Art.18: forse è il caso che ci diamo una mossa.
Le
potenzialità ci sono, ma il ritmo della campagna è ancora al
di sotto del necessario e del possibile. Vediamo il perché e qualche
rimedio. REDS. 30 maggio 2003.
Gli attivisti che stanno portando avanti concretamente la campagna referendaria per l'art.18 non sono ancora abbastanza e abbastanza determinati, visto il silenzio mediatico e il crumiraggio del gruppo dirigente diessino. Vediamo il perché.
a. La Cgil è stata costretta a dire sì per una forte pressione che veniva dalle strutture territoriali, per i legami che ha instaurato con il movimento (noglobal/pacifista) e che non può permettersi di recidere (visto che è l'unico alleato che ha) ed anche per il timore che gran parte del merito del possibile buon risultato del sì, potrebbe andare al Prc. Ma è un sì che vale sino a un certo punto: chi sta dentro la Cgil sa che l'organizzazione non sta facendo assolutamente nulla per far vincere il sì. Sino ad oggi (30 maggio) ci risulta che la Cgil a livello nazionale non abbia distribuito alle strutture nemmeno un manifesto. Quando si è trattato di raccogliere i 5 milioni di firme nell'estate/autunno scorsi per la difesa dell'art.18, lì sì abbiamo visto la macchina in moto: burocrazie locali precettate, materiali, obiettivi da raggiungere. Non vediamo nulla di tutto ciò. I militanti della Cgil dunque è bene che non si siedano sulla legittima soddisfazione di aver schierato la propria organizzazione: ora bisogna metterla a lavorare, servono impegni, militanza, soldi, materiali.
b. I Ds, anche se formalmente prenderanno posizione dopo il ballottaggio, nei fatti stanno facendo campagna per l'astensione. I termini che i dirigenti diessini utilizzano più di frequente quando parlano del referendum è "calamità", "sciagura", e via delirando. Ad essi, come si sa, si è allineato Cofferati. Il danno che ha creato è enorme: forse non ha spostato molti attivisti dal sì all'astensione, ma quel che è peggio è che ha disorientato i militanti che avevano lui come punto di riferimento, e disorientandoli ha fatto sì che questi non si trasformassero in attivisti della campagna, raggiungendo i Comitati per il sì. Per questo si devono pensare iniziative ad hoc per creare contraddizioni tra i diessini, e in questo senso il sì della Cgil deve essere utilizzato con convinzione (a farlo non ci penseranno certo i dirigenti di quel sindacato).
c. Il movimento no global ha preso, nelle sue vaghe istanze, posizione per il sì, ma è un sì che ci pare assomigli sempre più, ogni giorno che passa, a quello della Cgil. Per varie ragioni le sue componenti si tengono alla larga da questo appuntamento, ne negano nei fatti la centralità e ciò per varie ragioni. In primo luogo si tratta di un movimento esterno al movimento operaio classico, e composto in larga parte da studenti e/o da classe media. A ciò si sommano le caratteristiche delle varie componenti. Parte dell'area disobbediente e di quella antagonista è più legata al discorso di lotta al lavoro precario, e qui e là emergono perplessità sulla necessità di dare battaglia per settori "garantiti". Diversi militanti dell'area cattolica farebbero di tutto per esprimere solidarietà agli operai del Bangladesh, ma appena si parla degli operai italiani sorvolano imbarazzati, riflesso di vecchi pregiudizi e della propria posizione di classe. Parte del sindacalismo di base non sta nei fatti facendo campagna, o per mancanza di forze, o per settarismo antiprc. In tutti i casi quel che è certo è che l'insieme del movimento per ora è fuori da questa battaglia, che invece sarebbe stata una formidabile occasione di incontro, nei Comitati per il Sì, tra due soggetti che si sono "incontrati" poche volte: operai sindacalizzati e noglobal. Abbiamo comunque due settimane per recuperare. Dobbiamo chiedere alle associazioni, ai social forum, ai coordinamenti locali di spendersi in prima persona, facendo conoscere pubblicamente il proprio orientamento.
d. Il Prc è l'organizzazione che sta reggendo la campagna. Allo stesso modo è stato il Prc a raccogliere gran parte delle firme (mezzo milione su 600 mila). Molto bene, ma pensiamo che, qui e là, ci siano degli aggiustamenti da apportare. Domandiamo: in questa fase della campagna è meglio fare la campagna come Prc o rafforzare l'iniziativa dei comitati per il Sì? Non abbiamo dubbi che è quest'ultima la cosa da farsi: ci pensano già i media a farci pubblicità dicendo che si tratta del referendum di Bertinotti, dobbiamo invece dimostrare che stiamo lottando per l'estensione di un diritto e che intorno a ciò riusciamo a coagulare un vasto arco di forze. Tra queste vi sono senz'altro le Rsu. Dato che è difficile raggiungerle via Cgil (perché nei fatti questa organizzazione non sta facendo campagna), è bene che i compagni del partito che sono delegati facciano di tutto per impegnare nei prossimi 15 giorni la propria Rsu a favore del referendum.
Questo è un referendum che si può vincere. Sappiamo che quando parliamo con la gente, questa è, in generale, a favore delle nostre argomentazioni, ma non sa che si vota il 15 e 16 giugno. E' dunque necessario un lavoro di informazione capillare. Le assemblee pubbliche dove viene solo la gente che è già d'accordo con noi, non servono più. Andavano bene prima, per motivare la militanza. Ora si deve convincere la gente. Bisogna riprendere l'abitudine di far politica nei quartieri e nelle fabbriche. Comunque vada, può essere un lascito positivo di questa campagna.