Il referendum comincia a far paura.
Dalla
seconda metà di aprile il referendum sull'estensione dell'art.18 è
uscito dalle catacombe, e detta l'agenda politica della sinistra e dei sindacati.
REDS. Maggio 2003.
Il referendum per l'estensione dell'art.18 comincia a far paura. Non solo gran parte di coloro che andranno a votare, a sentire i sondaggi, hanno tutta l'intenzione di votare sì, ma secondo un'indagine Eurisko del 28 aprile (pubblicata su La Repubblica del 29 aprile) anche l'arma che il fronte del no si appresta ad usare (quella dell'astensione) sembra per ora sortire scarsi effetti: il 69% degli intervistati dichiara che andrà a votare (il 18% non ci andrà, senza opinione è il 13%). I media speravano di far annegare il referendum nel loro furbesco silenzio, ma la dinamica sociale scatenatasi negli ultimi due anni, pur in una congiuntura di momentaneo riflusso ma con la forza della sua inerzia, ha imposto il referendum come la questione sulla quale sindacati e partiti di sinistra devono misurarsi. Così i media hanno dovuto far buon viso a cattivo gioco e sono stati costretti, dalla fine di aprile a caricare i cannoni nel tentativo di influenzare gli stati maggiori della sinistra, in special modo la Cgil e i Ds.
Le forze che si schierano con la classe dominante, naturalmente, non hanno alcun problema a proclamarsi per il no. Più si sgolano e più par loro di acquisire crediti presso la classe che rappresentano. Il governo, per bocca di Maroni, gioca a fare lo spaccone promuovendo fantomatici comitati per il no e dando ad intendere che sono così sicuri di vincere che non ricorreranno all'astensione. Ma una misura ha tradito la loro fifa: la scelta di non accorpare il giorno del referendum con quello delle amministrative, in modo da assicurarsi che non troppa gente vada a votare. La Confindustria non ha tanta voglia di giochini, e dunque ha dato, il 30, indicazioni a favore dell'astensione in modo da impedire il raggiungimento del quorum. La posta è troppo alta, non hanno voglia di scherzare. Tito Boeri sulla prima pagina della Stampa, quotidiano della Fiat (29 aprile), arriva a proporre una specie di baratto per scongiurare il peggio: riconosce che in effetti subire un licenziamento in una ditta sotto i 15 dipendenti è una sciagura in un Paese dove il malcapitato ha diritto ad una contribuzione al massimo di 9 mesi (se ha più di 50 anni, e per di più con solo il 40% dello stipendio) e dunque "se non si affronterà il problema delle tutele dei lavoratori della piccola impresa il referendum con o senza quorum rischia di tradursi in una vittoria del sì che bloccherebbe nuovamente ogni sforzo riformatore per anni come già avvenuto col referendum del maggio 2000."
Si tratta di un tema dirimente, "di classe", e dunque ogni forza politica è tenuta a schierarsi con la classe sociale i cui interessi, almeno in teoria, politicamente dovrebbe esprimere. Così all'interno dell'Ulivo, la Margherita non ha alcun problema a collocarsi seccamente per il no (obiettivo da raggiungersi anche con l'astensione): i suoi voti non dipendono dai movimenti, dal sindacato, o da un voto anche vagamente motivato da ragioni di classe. Per questa "coraggiosa" posizione non paga alcun prezzo.
Diverso è il caso dei Ds. La base sociale dei Ds è costituita da gente che vota quel partito aspettandosi che faccia una politica "di sinistra". Il fatto che questa aspettativa sia sempre stata tradita, non ha molta importanza ai fini della determinazione dell'origine sociale dei partiti. Quel che conta è la motivazione soggettiva di chi li vota. Così quando i movimenti esistono e lottano i partiti di sinistra aumentano, perché vengono individuati come lo sbocco politico delle proprie mobilitazioni. Al contrario quando i partiti di sinistra risultano indistinguibili dalla destra vengono elettoralmente puniti. Così i Ds hanno perso nelle ultime politiche, perché i loro governi non avevano nulla di sinistra, ma hanno recuperato in occasione delle amministrative dell'anno scorso sull'onda del movimento a difesa dell'articolo 18.
Molti compagni della sinistra antagonista si meravigliano di questo strano effetto, ben sapendo quanto tiepida sia stata la posizione di Fassino e soci nei confronti delle lotte promosse dalla Cgil. Ma dobbiamo renderci conto che gran parte della gente non segue così da vicino la politica da avere perfettamente chiaro le differenze che esistono tra Fassino e Cofferati. E molti di quelli più informati preferiscono comunque, nonostante tutto, votare per chi è già consistente in modo da rafforzare il suo potere di negoziazione nei confronti della destra. Sbagliano, ovviamente, ma così pensano e così votano. Un fenomeno non nuovo che, se non compreso, rischia di creare fastidiose illusioni. Ricordiamoci che le lotte di inizio anni settanta promosse in gran parte dell'estrema sinistra portarono voti al Pci.
Il punto debole di Cofferati è proprio questo. Lui intende battere il gruppo dirigente diessino, ricostituendo una socialdemocrazia classica: dunque la sfida è sul terreno politico. Dato che è in minoranza nella struttura di partito, per dar battaglia sul terreno politico è costretto a reggersi sulla Cgil e sui movimenti. Ma il fatto di non disporre di un proprio autonomo apparato politico fa sì che ciò che lui guadagna politicamente sul terreno sociale, lo incameri il gruppo dirigente diessino in termini di voti, come avverrà con ogni probabilità in occasione delle prossime elezioni amministrative. Da un lato Cofferati non vuole un partitino del 5%, dall'altra proprio il non costituirlo lo indebolisce ogni giorno di più. La sua stella ha raggiunto il suo massimo splendore a gennaio quando a Firenze è stato "incoronato" da Moretti, ma da allora la vediamo appannarsi vieppiù. Se tende troppo la corda senza rompere coi Ds il merito dei risultati elettorali se li prenderà tutti Fassino, e rischia anche di favorire il Prc, del resto se fa la scissione ha paura di ritrovarsi con un pugno di mosche in mano. Di qui gli indugi e le mosse contraddittorie del "correntone". Per le quali comincia a pagare prezzi salati. Il comportamento parlamentare in occasione dell'invio dei carabinieri in Iraq è sintomatico: per il rifiuto di aderire ad una posizione chiara, è saltato uno dei "pezzi" del puzzle che pazientemente il settore Cofferati/Cgil/correntone aveva messo in piedi: Emergency si è sfilata. Un'altra mossetta di questo tipo e Cofferati non potrà più mettere piede in qualsiasi istanza di movimento. Sul sì Cofferati tentenna, in una divisione dei compiti con la Cgil incamminata verso il sì per ragioni che diremo dopo. Sul piano politico, dove si è collocato Cofferati, infatti, il sì costa molto di più che ad Epifani, è sul piano politico che Cofferati è schiacciato tra Fassino e il Prc. Come scrive Massimo Giannini su La Repubblica del 29 aprile in un articolo tutto teso a far pressione su Fassino perché assuma posizioni "nette": "Cofferati è prigioniero di questa contraddizione, che lui stesso ha propiziato e che Bertinotti gli ha rivolto contro, estremizzando con dissennata coerenza una forzatura ideologica. L'impiegato della Pirelli deve marcare a tutti i costi la sua distanza dal leader rifondatore. Ma se dice no al referendum sconfessa i suoi ultimi due anni di gestione della cgil. Se non dà indicazioni di voto indebolosce la sua immagine e si appiattisce su Fassino".
Del resto, proprio la consapevolezza che il suo successo elettorale dipende anche dal fatto di apparire come un partito che non è indifferente ai movimenti, spinge Fassino a mediare con Cofferati. Se Cofferati e la sinistra Ds uscissero dalla Quercia, risulterebbe plasticamente visibile anche agli occhi di quella massa di elettori che non seguono i fatti della politica che i Ds hanno rotto con la propria base sociale, e allora addio alla possibilità di risalire la china. L'area liberal dei Ds chiede proprio una accellerazione della scissione, perché, giustamente, individua in quel legame di classe subìto e non voluto, ma necessario per non affondare elettoralmente, il nodo che occorre dissolvere per trasformare definitivamente i Ds in un partito borghese tout court, unendosi alla Margherita. Un partito dunque che non sarebbe più tenuto a prendere in cosiderazione quel che dicono i movimenti, così come ai democratici Usa di quel che dicono i movimenti non importa un bel nulla.
Per questo i componenti della segreteria dei Ds, il 29, hanno deciso di prendere una posizione ufficiale solo dopo le amministrative, anche se nelle interviste ("il referendum è dannoso per i lavoratori per le imprese per il paese"), per far comprendere ai media e alla classe dominante che li possiede da che parte stanno, rilasciano interviste che non consentono alcun dubbio sul fatto che hanno tutta l'intenzione di far fallire il referendum. Stefano Folli sul Corriere della Sera del 29 aprile commenta: "la Quercia cerca di farsi trasparente da qui alle prossime settimane, è una linea asettica e minimalista sull'art.18 che sembra il modo per evitare guai peggiori. Ad esempio, una lotta intestina protratta per un mese e mezzo". Devono andarci coi piedi di piombo: secondo un sondaggio, tra i lettori dell'Unità Online, andrà votare sì il 56,4%, no il 11,7%, scheda bianca 5,6%, e non andrà a votare il 14,7%, deve ancora decidere l'11,6% (votanti: 2855, dal Manifesto del 29 aprile). Come si vede la posizione personale di Fassino (l'astensione), tra il suo elettorato è ultraminoritaria.
Il referendum sta dispiegando tutte le sue potenzialità di catalizzatore delle lotte degli ultimi due anni. Non era affatto scontato il sì della Cgil. Ma alla fine ha dovuto prendere posizione. Per una forte pressione dal basso (alla fine centinaia di rsu e strutture sindacali hanno preso posizione per il sì), ma anche perché per la Cgil oggi è vitale non rimanere socialmente isolata, ad esempio dai movimenti che si sono espressi nell'ultima fase. Paolo Nerozzi in una intervista sul Manifesto del 29 aprile: "non possiamo non confrontarci con i sentimenti delle persone con cui abbiamo fatto un pezzo importante di strada insieme. Una scelta diversa da parte nostra creerebbe lacerazioni e abbandoni, romperebbe il rapporto con tante ragazze e ragazzi."
Da parte del Prc sarebbe un grave errore se concepisse la campagna come una sorta di campagna di partito dove sventolare la propria bandiera ad ogni presidio e in ogni assemblea pubblica. Al Prc la campagna la stanno già facendo i media, quello sull'art.18 è già conosciuto come il "referendum di Bertinotti". Proprio al contrario il compito dei compagni del Prc è di allargare e di costituire comitati per il sì coinvolgendo le Rsu e accettando ovunque convenga di fare un passo indietro. L'interesse di partito in questo momento è molto semplice: sventolare poche bandiere, raggiungere il quorum.
Come sempre, quando il Corriere della Sera lancia una campagna contro qualcosa ingaggia alcuni killer della carta stampata, e tra questi il più cattivo è Francesco Merlo (uno di quelli che con la Fallaci strillava contro la devastazione di Firenze alla vigilia del social forum): come è rilassante vederli così preoccupati! Scrive: "Dicono che questo referendum sia come una bomba intelligente dentro la sinistra italiana dove quasi tutti vorrebbero votare no e tuttavia tutti votereanno sì per non farsi scavalcare a sinistra dal concorrente. E' tipico delle mischie: invece di seguire la palla, ciascuno segue il proprio uomo. Così Epifani segue Berlinguer che segue Cofferati che segue Fassino che segue Epifani mentre D'Alema raddoppia la marcatura su Fassino e tiene per la maglia Cofferati...e la palla indisturbata, direbbe Bruno Pizzul, minacciosamente si avvia a rete."
Ma sì, magari stavolta facciamo goal.