La guerra in Iraq vista
da alcune cancellerie asiatiche.
Di
Ahmed Rashid 3 aprile 2003 da Far Eastern Economic Review. Traduzione di Stefano
Valenti. 3 aprile 2003.
Mentre i contestatori della guerra scendevano nelle piazze delle città di tutta l’Asia, il Primo Ministro malese Mahatir Mohamad si è dimostrato il più forte contestatore, nella regione, dell’invasione in Iraq, accusando gli Stati Uniti di essere dei "bulletti vigliacchi e imperialisti".
"Le Nazioni unite e le leggi internazionali hanno perso valore. Siamo tornati ai tempi della pietra per quanto riguarda la determinazione della giustizia", ha affermato Mahatir in parlamento il 24 marzo. Altri leaders di Paesi asiatici, preoccupati, sono stati più diplomatici.
Mentre Giappone, Sud Corea e Australia hanno dichiarato il loro appoggio agli Stati Uniti, in Inghilterrra è scoppiata una considerevole contestazione in opposizione alle scelte del governo.
La speranza di una sollevazione della popolazione dell’Iraq contro Saddam Hussein, auspicata dagli Stati Uniti, non si è verificata, così come quella di una rapida vittoria. Nonostante l’inevitabile vittoria americana, i costi potrebbero destabilizzare la regione asiatica.
Osservatori affermano che una guerra più lunga del previsto potrebbe causare sommovimenti politici e rivolgimenti in alcuni governi, l’aumento delle proteste contro gli Stati Uniti che potrebbero anche diventare violente.
Sul versante economico, gli analisti temono che una campagna militare estesa possa minare le economie della regione e portare il costo del petrolio a livelli dannosi per l’economia. L’iniziale ottimismo, che spingeva alla crescita delle riserve di valuta in dollari, è scomparso dopo una settimana appena, quando l’avanzata verso Baghdad ha incontrato una forte resistenza. I costi del petrolio rimangono costanti e il valore del dollaro cala, mentre il valore dei safe-haven bond aumenta. Vi sono segnali in Asia che il costo della guerra danneggerà le fragili economie della regione e farà peggiorare la recessione negli Stati Uniti. Il presidente George Bush ha chiesto 75 miliardi di dollari al Congresso come anticipo sui costi della guerra.
I pericoli per una guerra che si possa protrarre sono particolarmente alti per i Paesi musulmani del Sud dell’Asia, come il Pakistan, nel quale il governo tentenna nel criticare gli Stati Uniti, nonostante la spinta delle masse a favore dell’Iraq. Molti sono convinti che la stagnazione della guerra potrebbe portare opposizioni interne ad un governo già poco popolare. Imra Khan, leader dell’opposizione e star del cricket, si preoccupa che la guerra "porterà a nuovi successi nel reclutamento di Al Qaeda". Questa è una paura condivisa nell’Asia centrale mussulmana, nella quale gli Stati Uniti possiedono basi militari: Uzbekistan, Kirghizistan e Tagikistan. La guerra "potrebbe portare a una destabilizzazione della situazione non solo nella regione Medio-orientale, ma potrebbe avere anche gravi conseguenze in Centro-Asia" avverte Askar Aitmatov, Ministro degli Esteri kirgizo il 20 marzo. "Ci sono forti opposizioni alla guerra in Afghanistan e noi speriamo che la guerra in Iraq non comporti un aumento del terrorismo". L’Uzbekistan e l’Afghanistan hanno infatti entrambi dato il proprio appoggio all’azione americana.
Lo stesso giorno nel quale Aitmatov si pronunciava e aveva inizio la guerra in Iraq, le forze dell’alleanza lanciavano la più grande operazione del dopoguerra contro Al Qaeda e i talebani in Afghanistan. Circa mille soldati, uniti alle forze afghane, appoggiate dagli elicotteri, prendevano parte all’operazione Valiant Strike nelle montagne e nelle valli dell’est della città di Kandahar. Gli Stati Uniti hanno dichiarato la casualità della coincidenza, ma l’attacco avveniva dopo che talebani e Al Qaeda avevano dichiarato possibili dimostrazioni di forza nel caso di un attacco in Iraq.
"C’è grossa attenzione da parte delle truppe verso attività di potenziali nemici che potrebbero scatenarsi all’inizio della guerra in Iraq", ha detto un portavoce militare americano in Afghanistan il 20 marzo. Il giorno dopo il lancio dell’operazione Valiant Strike tre basi americane nell’est dell’Afghanistan venivano attaccate da 13 missili in un giorno solo; un record!
Nel sudest asiatico, il più popoloso Paese musulmano, l’Indonesia, ha duramente criticato l’attacco come violazione della legalità internazionale. Ma Giakarta, che ha bisogno degli aiuti americani per rinvigorire la propria economia prostrata, non si è sbilanciata come la Malesia. Detto questo, bisogna sottolineare che vi sono state numerose manifestazioni anche in Indonesia, come in tutte le altre nazioni musulmane in Asia, e che il governo si trova nel bisogno di mantenersi in bilico tra convenieneza esterna e interna. Questa evenienza aiuta a spiegare come mai Paesi come Indonesia, Malesia e Pakistan abbiano rfiutato di espellere i diplomatici iracheni come richiesto dagli USA, mentre, Tailandia e Filippine invece, che hanno minoranze musulmane attive sul proprio territorio, abbiano invece accettato. Anche in Paesi nei quali gli Stati Uniti trovano appoggio, vi è una rabbia crescente nei loro confronti, per quella che viene considerata come un’usurpazione e un mancato rispetto per le richieste locali. Questo sentimento è particolarmente forte in Sud Corea, dove il muso duro degli americani verso la Corea del Nord, è visto come un ostacolo verso la pace e la sicurezza della zona. Le proteste sono molto cresciute quando il presidente Roh Moo Hyun ha annunciato l’appoggio del Paese alla guerra, con un voto parlamentare per inviare truppe non combattenti in Iraq, che ha causato divisioni all’interno del partito democratico. Indagini statistiche indicano come in Giappone sia crollato il consenso al governo Koizumi quando quest’ultimo si è schierato al fianco di Bush. La guerra poi porta un potenziale d’instabilità anche in Nord-Asia, con Pyongyang molto preoccupata di essere la prossima nella lista americana.
"Nessuno può assicurarci che gli Stati Uniti non accendano una seconda crisi irakena nella penisola coreana", ha affermato l’addetto stampa del governo, Minju Joson.