava che è "cinico" sperare in una rapida vittoria degli Usa.

Il significato della polemica

Prima che la guerra scoppiasse il movimento pacifista ha avuto gioco facile nelle sue argomentazioni: "non stiamo con Saddam, ma questa non è una buona ragione per bombardare il suo popolo". Sulla base di questo semplice concetto si è raccolto un vastissimo spettro di soggetti contrari alla guerra. La posizione non ha richiesto grandi dibattitti: all'interno vi si sono ritrovati il pacifista strategico, l'islamico, il borghese illuminato, l'europeista, il comunista, ecc. Il dibattito ha riguardato in sostanza l'atteggiamento che l'Italia doveva tenere nel conflitto, un dibattito che, come si sa, ha visto prevalere la posizione più radicale (contraria alla concessione di basi e spazio aereo), sotto la spinta del movimento di massa. Persino il governo ha dovuto fare, formalmente, marcia indietro assicurando, mentendo, che dal territorio italiano non sarebbero partite operazioni belliche.

Una volta scoppiata la guerra, però, molti di coloro che consideravano "illegittimo" l'intervento armato, hanno sostenuto una posizione del tipo: "ora la guerra c'è, è meglio che gli Usa la vincano alla svelta". E' la linea dei grandi media ad esclusione di Manifesto, Liberazione e Unità. Questa è la ragione per cui anche quotidiani critici o tiepidamente critici verso il conflitto (Corriere della Sera e Repubblica) pubblicano costantemente in prima pagina le foto di marines caritatevoli che danno da bere agli iracheni, che soccorrono bambini, e via lacrimando, la stessa ragione spiega perché gli stessi media cadano volentieri in bufale clamorose sparate in prima pagina, come quella sulla presunta rivolta popolare a Bassora.

Dietro questa posizione c'è l'idea che l'Occidente sia una famiglia, e che, finita la guerra, dovrà pur riconciliarsi. Chi non si augura la vittoria degli Usa, tiferebbe contro questa famiglia. Per quanto ci possano essere divergenze tra gli interessi "nazionali" dell'Italia e quelli Usa (o francesi, o tedeschi, o inglesi...) i "nostri" interessi, secondo questa visione, non potranno mai coincidere con quelli di un Paese del Terzo Mondo. Il concetto è sempre espresso in maniera cifrata: quando questi signori parlano di "grandi democrazie" intendono "Paesi ricchi e potenti" coi quali è bene intendersi se si vuole continuare a dominare economicamente il resto del mondo.

Né con Bush né con Saddam?

La guerra non sarà breve, questo ormai appare chiaro. Persino i media statunitensi ammettono l'impasse, e il pantano. La sorpresa è stata grande, ma nessuno più si aspetta che gli iracheni accolgano a braccia aperte gli invasori. Sono ostili, come da sempre lo sono i popoli invasi, anche se a reggerli sono terribili dittature. Persino i russi, a suo tempo, hanno resistito eroicamente sotto l'incalzare delle truppe tedesche nonostante un regime, quello staliniano, che aveva provocato milioni di morti dimostrandosi per di più totalmente incompetente anche ad organizzare la resistenza all'aggressione. Come ci affanniamo a dire da anni, il sentimento nazionale, è sempre stato il più forte motivo di mobilitazione delle masse.

Quel che sta accadendo in Iraq è molto semplice: c'è un popolo che sta resistendo con le armi. E ciò, diciamolo, costituisce un problema per molti. Cominciamo dai pacifisti "strategici", secondo i quali la guerra è un male "comunque", "in sé": dunque è sbagliata anche la guerra difensiva condotta dagli iracheni? Dovrebbero lasciarsi invadere, bombardare, assogettare da un governo straniero? Speriamo che nessuno lo affermi. Sarebbe una vergognosa posizione di gente "accomodata", che dà facili consigli perché nessun aggressore incombe sul proprio capo. Molti italiani si sono sollevati a suo tempo contro l'invasione tedesca (ed anche per altre ragioni, civili e di classe, come ci ha ricordato Pavone) facendo una guerra. Come del resto è accaduto nel secolo precedente con le guerre di Indipendenza. Non possiamo teorizzare che se noi italiani fossimo invasi non dovremmo reagire. Nessun popolo nei millenni ha accettato di essere sottomesso senza ribellarsi. Perché proprio gli iracheni dovrebbero farlo? Dunque va detto chiaramente una cosa: gli iracheni stanno conducendo una guerra difensiva, e fanno bene. Si tratta di una guerra giusta.

Conosciamo l'obiezione: resistendo si provocano così più morti. Pensiamo anche noi che in ogni resistenza si deve sempre commisurare sacrifici e risultati. Però: pensiamo forse che la resistenza agli invasori possa avvenire senza mettere in pericolo le proprie vite? Non sta a noi decidere qual è il prezzo che gli iracheni vogliono pagare per non essere occupati dagli stranieri, noi abbiamo l'unico ed esclusivo compito di fermare quegli stranieri ed aiutare la resistenza, perché solo così la guerra sarà allo stesso tempo breve, e il popolo iracheno non sarà sottoposto a una dominazione straniera.

Per questo la parola d'ordine (con le sue varianti) "né con Bush né con Saddam", ci pare un passo in avanti rispetto al livello di coscienza cui i media vorrebbero spingere la maggioranza pacifista. Ma insufficiente. E' utile dire cosa pensiamo del diritto degli iracheni a difendersi.

Del resto, l'affannarsi intorno alla parola d'ordine della "tregua", a noi pare, francamente, un escamotage per non affrontare di petto il problema, che è per l'appunto, quello della resistenza. Affermare che la tregua farebbe risparmiare vite umane ci lascia perplessi. Una tregua non farebbe altro che prolungare le sofferenze dei civili, già stremati da anni di embargo, figuriamoci cosa accadrebbe con metà territorio in mani Usa e senza la possibilità per il governo iracheno di disporre di risorse per soccorrere la popolazione. Non si sfugge: da questa guerra, come da qualunque guerra, si uscirà con un vincitore e un vinto, e il movimento contro la guerra deve dire chi vuole che vinca. Noi lo diciamo: gli Usa devono perdere, rapidamente, perché solo questa è la condizione minima perché tra qualche anno gli Usa non intraprendano nuove guerre. C'è stato un bel periodo in cui gli Usa si sono astenuti dall'invadere e fare guerre nel mondo: quello immediatamente successivo al 1975. E non a caso: gli Usa avevano perso la guerra in Vietnam, la cosiddetta "sindrome del Vietnam" ha paralizzato la capacità bellica Usa per anni. E' stata quella sconfitta militare a salvare nel mondo innumerevoli vite umane, risparmiate dall'inazione statunitense.

Si dirà: ma perché incaponirsi su questa questione che rischia di dividerci? Non vogliamo dividere nessuno: pensiamo che tutti insieme si debba continuare a protestare contro l'intervento e a bloccare la partecipazione italiana. Ma introdurre ora questo dibattito ci pare utile. E' bene che la nuova generazione che si sta affacciando all'impegno politico cominci a distinguere gli oppressi dagli oppressori, gli aggressori dagli aggrediti, altrimenti si finirà con la vergogna di porre sullo stesso piano i palestinesi e gli israeliani, gli spagnoli ed i baschi, con conseguenze pratiche disastrose, perché il senso di isolamento di una lotta è ciò che incoraggia al suo interno le spinte più disperate ed autolesioniste. Per solidarizzare con una resistanza non si deve essere d'accordo necessariamente con la sua direzione politica e nemmeno tacerne gli eventuali crimini. Di Saddam si deve dire apertamente che si tratta di un dittatore della peggiore specie (aggiungendo comunque che non ci paiono meglio il monarca assoluto dell'Arabia Saudita o il burattino Karzai). Ma è il popolo iracheno che è invaso, e non Saddam.

Il movimento pacifista deve intraprendere un lavoro di sensibilizzazione che accompagni lo spostamento a sinistra della cosiddetta opinione pubblica. Nel sondaggio su citato, il 69% (il 60% di quelli di sinistra ) dichiarava che "ora che la guerra è iniziata" spera che vincano gli Usa (contro il 7% che si augura che perdano, mentre il 24% non sa o non risponde). Gran parte di quel 69% sappiamo bene che non condivide affatto la politica Usa (i contrari alla guerra continuano ad essere sopra il 70%, come risulta dallo stesso sondaggio) e dunque identifica la vittoria Usa come il mezzo più rapido per porre fine alla tragedia. Ma in questa posizione c'è molto egoismo, molta voglia di "cambiar canale": è come se uno che non sopporta di assistere ad un pestaggio si augurasse che l'aggressore sparasse subito all'aggredito, così da evitargli tutte quelle botte. E' come se ai tempi dell'invasione tedesca dell'Italia qualcuno si fosse augurato che i nazisti la facessero finita rapidamente con le bande partigiane, così da guadagnare subito la pace. Ma è una pace che non ha mai interessato alcun popolo a questo mondo. Le sazie masse occidentali stanno facendo, nonostante i loro privilegi, salti di coscienza di non poco conto negli ultimi tempi. La strada però per un completo allineamento con i sentimenti e gli interessi del Sud povero e sfruttato, aggredito e umiliato, è ancora lunga.