Prove
generali di smantellamento del sistema pensionistico.
Dopo
avere ridotto i salari con 10 anni di concertazione, dopo avere ridotto il
valore delle pensioni che i lavoratori andranno a percepire, il governo propone
un aumento di salario in cambio della rinuncia al diritto alla pensione di
anzianità. Di Duilio Felletti. Febbraio 2003.
A metà gennaio si è tenuto
a Buxelles un importante vertice dei ministri competenti in materia, sulla
questione delle pensioni nella UE, con lintento di giungere ad un accordo
di massima su come rendere omogenei i diversi sistemi degli stati membri.
È il caso di ricordare che in Italia la questione delle pensioni rappresenta
una costante riproposta ciclicamente dal padronato, e, con più forza,
nelle fasi di crisi e di caduta della competitività del sistema economico,
e la pressione che esercita è sempre rivolta a fare in modo che le
imprese vengano sensibilmente sgravate dal costo dei contributi che devono
pagare alle casse degli enti previdenziali.
Questa volta il problema si pone però sul piano europeo, proprio per fare in modo che, dando omogeneità ai diversi sistemi pensionistici nazionali, non debba esistere uno stato in cui la borghesia locale debba sostenere costi che i concorrenti comunitari non devono sostenere, ed essere penalizzato sul piano della competitività.
Pertanto le linee che i governi nazionali hanno deciso di perseguire possono essere così riassunte.
Andare ad una riforma strutturale dei sistemi, con il fine di:
- ridurre per lo Stato il peso dei costi,
- aumentare il numero dei lavoratori occupati dando maggior impulso alla flessibilità del mercato del lavoro,
- dare incentivi sostanziosi a quei lavoratori che potrebbero andare in pensione, per indurli a non abbandonare il posto di lavoro,
- fare in modo che i lavoratori in pensione siano in numero tale da consentire "lequilibrio del sistema" (non ci siano cioè troppi pensionati in rapporto al numero dei lavoratori attivi)
- dare impulso alla previdenza privata (pensioni integrative)
- fare in modo che entro il 2010, nei fatti, letà pensionabile sia più alta di 5 anni.
In Italia fino a oggi la patata bollente della riforma delle pensioni, è sempre stata gestita dai governi di centro e di centro sinistra, in accordo con i sindacati; così, di riforma in riforma, siamo giunti a una situazione in cui tra una quindicina di anni, o poco più, nessun lavoratore potrà godere di una pensione calcolata in rapporto al reddito percepito in attività (sarà cioè abolito il sistema retributivo); tra 5/6 anni letà pensionabile arriverà a 65 anni sia per le donne che per gli uomini; e la pensione di anzianità sarà possibile in età molto vicina ai 60 anni.
Nel frattempo stanno prendendo, e prenderanno sempre più piede, i fondi privati, che dovrebbero garantire a chi se la potrà permettere una pensione integrativa. Tutto ciò è già deciso e sta avvenendo con gradualità ma inesorabilmente; infatti la marcia di avvicinamento a questa situazione, ha tappe e date ben precise, stabilite in accordo con le parti sociali e il governo, e sta procedendo da almeno un decennio.
Nonostante tutto ciò i padroni continuano a ritenere che il sistema è comunque troppo costoso e che i tempi di approdo alla situazione ritenuta ottimale sono troppo lunghi, e sollecitano pertanto il Governo a fare in fretta e a risolvere la questione nellarco del 2003. A tale proposito è molto esplicativo lintervento fatto dal presidente della Confindustria DAmato dalle colonne del Sole24ore di inizio anno, in un messaggio agli imprenditori, in cui molto pragmaticamente, argomenta che è questo lanno buono per la "riforma" delle pensioni, perché non vi sono elezioni di una certa consistenza, mentre nel 2004 vi saranno le amministrative, nel 2005 le europee e nel 2006 le politiche. Pertanto limpopolarità (infatti si ammette esplicitamente che il provvedimento è impopolare) che deriverebbe dalla manomissione delle pensioni verrebbe, nel tempo, riassorbita e non vi sarebbero ripercussioni sul piano elettorale per la maggioranza che sostiene il governo di centro destra.
Ma su cosa il governo sta concretamente lavorando?
Già sul Patto per lItalia, firmato con Cisl e Uil, il Governo ha già ottenuto dei risultati, che, anche se non sono ancora operativi, sono certamente piaciuti alle organizzazioni padronali (tuttavia non le ritengono sufficienti). Ci riferiamo alla riconferma dei premi per i nuovi assunti (sconti sulle tasse) fatti ai padroni già decisi dal governo precedente, e uno sconto di 3/5 punti percentuali sui contributi pensionistici per i nuovi assunti che verrà messo in atto gradualmente con collegati alle finanziarie che si succederanno.
Ma ciò che ora il Governo si appresta a fare è la messa in atto di un vero e proprio meccanismo che punisca i lavoratori che vogliono andare in pensione pur avendone il diritto e i requisiti, e nello stesso tempo premi chi sarebbe disponibile a proseguire lattività lavorativa.
Si tratta in sostanza di dare al lavoratore un aumento in busta paga del 30-33% per il periodo in cui continuerà a lavorare dopo avere raggiunto il numero di contributi previsti per il pensionamento di anzianità.
Infatti, secondo alcune stime dei soliti esperti, si è valutato che si verificherebbe un rallentamento dellaumento della spesa pensionistica del 20% nellarco di 50 anni, semplicemente ritardando di un anno landata in pensione dei lavoratori. Il risparmio è ovviamente superiore se gli anni fossero 2 o 3
I soldi che finiranno in busta paga sotto forma di aumento del netto, verrebbero da un taglio di un terzo dei contributi pagati dallimpresa, e dalla totale esenzione dei contributi a carico del lavoratore. Nonostante questa quantità di soldi che non entrerebbero nelle casse dellInps, parrebbe che alla fine lIstituto ci andrà a guadagnare.
Infatti, sempre secondo gli stessi esperti, il costo dellincentivo contributivo, supponendo che 50.000 lavoratori dovessero decidere di lavorare oltre lanzianità, dovrebbe oscillare tra i 150 e i 300 milioni di Euro lanno. Ma, sempre secondo gli esperti, la minor spesa per i mancati pensionamenti sarebbe almeno doppia con un risparmio effettivo di 350-400 milioni di Euro.
E invece per disincentivare/punire coloro che comunque non vorranno sentire ragioni e resteranno imperterriti nella loro decisione di smettere di lavorare, verrebbe loro applicato il metodo contributivo nel calcolo della pensione.
Allo stato del dibattito sembra molto ben delineato il meccanismo dellincentivo, mentre quello del disincentivo è ancora puramente sul piano ipotetico (vi sono probabilmente problemi di incostituzionalità).
È evidente, dietro questa riforma, la volontà (più volte dichiarata da Berlusconi) di andare alla sostanziale abolizione del concetto di età pensionabile; nel senso che alla fine si vorrebbe fosse il lavoratore a decidere quando andare in pensione sulla base di un semplice ragionamento di convenienza personale. Il tutto verrebbe ulteriormente agevolato, non essendo più necessario il consenso del padrone per la permanenza in attività. Occorrerebbe quindi una giusta causa per rifiutare il lavoratore. Siamo quindi in presenza di una forma (grottesca) di estensione dei diritti previsti dallarticolo 18. I padroni da parte loro godrebbero di sconti fiscali (400-500 Euro mensili) per ogni lavoratore che non andrà in pensione con i requisiti dellanzianità. Questi lavoratori verrebbero quindi trattati come se fossero nuovi assunti, visto che questo premio corrisponde a quello che viene fatto ai padroni quando assumono a tempo indeterminato dei giovani.
Altro caposaldo del disegno di legge è l'avvio della previdenza complementare, i cui fondi dovrebbero essere alimentati dagli accantonamenti dei lavoratori che oggi vanno sul TFR. Su questo punto si è sviluppato, nel corso dei mesi passati, un grande dibattito/scontro, a tutti i livelli: tra sindacati e Governo, tra sindacati, tra sindacati e opposizione, tra opposizione e Governo e allinterno della stessa opposizione e delle stessa maggioranza.
Largomento è veramente spinoso, e cerchiamo di spiegarne le ragioni.
L'obbligatorietà, o la volontarietà, della destinazione (in parte o totalmente) di questi soldi ai fondi integrativi è e rimane uno dei punti chiave del dibattito tra le forze politiche e nei sindacati. Sono tutti daccordo che i lavoratori debbano rassegnarsi ad avere una pensione più bassa; si dividono però quando devono decidere se costringere i lavoratori a rinunciare al TFR per farsi una pensione integrativa, o se lasciare decidere a loro cosa fare dei propri soldi.
Le motivazioni delle divisioni nella maggioranza di governo, e nel centro-sinistra, derivano dalle resistenze dei padroni, i quali non vorrebbero perdere questa quantità di denaro che, fino a che il lavoratore non lascia lazienda, resta saldamente nelle loro mani (dei padroni) e che viene utilizzata come fonte di autofinanziamento a interesse zero. Pertanto se questi soldi dovessero non essere più disponibili, lorsignori dovrebbero rivolgersi alle banche, così come fanno i comuni mortali, pagando lauti interessi. Il problema che il governo si sta ponendo, dunque, è come fare per compensare i padroni per il danno che avrebbero non potendo più utilizzare i soldi dei lavoratori. Dallaltro lato vi sono i sindacati che a più riprese non hanno mai smesso di sottolineare che limpiego del TFR per le pensioni integrative deve essere unopportunità per i lavoratori e non un obbligo. Ma anche tra loro si dividono se regolare la materia per via contrattuale (Cisl e Uil) o per via legislativa (Cgil).
A tutti comunque appare chiaro che se non si costringono/convincono i lavoratori a farsi una pensione integrativa, questi saranno inevitabilmente portati a difendere con le unghie e con i denti il sistema pensionistico pubblico e tenderanno a condizionare sia i sindacati che i partiti. Per tutta questa serie di motivi per quanto riguarda il TFR per ora siamo solo ai primi approcci.
Alcune valutazioni nel merito.
È ineccepibile, dal suo punto di vista, la pressione che il padronato da sempre fa per una legislazione che vada a ridurre sensibilmente il costo del lavoro, con lintento di migliorare la competitività delle proprie aziende; e in questo quadro se lattacco alle pensioni dovesse andare a "buon fine" si produrrebbe un risparmio per lo stato che si troverebbe in questo modo ad avere disponibili risorse fresche per finanziare nuovi investimenti.
È meno comprensibile invece la non pregiudiziale opposizione che in ambienti sindacali ha avuto lidea dellincentivo a restare al lavoro, e la disponibilità (senza alcun mandato dalla base) mostrata dai vertici sindacali a trattare la materia. Infatti è difficilmente contestabile che incentivare chi vuole restare al lavoro, in una situazione in cui dalla grande industria sono stati espulsi nel solo 2002 circa 30.000 lavoratori (e altri 28.000 nel 2001), con una tendenza che non sembra voler cambiare di direzione, anche senza tenere in considerazione il caso Fiat, sia quanto di più antioperaio si potesse pensare di fare. Se mai la manovra dovrebbe essere opposta (incentivare la fuoruscita) ed essere inquadrata in un processo più generale di riduzione dellorario di lavoro.
Vi è poi da considerare un altro aspetto che lo stesso Epifani (che non è un pericoloso comunista) ha sollevato: i lavoratori che rimarranno in attività saranno con ogni probabilità quelli che comunque sarebbero rimasti (perché magari fanno un lavoro poco pesante), e rimanendo, avrebbero consentito alle casse dellInps un maggiore risparmio di quello che listituto avrà rinunciando a incassare un terzo dei contributi. Ma la parte più odiosa riguarda il lavoratore che, invece, perché fa un lavoro pesante, e che pur non vedendo lora di andarsene, sarà costretto a restare per non subire pesanti decurtazioni dellassegno pensionistico. Così Il lavoratore già privilegiato in attività sarà ulteriormente premiato; quello già penalizzato sarà ulteriormente bastonato.
Sulla questione del TFR non cè molto da dire.
I casi della Enron americana e della Vivendi francese sono li a testimoniare come possono finire i soldi dati dai lavoratori a compagnie di gestione di fondi pensione. Centinaia di migliaia di lavoratori oggi si trovano senza nessuna copertura pensionistica perché le compagnie di assicurazione a cui avevano affidato i loro soldi avevano investito in azioni di questi colossi che poi sono falliti grazie alle leggi del mercato. Davvero un buon affare.
Quanto poi questa scelta delle pensioni integrative invece del TFR sia suicida è dimostrato dal fatto che in Italia da almeno 2 anni a questa parte, si sta verificando che i soldi dei lavoratori lasciati nel TFR hanno reso di più di quelli passati sui fondi pensione. Ma questo dato continua ad essere sottaciuto da coloro (sindacati compresi) che per anni ci hanno riempito la testa di sciocchezze sui fondi pensione, con esclusivo lobiettivo di dare copertura alle losche manovre sulla pensione pubblica.
Le scelte da fare dovrebbero essere altre.
Oltre i continui sconti sui contributi che tramite leggi e leggine di vario tipo sono sempre stati fatti, e continuano a essere fatti a vantaggio dei padroni, oggi il problema grosso, che determina mancate entrate nelle casse dellInps e del fisco, continua a essere quello del lavoro nero.
I continui e ipocriti richiami fatti dalla Confindustria per lemersione del lavoro sommerso, volti esclusivamente a rendere più forte il suo peso contrattuale, sono stati raccolti dal Governo, che ha colto ancora una volta loccasione per offrire sconti e condoni (ed esenzioni dallarticolo 18) a quei padroni che dichiareranno, se lo riterranno conveniente, di voler regolarizzare i propri lavoratori: ma ad oggi i risultati sono stati vicini allo zero.
Il lavoro nero si combatte esclusivamente, da un lato, aumentando le ispezioni, generalizzandole su tutto il territorio nazionale e, dallaltro, dando strumenti veri nelle mani dei lavoratori per affermare i propri diritti (come ad esempio lestensione dellarticolo 18) e consentire ai sindacati lagibilità nei posti di lavoro. Mentre per quanto riguarda il TFR cè ben poco da fare: lasciare tutto così comè, e se mai consentire al lavoratore la piena titolarità sulluso di questi soldi che, e bene non dimenticarlo mai, sono suoi.
Davanti a questi fatti occorre però un cambiamento profondo nellazione sindacale. Oggi siamo di fronte a una classe padronale che agisce sul piano europeo e tenta di portare a casa risultati che la mettano in condizioni di competere sul mercato mondiale nei confronti del capitalismo asiatico e nordamericano, e per fare questo fa uso di una struttura sovranazionale (la Commissione Europea) per mettere in atto un forte e generalizzato arretramento delle condizioni di vita dei lavoratori. Dallaltra parte ci sono i lavoratori che invece cercano, come sono capaci, e appoggiandosi sui sindacati che hanno, nelle singole realtà nazionali di opporre una parvenza di resistenza.
È logico, e giusto, che in ogni realtà nazionale ci debba essere una resistenza intransigente per difendere quello che è rimasto dello stato sociale e del potere contrattuale dei lavoratori; ma non è difficile prefigurare gli esiti finali di questi scontri ristretti ai perimetri nazionali. Così come ha già sperimentato il movimento no-global, anche i lavoratori devono rintuzzare lattacco dei padroni portato sul piano europeo, sullo stesso piano, e premere perché le organizzazioni sindacali si diano piattaforme e obbiettivi che possano essere condivisi dallinsieme dei lavoratori del continente per essere sostenuti con la lotta generale. Al di là di questo vi è solo la difesa, magari eroica, ma sicuramente fallimentare del proprio orticello.