La crisi della Fiat e le risposte 
	possibili .
	Perché 
	la Fiat è in crisi. La reazione operaia. I limiti delle risposte della 
	politica e del sindacato. Di Michele Corsi. 2 novembre 2002.
 
    
   I 
	tagli della Fiat Il 
	9 ottobre la FIAT chiede lo stato di crisi (passo necessario per accedere 
	ad ammortizzatori sociali parzialmente a carico dello stato, quali cassa integrazione 
	straordinaria e mobilità) e presenta un piano che individua 8.100 esuberi 
	(11.000 a giugno) di cui 500 in mobilità (quelli più vicini 
	alla pensione) e il resto in cassa integrazione a 0 ore da dicembre, su 36.000 
	dipendenti di FIAT auto che lavorano negli stabilimenti italiani (1). Particolarmente 
	penalizzate Arese e Termini Imerese i cui stabilimenti sono destinati alla 
	chiusura.  Difficile 
	le stime dell'indotto coinvolto. Secondo La Repubblica (11/10) solo 
	a Torino questo coinvolgerebbe circa 73.000 addetti per 1.200 aziende per 
	un totale di esuberi compreso tra gli 11.000 e i 15.000.  Gli 
	antecedenti L'accordo 
	tra Fiat e General Motors del 2000 prevedeva l'acquisizione da parte di GM 
	del 20% della Fiat auto, con una opzione di acquisto obbligatoria su richiesta 
	Fiat ("put") da parte di GM del restante 80% a partire dal 2004. 
	All'epoca, Fiat e gran parte dei quotidiani parlarono di accordo "storico" 
	che avrebbe creato splendide sinergie e rilanciato l'auto italiana. Poi 
	a maggio di quest'anno ecco la doccia fredda della "rivelazione" dell'enorme 
	debito Fiat (2) e l'inizio della negoziazione con le banche creditrici, che 
	termina a fine luglio con un "patto anticrisi" che prevede la cessione da 
	parte di Fiat di una serie di "asset" e un prestito fortemente condizionato. 
	Il patto deve consentire alle banche esposte di "accompagnare" la Fiat sino 
	al momento in cui eserciterà il put, cioè cederà il settore 
	auto alla GM (3). Dobbiamo 
	precisare per comprendere la dinamica della vicenda che Fiat Auto è 
	solo una parte dell'impero Agnelli. Qui di seguito uno schema semplificato, 
	che esclude le partecipazioni Ifil (4):    La 
	dinamica recente della crisi Giorni 
	prima dell'annuncio di stato di crisi circolavano le prime cifre sugli esuberi. 
	La reazione iniziale del governo e delle forze politiche era stata piuttosto 
	blanda, ma non quella del mercato: l'8 ottobre il titolo torna ai livelli 
	dell'85, la media mensile delle perdite del gruppo è di 140 milioni 
	di euro. Il Corriere della Sera dopo l'incontro tra l'amministratore 
	delegato Galateri e il ministro delle attività produttive Marzano (successivamente 
	emarginato dalla estione della crisi) avvenuto l'8, si precipita (con la penna 
	di M.Gaggi, il 10) ad escludere qualsiasi "salvataggio a spese del contribuente", 
	ma, al massimo, incentivi alla reindustrializzazione, senza "veti" alla chiusura 
	di stabilimenti.  Ma 
	la reazione operaia, soprattutto a Termini Imerese (in quella Sicilia dove 
	il Polo ha portato a casa il 100% degli eletti alle politiche), ma anche ad 
	Arese e poi gli scioperi in Piemonte, spingono la destra "regionale" ad un 
	balletto teso a mostrare ai "propri" operai, che si cerca di tutelare i loro 
	interessi a scapito dei colleghi delle altre regioni. Fini e Cuffaro diventano 
	i difensori di Termini, la Lega di Arese e Ghigo di Mirafiori. A quel punto, 
	l'11 ottobre interviene Berlusconi dicendo che nella crisi Fiat il governo 
	"farà la sua parte". Incomincia così una fase complessa della 
	crisi dove si intersecano vari disegni e opposti interessi, e che durerà 
	qualche giorno, ma che è di estremo interesse per comprendere le dinamiche 
	del capitalismo.  La 
	Fiat comincia a pressare la General Motors perché anticipi l'opzione 
	di put che dovrebbe esercitare a partire dal 2004. La Fiat vuole liberarsi 
	del settore auto che trascina verso il basso il resto del gruppo che invece, 
	come vedremo, va bene. Il presidente Fiat Paolo Fresco l'11 ottobre dichiara 
	al Wall Street Journal che la questione della cessione dell'auto a 
	GM non è "se" ma "come, quando e a che prezzo". La dirigenza Fiat, 
	dato che vuol disfarsi dell'auto, non ha alcuna intenzione di metterci dei 
	soldi, e in tutti i casi se lo facesse comprometterebbe il resto del gruppo: 
	il 18 ottobre Standard & Poor's ha dato un giudizio A (quindi positivo) 
	su Ifil condizionato però al non esborso di capitali aggiuntivi nel 
	"pozzo" Fiat auto.  Negli 
	ambienti governativi intanto comincia ad essere ventilata l'idea di una entrata 
	dello stato nel capitale Fiat (vari commentatori parlano di "modello 
	Volkwagen") (5) insieme alle banche creditrici e alla stessa GM. Il Governatore 
	della Banca d'Italia dà il suo via libera (Fazio: "l'intervento pubblico 
	non e' peccato", 15 ottobre) così come Monti, commissario alla concorrenza 
	a Bruxelles durante una telefonata con Berlusconi (il 14: "a patto che lo 
	stato si comporti come un investitore privato"). Come risulta chiaro nell'incontro 
	del 13 ottobre tra Fiat e Berlusconi, ciò che il governo vuol portare 
	a casa è la garanzia della prosecuzione della produzione a Termini 
	Imerese. Secondo La Repubblica (14 ottobre) Fresco sarebbe stato disponibile 
	ad una cessione a costo zero della Fiat auto allo Stato in cambio della autorizzazione 
	a dieci nuove centrali elettriche per rafforzare Italenergia, colosso elettrico 
	(controlla Edison) in mano Fiat. Il governo pressa comunque, con Fini, perché 
	"anche la Fiat faccia la sua parte", cioè metta soldi del resto del 
	gruppo (o asset, si parla della Ferrari o della partecipazione in Hdp).  Ma 
	GM fa presto conoscere il suo pensiero: il 15 dichiara che eventuali cambiamenti 
	di controllo in Fiat farebbero decadere immediatamente l'opzione di acquisto. 
	Lo stesso giorno svaluta enormemente la quota Fiat detenuta. Secondo il New 
	York Times (citato dal Corriere del 17) "il motivo di una svalutazione 
	cosi' forte del 20% di Fiat Auto è per abbassarne il prezzo nel caso 
	GM debba acquistarne il restante 80%". Accelerare l'acquisto del resto non 
	sarebbe conveniente per GM: perché gestire in prima persona una dolorosa 
	ristrutturazione, quando la Fiat può ben fare il lavoro sporco? Anche 
	il crollo del valore dell'azienda non sarebbe un dramma: il patto stabiliva 
	l'obbligo di acquisto, ma il prezzo sarebbe stato quello del momento in cui 
	l'opzione veniva esercitata. Infine: GM non ha interesse che lo Stato entri 
	nel capitale: sa bene che questo avverrebbe solo dando come garanzia la non 
	chiusura di stabilimenti considerati non produttivi. Di nuovo il New York 
	Times: "sull'ipotesi di un intervento del governo italiano in Fiat Auto, 
	gli analisti osservano che in linea di principio la GM è contraria 
	perché renderebbe più difficile influire sulla sua gestione 
	a beneficio dei propri azionisti." E 
	veniamo a un ulteriore attore della vicenda: le banche. Il loro interesse 
	non coincide con quello di GM: se la Fiat va a rotoli, GM la rileva gratis, 
	ma loro ci rimettono i crediti. Per questo le banche creditrici premono perché 
	la Fiat venda degli asset del gruppo (mentre lo stato vorrebbe nello scambio 
	appropriarsene per sé) in modo da diminuire il debito. La divertente 
	locuzione che utilizzano quando propongono alla Fiat la dismissione del Toro 
	Assicurazioni è: "allargare il perimetro delle cessioni" (23 ottobre). 
	Le banche vogliono che si arrivi al momento della cessione alla GM in una 
	situazione in cui la Fiat possa "vendere bene", perché i proventi poi 
	andrebbero in gran parte girati a loro per ripianare il debito: l'interesse 
	dei creditori è di "accompagnare il nostro maggior debitore verso l'alleanza 
	con gli americani della GM" (Corriere, 17). Le banche sono a loro volta 
	sotto pressione: l'agenzia di rating Fitch ha messo sotto osservazione le 
	sei banche creditrici, e tutte e sei il 23 ottobre cadono in Borsa. Sia le 
	banche che la Fiat dunque, dopo alcuni giorni in cui ognuno aveva giocato 
	il proprio gioco, si ritrovano dalla stessa parte della barricata: il put 
	rappresenta la loro ancora di salvezza, dunque l'intervento dello stato sarebbe 
	dannoso perché farebbe saltare l'accordo con GM, si deve tirare fino 
	al 2004 "risanando", perché solo così si può vendere 
	bene agli americani.  Il 
	16 dunque i giochi sono fatti, e si chiude la breve parentesi dell'ipotetico 
	intervento pubblico. Banche e Fiat vanno dal ministro del Tesoro Tremonti 
	a comunicare che il piano industriale (che Tremonti afferma di non conoscere, 
	trattandosi in effetti di un semplice programma di tagli) è l'unica 
	strada da percorrere e che non vi è alcun bisogno di intervento statale. 
	A questo punto il governo si tira indietro. Non ha alcuna convenienza economica 
	e nemmeno politica ad entrare nella partita: non servirebbe ad evitare i tagli, 
	e favorirebbe degli azionisti i cui vantaggi comunque verrebbero poi ceduti 
	a GM. Il 17 il governo dichiara che non interverrà finché la 
	Fiat non presenterà un piano industriale senza chiusure e la palla 
	torna, non a caso, all'inutile Marzano che può permettersi anche qualche 
	provocazione: "con i 2,3 miliardi di euro versati dal mio ministero alla Fiat 
	dovremmo essere gia azionisti" (17 ottobre). Il 19 ottobre il Corriere 
	può tirare un sospiro di sollievo e titolare: "lo stato resterà 
	fuori dal capitale. Si può voltare pagina". Lo stesso giorno Galateri: 
	"non c'è altro in corso salvo il put. E il put fa parte di un discorso 
	che si potrà aprire dal 2004 al 2009. ma che non ha legami con il risanamento 
	di Fiat auto. il cui piano di rilancio va avanti a prescindere da qualunque 
	tipo di investimento". Naturalmente 
	il piano di "rilancio" con addirittura 20 nuovi modelli nel 2004 
	è roba buona per i polli: nel 2004 i resti della Fiat verranno mollati 
	a GM, e punto. Le 
	lotte in corso L'accordo 
	tra Fiat e banche a luglio aveva lasciato sul terreno 3.000 esuberi, con un 
	accordo infame firmato da Fim e Uilm che giuravano su un piano industriale 
	che si è rivelato, a soli due mesi di distanza, una bufala.  La 
	reazione operaia ha preceduto le dichiarazioni ufficiali della Fiat. Già 
	il 4 ottobre c'erano scioperi ad Arese e a Mirafiori, il 7 a Termini Imerese 
	con blocco dell'autostrada. Fim, Uilm e Fismic ferme ad aspettare le "comunicazioni 
	ufficiali".  Con 
	lo stato di crisi dichiarato si intensifica la mobilitazione operaia. Il 9 
	a Termini c'è una manifestazione di 10.000 persone e lo stesso giorno 
	dopo l'incontro con la Fiat i tre sindacati di categoria proclamano 4 ore 
	di sciopero per il giorno dopo. Poi l'11 sciopero unitario in tutte le fabbriche 
	Fiat (si fermano anche Melfi e Pomigliano, non toccati dalla cassa). L'RSU 
	di Melfi propone di rinunciare a un turno per "darlo" a Termini. La mobilitazione 
	è più vivace ad Arese e a Termini, meno a Mirafiori, in una 
	città depressa da due decenni di cassa integrazione e riduzione di 
	personale. Il 14 l'Alfa di Arese sciopera di nuovo (e come sempre blocca l'autostrada) 
	e il 17 gli operai di Termini vanno in massa a Roma dove bloccano strade, 
	metro, stazioni. Lo stesso giorno Fim, Uilm e Fiom indicono lo sciopero generale 
	di categoria per il 15 novembre di 4 ore e 8 per il gruppo Fiat. Il 28 di 
	nuovo sciopero unitario a Termini e Mirafiori. Queste 
	lotte hanno chiaramente spinto il governo a compiere quel tentativo di intervento 
	di cui abbiamo parlato sopra: se non avesse sospettato di poter pagare un 
	prezzo politico troppo elevato per la sua indifferenza, non si sarebbe preoccupato 
	affatto del problema. Ma queste lotte non sono state sufficienti ad incidere 
	in profondità nei rapporti di forza con l'alleanza, fatta di interessi 
	incrociati, tra Fiat, GM e banche. Per capire il perché dobbiamo compiere 
	una digressione. La 
	crisi della FIAT e le sue ragioni Sui 
	mass media si sono date le più svariate spiegazioni sugli "errori" 
	della Fiat. Si va dal "partito" Pininfarina seccato che la Fiat non si sia 
	servita di lui e che sostiene che "la Fiat avrebbe dovuto puntare tutto 
	sul design", a Fazio che ha criticato la contabilità Fiat, ecc. 
	Ed anche a sinistra c'è il partito dei cercatori di "errori" della 
	dirigenza Fiat: tra i tanti, Revelli che critica il fatto che la Fiat si sia 
	globalizzata in ritardo ("La globalizzazione stracciona") mentre Andrea Fumagalli, 
	sempre sul Manifesto, il 1° novembre critica l'assenza di una 
	"politica industriale". Non 
	condividiamo nessuno di questi punti di vista. Più precisamente non 
	condividiamo l'ipotesi dell'"errore". Esso suppone un retropensiero: che se 
	nel capitalismo le aziende non compissero "errori" e magari disponessero 
	della mitica "politica industriale" non ci ritroveremmo con crisi, esuberi, 
	ecc. Non sappiamo come si chiami una società senza tagli, licenziamenti, 
	dismissioni, concorrenza spietata, ecc. Sappiamo solo che non si chiama capitalismo, 
	e non è, per ora, su questo mondo. Molto 
	più semplicemente la Fiat ha fatto una scelta, l'ha fatta molti anni 
	fa, e l'ha fatta in base all'unica logica e all'unica morale che il capitalismo 
	conosca: il profitto. La Fiat ha già da tempo compiuto la scelta di 
	uscire dall'auto, perché il settore presentava una concorrenza internazionale 
	inarrivabile per l'Italia, e i profitti ricavabili avevano un'entità 
	inferiore a quella di altri settori. Dov'è l'errore, dal punto di vista 
	capitalista? A noi pare invece molto logico. Alcuni 
	dati e alcuni commentatori intelligenti ci aiuteranno a dimostrarlo. Nel '90 
	la quota Fiat nel mercato italiano era del 52% (con Lancia e Alfa), oggi è 
	al 31%. In Europa si è passati dal 14% all'8%. Un calo dunque che percorre 
	tutti gli anni novanta. Giuseppe Turani su La Repubblica dell'11 ottobre 
	ci ricorda che nel 1989 la Fiat aveva raggiunto il suo apogeo con il 10,7% 
	di utile corrente sul fatturato. L'uscita di Vittorio Ghidella da Fiat Auto 
	segna simbolicamente l'inizio della fuoriuscita dal settore e l'inizio del 
	declino dell'auto Fiat. Romiti infatti punta decisamente sulla diversificazione. 
	Alessandro Penati scriveva sul Corriere prima dell'accordo con GM: 
	"in un mercato a crescente concorrenza come quello dell'auto, dove pochi colossi 
	si contendono a livello mondiale spazi sempre più ristretti, la Fiat 
	presto si troverà a un bivio: immettere nuove risorse nel settore automobilistico, 
	mantenendone il controllo; oppure uscirne, per investire in settori più 
	promettenti. Ma Fiat non è un'azienda come le altre: sarebbe indelicato 
	parlare di vendita. Prepariamoci dunque a una più digeribile 'alleanza 
	strategica'".  La 
	Fiat aveva 130.000 dipendenti nell'80, calati a 90.000 a metà anni 
	ottanta, poi a 50.000 a inizio dei 90 (12.000 quadri e impiegati vennero buttati 
	fuori tra il '93 e il '94) per arrivare ai 36.000 di oggi. Tutto ciò 
	corrisponde alla scelta ben precisa di mantenere l'azienda in una china di 
	"produttiva decadenza": di non investire, ma di ridurre le spese all'osso, 
	un'operazione di "spolpamento" dell'azienda per ricavarne risorse da gettare 
	altrove, finché dura. Operazione del resto nella quale la Fiat è 
	esperta: ha fatto così con l'Alfa Romeo acquistata nel 1986 (nei fatti 
	regalata dallo Stato) pur di non vederla cedere alla Ford e l'ha progressivamente 
	smantellata, lo stesso era accaduto con Lancia ed Innocenti. Secondo 
	Eurobusiness (citato da Ezio Mauro su La Repubblica del 18 ottobre): 
	"negli ultimi sei anni Volkswagen ha speso 21 miliardi di euro per studiare 
	i nuovi modelli, Renault 10,4, Bmw 10, Fiat appena 4,5." Per Riccardo Gallo 
	ex vicepresidente dell'Iri e oggi consulente di Antonio Marzano, nella gestione 
	della Fiat degli ultimi anni "si è pensato molto a migliorare l'efficienza: 
	la produttività è aumentata molto. Basti pensare che il valore 
	aggiunto per addetto nel 2001 è stato di 82.000 euro, superiore a quello 
	di Ford, Psa, Chrysler e Renault. Ma a impoverirsi è stato il ciclo 
	industriale". (Corriere Economia del 21 ottobre).  Mentre 
	disinvestiva nell'auto, la Fiat acquisiva altrove. Solo negli ultimi anni: 
	nel '99 Case, Kobelco e Pico e nel 2001 è entrata alla grande nel settore 
	elettrico. Montedison, oggi controllata da Fiat con il 24,6%, è la 
	seconda azienda del comparto dopo l'Enel. E l'indiscrezione riportata da Repubblica, 
	che abbiamo riportato sopra, sulla contropartita chiesta da Fresco a Berlusconi 
	(il permesso alla costruzione di dieci nuove centrali) è oltremodo 
	significativa. Naturalmente 
	in questo disegno di "errori", dal punto di vista capitalista, la 
	dirigenza Fiat ne ha fatti. Penati ad 
	esempio sul 
	Corriere le rimprovera di non aver dismesso prima e subito 
	il settore auto. E per come stanno andando le cose è chiaro che i manager 
	del gruppo devono aver sbagliato a calcolare bene i tempi. Ma si tratta di 
	errori sui tempi: in poche parole se questi "errori" non 
	ci fossero stati, Fiat Auto sarebbe già stata venduta prima 
	e i suoi operai sarebbe già da un pezzo a spasso, perché questa 
	era la decisione strategica presa dai suoi proprietari sulla base delle prospettive 
	di profitto. La 
	Fiat dunque, al pari di qualsiasi azienda capitalista, si fonda sulla ricerca 
	del profitto, del suo profitto, e da quel punto di vista ha compiuto, 
	dieci anni fa, la scelta giusta. Solo che si tratta di una scelta, come tutte 
	quelle dettate dal profitto, che non coincide affatto con gli interessi degli 
	operai. I due interessi, quello capitalista e quello operaio, sono contrapposti 
	e non c'è alcuna "gestione illuminata" da parte dei manager, 
	nessuna splendida "politica economica" che potrebbe conciliarli. 
	La cronaca che abbiamo fatto sopra dei giorni tra l'11 e il 16 ottobre, dimostra 
	che ogni attore nella disputa capitalista ragiona secondo i propri precisi 
	interessi dettati appunto dalla prospettiva del profitto, e secondo questa 
	logica, la gran parte delle azioni sono obbligate. La sinistra e i sindacati 
	dunque non possono sperare di cavarsela cercando di suggerire ad Agnelli & 
	C la maniera migliore per fare il capitalista, perché Agnelli & 
	C lo sanno già, purtroppo. Si deve agire in maniera tale da inceppare 
	e sconfiggere quella logica. Ma è ciò che, sinistra e sindacato, 
	come vedremo, hanno difficoltà a portare avanti. L'assenza 
	della politica E 
	qui veniamo ad una prima ragione per cui la dirigenza Fiat ha potuto impunemente 
	portare avanti la sua strategia negli ultimi dieci anni e nell'ultimo mese: 
	la totale assenza dell'opposizione. Nel centrosinistra Rutelli e la Margherita, 
	semplicemente, non hanno detto nulla. Immaginiamo che per loro le decisioni 
	prese dal gotha dell'economia non siano da discutere. Alla fin dei conti però 
	li comprendiamo: che gliene importa? Mirafiori non è certo la loro 
	base sociale, e neppure Termini Imerese, i loro referenti sociali sono altri. 
	 Quella 
	che lascia sbigottiti è, come sempre, la maggioranza DS, che, invece, 
	ha larga parte della sua base sociale tra quegli operai. Chiamparino, che 
	per tutta la prima fase della crisi, non si è nemmeno fatto vedere 
	ai cancelli Fiat, è stato eletto anche da loro. Eppure Fassino è 
	riuscito solo a balbettare ai primi di ottobre di un polo Fiat-Opel e per 
	la sola semplice ragione che immaginava fossero questi i disegni di Agnelli. 
	Ma quando è risultato chiaro che non lo erano, o non lo erano più, 
	ha lasciato perdere e quando è andato a Termini Imerese non è 
	riuscito a dire una sola parola sensata che non fosse l'auspicio che la fabbrica 
	non chiudesse. Ma sul come impedirlo: nulla. Per il resto Fassino si 
	è preoccupato solo di affossare la possibilità di un intervento 
	pubblico che si era aperta tra l'11 e il 18 e che abbiamo descritto sopra. 
	Ecco cosa diceva ai giornali il 16: "il compito dell'esecutivo non può 
	essere quello del notaio, ma non per questo dev'essere quello di socio". Qualcuno 
	ha capito se Fassino aveva in mente un'idea? Noi no. E, supponiamo, nemmeno 
	i suoi elettori. I quali, dal punto di vista politico, gli unici personaggi 
	che hanno visto agitarsi (come abbiamo visto in modo vacuo e opportunista) 
	sono stati quelli di destra.  Non 
	ci convince nemmeno l'ipotesi Fiom di un'entrata dello stato o delle regioni 
	nel capitale Fiat, magari insieme a GM e banche. La semplice acquisizione 
	di un pacchetto di azioni non garantirebbe affatto il rientro del disegno 
	di decadenza pilotata del settore auto, visto che il pallino rimarrebbe sempre 
	in mano a chi cerca profitto senza spendere soldi. La probabile fuoriuscita 
	di Gm inoltre, determinerebbe un notevolissimo investimento di denaro da parte 
	statale, che, a quel punto, non si vede perché dovrebbe lasciare la 
	gestione ad altri. E non capiamo cosa ci vuol dire Epifani quando afferma 
	che "sono favorevole a un ingresso dello stato ma solo come elemento di garanzia 
	dell'interesse generale che dovrebbe servire ad accompagnare un processo di 
	ricapitalizzazione" (La Repubblica 14 ottobre). Ci pare anche 
	questa un'affermazione estemporanea senza valenze pratiche. L'unica 
	proposta ragionevole in realtà è stata quella avanzata da Fausto 
	Bertinotti: la nazionalizzazione della Fiat. E non capiamo perché ci 
	sia stata gente che l'ha trovata divertente. Non è una proposta rivoluzionaria, 
	ma l'unica percorribile se si vuole salvare la Fiat. Infatti la Fiat auto, 
	come abbiamo visto sopra, va ad essere chiusa, perché sarà consegnata 
	già ultraridimensionata alla GM. Quindi è solo strappando 
	dalle mani delle banche, della GM e della stessa Fiat la gestione del suo 
	destino, che questo potrebbe mutare. Nel '76 Carli aveva pensato di trasferire 
	la Fiat, sommersa di debiti, all'IRI. Potremmo dire con ironia: realizziamo 
	il sogno di Carli! L'alternativa è solo una: credere sul serio al "piano 
	industriale" della Fiat. Del resto: basta trovarlo! Rifondazione 
	ha presentato un emendamento alla finanziaria in cui chiede l'acquisto della 
	Fiat al prezzo simbolico di un euro. Anche questa iniziativa è stata 
	presa come uno scherzo. E invece non lo è affatto. Lo stesso Galateri, 
	ridimensionandolo abbonantemente, afferma che in 25 anni la Fiat ha ricevuto 
	da aiuti dello stato 4,5 miliardi di euro, senza contare la cassa integrazione 
	e il regalo dell'Alfa Romeo. Secondo la Borsa la Fiat vale meno di 4 miliardi 
	di euro (La Repubblica 19 ottobre). Beh: lo Stato non farebbe altro 
	che riprendersi i suoi soldi. Penati sul Corriere del 21 ottobre: "oggi 
	probabilmete Fiat sarebbe felice di vendere l'auto al valore simbolico di 
	1 euro, con qualche miliardo di debiti in dote". E la ragione per cui non 
	lo fa è semplicemente dovuta alla speranza che, tagliando e ridimensionando, 
	la GM qualche soldino nel 2004 glielo dia. Inoltre: 
	in tutta la vicenda della gestione della crisi che abbiamo raccontato sopra 
	stupisce come la Fiat non solo abbia tenuto nascosti i suoi piani ai sindacati, 
	ma persino al governo e alle banche (che se ne sono pubblicamente lamentate 
	prima della pace di metà ottobre). Ebbene: come è possibile 
	che la sinistra ammetta che il destino di vita di decine di migliaia di persone 
	sia segreto? Come minimo si dovrebbe esigere la totale pubblicità 
	dei libri contabili, delle manovre, degli accordi, dei verbali, della Fiat. 
	Ciò va contro gli interessi Fiat? Vero, ed esattamente per questo va 
	a favore degli interessi operai. Quello 
	che manca agli operai per prima cosa dunque, è una proposta di fuoriuscita 
	dalla crisi. E questa non può che essere una: strappare la Fiat 
	dal controllo di chi ne sta pilotando la fine.  I 
	limiti della tattica sindacale Su 
	La Repubblica l'11 ottobre Eugenio Scalfari scriveva: "la crisi Fiat 
	rischia di provocare un'esplosione di rabbia sociale estremamente pericolosa 
	che andrà a sommarsi ad altre incertezze già presenti nella 
	società italiana: una disoccupazione giovanile endemica nel Sud, pensioni 
	d'anzianità a rischio, tutele fragili o addirittura inesistenti, servizi 
	sociali senza un soldo da spendere." Duole constatare che sino ad ora questa 
	esplosione non c'è stata. La dirigenza Fiat, le banche e il governo 
	non stanno dormendo sonni agitati, e Berlusconi, dopo il 16, si è potuto 
	permettere di ritirarsi dalla vicenda perché la rabbia sociale non 
	era poi così violenta da impensierirlo. C'è qualcosa nella tattica 
	sindacale che non va. Non 
	ci occuperemo ovviamente di Fim e Uilm, delle quali non scriviamo nulla per 
	non incorrere in qualche denuncia. Ci pare però che la tattica della 
	Fiom abbia dei limiti. Essa ha dato senz'altro sfogo alla voglia degli operai 
	di lottare, ma non sta articolando una lotta per vincere, perché 
	per vincere bisogna far male all'avversario. Ci spieghiamo, prima però 
	una premessa.  Il 
	31 ottobre il Consiglio di Amministrazione del gruppo Fiat ha registrato il 
	record delle perdite della Fiat auto (tra luglio e settembre: 340 milioni 
	di euro), ma tutti gli altri settori vanno bene: l'Iveco ha dato il 
	14% in più di ricavi e l'8,3% di vendite in più, Fiat Avio ha 
	aumentato l'utile operativo di 154 milioni di euro nei 9 mesi di quest'anno. 
	Alessandro Penati sul Corriere riferisce che nella difficile congiuntura del 
	primo semestre di quest'anno le attività industriali (auto esclusa) 
	comprendenti aviazione, macchine agricole e per costruzioni, autocarri, automazione, 
	servizi alle imprese, componenstica hanno prodotto 30 miliardi di ricavi e 
	600 milioni di risultato operativo (dati annualizzati). Penati calcola che 
	con parametri europei (25% del fatturato o 11 volte gli utili prima delle 
	imposte e degli oneri finanziari) queste attività valgono circa 7 miliardi. 
	Ci sono poi 7 miliardi di partecipazioni (Italenergia, Fidis, Ferrari, ecc.), 
	3,5 miliardi di attivita liquide, 18,7 miliardi di crediti finanziari, ecc. 
	Insomma: "immaginando che l'auto sia ceduta a costo zero, il totale delle 
	attività è 36,2 miliardi di euro". Mica 
	male. Se pensiamo poi all'Ifil allora troviamo interessi nella carta (Burgo), 
	nella grande distribuzione (Rinascente, Auchan), nel turismo, nella finanza
 Cosa 
	vogliamo arrivare a dire? Che ci sembra comprensibile ma inutile fare scioperare 
	gli operai di Termini Imerese e di Arese, perché tutto sommato, se 
	lavorano o no, ad Agnelli poco importa. Agnelli deve essere colpito dove 
	guadagna. Paradossalmente, ma non tanto: si deve bloccare l'Iveco per 
	salvare Termini. Si deve fare come in Germania quando in occasione del contratto 
	non vengono fatte scioperare tutte le fabbriche, ma solo alcune, strategiche, 
	che ne bloccano a catena altre. E gli operai coinvolti vengono risarciti con 
	casse di resistenza. La Fiom e la Cgil hanno la possibilità concreta 
	di farlo, devono però mettersi nell'ottica di far perdere dei soldi 
	ad Agnelli. E ce n'è anche per quelli che operai Fiat non sono. Il 
	movimento no-global ad esempio potrebbe momentaneamente sospendere le sue 
	agitazioni contro MacDonald e le campagne contro Nike e affini e concentrarsi 
	sulle aziende che vanno bene degli Agnelli: boicottare la Rinascente 
	ad esempio, o Alpitour. Non 
	vediamo all'orizzonte altre alternative. Dispiace, ma anche quella prospettata 
	dalla segreteria del SinCobas con un intervento su Liberazione (29 
	ottobre) ci pare debolina: partecipare in massa al Forum Europeo di Firenze 
	per "euopeizzare le lotte". Ma che vuol dire? E' uno slogan consolatorio, 
	privo di risvolti concreti. Vorremmo sapere quanti sono gli operai di Termini 
	che andranno a Firenze.  La 
	domanda è una sola: si vuol vincere o no? Se si vuol far testimonianza 
	si continui pure a scioperare senza obiettivi in testa e senza far danni veri 
	e lanciamoci pure in infiammati discorsi nei seminari di Firenze. Ma se si 
	vuol vincere si deve colpire Agnelli nel portafogli, perchè solo colpendo 
	sul serio il profitto anche gli altri attori, GM, banche e governo, saranno 
	costretti a intervenire. Altrimenti non cederanno.    NOTE (1) 
	Gli esuberi sarebbero così distribuiti: Mirafiori (Torino) 
	1.000 
	(su 9.900 dipendenti) e 350 tra Comau e Magneti Marelli (da luglio 1.700 lavoratori 
	di Fiat Auto e 300 di Comau), Cassino (Roma) 1.200 (su 4.500 dipendenti), 
	Arese (Milano) 1.000 (su 2.000), Termini Imerese (Palermo) 1.800 (su 1.900 
	dipendenti). Non sono toccati i 5000 lavoraotri di Pomigliano d'Arco (Napoli) 
	e i 5000 di Melfi (Potenza).  (2) 
	al 30 giugno i debiti finanziari lordi erano di 32.900 milioni (3) 
	il 
	piano anticrisi si fondava su quattro punti: impegno a ridurre da parte di 
	Fiat entro l'approvazione del bialancio 2002 l'esposizione finanziaria netta 
	a 3 milardi di euro dai 6,6 originari anche attaverso dismissioni (alcune 
	già operate  
	il 40% di Europ Assistance andata a Generali, la Teksid alluminio andata a 
	Jp Morgan e al fondo Questor, il 34% della Ferrari a Mediobanca), 
	la disponibilità a sacrificare altri asset in caso di scostamento dagli 
	obiettivi, cessione alle banche del 51% di Fidis (società di credito 
	al consumo), rifinanziamento da 3 miliardi erogato subito dalle banche a garanzia 
	di un aumento di capitale di pari importo da varare entro un triennio. Il 
	prestito è così ripartito in milioni: 650 Banca Intesa, 625 
	Unicredito, Capitalia 425, Sanpaolo 400, Montepaschi 300, Bnl 300. 
	Le banche hanno 
	rilevato a un prezzo generoso il 14% di Italenergia, portando così 
	la quota Fiat  
	al 24,6%. La Fiat ha così incassato 1.700 milioni di euro che sono 
	andati a ridurre il debito (cioè sono andati alle banche).  (4) (5) 
	Nel capitale Volkswagen il Land della Bassa Sassonia detiene il 
	13,7% con 
	golden share che le dà diritto di veto (per scoraggiare investitori 
	stranieri
