L'accordo sulla competitività.
Dopo il Patto per l’Italia, l’introduzione della riforma Biagi sul lavoro, il contratto dei metalmeccanici e prima della ormai imminente riforma delle pensioni, la Confindustria ottiene l’accordo di Cgil Cisl e Uil per ottenere dal Governo poderosi finanziamenti a sostegno della competitività del sistema produttivo italiano. I sindacati che si spaccano al momento di difendere gli interessi dei lavoratori, ritrovano l’unità quando in gioco ci sono gli iinteressi dei padroni. Di Duilio Felletti. Luglio 2003.


Il 19 giugno Confindustria e Sindacati hanno firmato "l’intesa per la competitività".

Dopo l’accordo separato per i Contratti a termine, il Patto per l’Italia, il contratto dei metalmeccanici , e infine il "sì" al referendum sull’articolo 18 e le due ore di sciopero già proclamate per la fine di settembre contro la riforma Biagi del lavoro, con questo accordo sembrerebbe che la Cgil voglia rientrare nell’orbita delle grandi trattative sui grandi temi nazionali, rimasti appannaggio delle sole Cisl e Uil.

In sostanza questo accordo chiude un periodo durato circa due anni in cui la Cgil ha voluto cavalcare i movimenti che si sono manifestati sui terreni della lotta per la pace e i diritti, nel tentativo di pesare politicamente e di condizionare le scelte che lo schieramento di centro sinistra andava maturando, e che tendevano a ghettizzare la Cgil, ivi compreso il suo pesante apparato burocratico.

Ora che l’appeal dei movimenti sembra spegnersi, il referendum è andato come è andato, il gruppo dirigente del centro sinistra (trovata la sistemazione per Cofferati), sembra avviato verso la riconquista di una maggiore credibiltà, la Cgil sembra voler ritornare a fare quello che ha sempre fatto: firmare accordi con le controparti esattamente come Cisl e Uil hanno continuato a fare.

Possiamo quindi dire che, firmando questo accordo, la Cgil ha inteso lanciare un segnale a Cisl e Uil di voler rientrare nel gioco della concertazione, e ricucire un percorso unitario.

La scarsa competitività del sistema Italia rappresenta l’elemento negativo per eccellenza che la Confindustria ha insistentemente denunciato in questi ultimi anni, anche con toni allarmati, ed è partendo da questa lamentazione che ha portato avanti le sue proposte di politica economica e sociale atte a portare fuori dalle secche l’economia italiana.

Queste proposte le conosciamo tutti: una riduzione del carico fiscale per le imprese, una riduzione dei costi dei contributi previdenziali che gravano sulle imprese, una maggiore flessibilità del mercato del lavoro, libertà di licenziamento, e disponibilità di risorse per nuovi investimenti e per la riduzione del costo del lavoro.

La riforma fiscale approvata dal Governo è stata una prima risposta alle esigenze dei padroni; poi è intervenuto il Patto per l’Italia a creare le condizioni di una maggiore flessibilità del lavoro e ad aprire la strada alla riforma Biagi, che con maggiore precisione ha definito come sarà nei prossimi anni il rapporto di lavoro e le nuove tipologie contrattuali; quindi è stata la volta del contratto dei metalmeccanici che ha rappresentato il veicolo con cui le riforme volute dal Governo e dalla parte più moderata del sindacato, sono state calate nei luoghi di lavoro; mentre per le pensioni è solo una questione di pochi mesi: giusto il tempo che serve alle forze politiche governative per trovare la quadra, e come minimo avremo un innalzamento dell’età pensionabile e pensioni più basse per i lavoratori che comunque decidessero di andarsene prima.

Per completare questo quadretto mancavano giusto i soldi per gli investimenti che, calati in questa nuova situazione, con una classe lavoratrice indebolita e fortemente ricattabile, dovrebbero ridare competitività al sistema industriale italiano e portarlo verso il perseguimento di livelli di profitto più elevati.

Quest’ultimo aspetto è affrontato nell’accordo sulla competitività firmato il 19 giugno. Ma vediamolo nei contenuti.

Va detto innanzi tutto che siamo di fronte ad un accordo che potremmo definire "strano".

La stranezza sta nel fatto che il risultato di questo accordo è sostanzialmente una piattaforma rivendicativa Confindustria-Sindacati da presentare al Governo con l’obbiettivo di battere cassa.

Non è accaduto che di fronte a una questione come la competitività i sindacati e la Confindustria si siano trovati su posizioni contrapposte, così come avviene normalmente in tutte le trattative su altre questioni, ma semplicemente hanno convenuto che il sitema delle imprese dovesse essere sostenuto da iniezioni di denaro governative per tentare di stare adeguatamente al passo con le imprese estere concorrenti, e per mietere nello stesso tempo un adeguato volume di profitti.

La storia del passato, remoto e recente, che ha visto l’espulsione di migliaia di lavoratori dalle fabbriche, per non parlare della chiusura di interi siti produttivi, e della riduzione in schiavitù di migliaia di giovani lavoratori assunti con contratti capestro e stipendi miserabili, i quattro morti al giorno sul lavoro, il tutto in nome della competitività, non hanno insegnato nulla ai burocrati di Cgil Cisl e Uil, che con grande candore sentono di doversi far carico di un’esigenza che è esclusivamente padronale.

L’illusione di poter contare di più nelle scelte di politica economica porterà i sindacati a fianco dei padroni a trattare con il Governo su questioni che è facile prevedere produrranno un ulteriore peggioramento delle condizioni dei lavoratori.

I capitoli su cui le proposte dell’intesa si snodano riguardano: la ricerca, la formazione, le infrastrutture e il mezzogiorno.

Sulla ricerca.

Ricerca scientifica (statale e/o privata) e strutture dove questa si sviluppa (Università e altro), vengono individuati come gli elementi da mettere in collegamento diretto con il sistema produttivo, al fine di renderene utilizzabili immediatamente i risultati, che in questo modo dovrebbero andare a implementare il progresso tecnologico e l’efficienza degli impianti produttivi.

E per favorire questo asservimento della scienza alle esigenze della competitività, si chiederà al Governo di semplificare al massimo i meccanismi che portano incentivi, non solo alle strutture, ma anche alle imprese che producendo, svilupperanno contemporaneamente processi di ricerca e/o intenderanno investire in innovazione tecnologica.

Si propone anche di non far pagare tasse sugli utili che i padroni decidono di investire in ricerca (si apre cioè una nuova strada per l’evasione fiscale legalizzata).

In relazione alla crescita del PIL, la spesa pubblica per la ricerca, tra il 2004 e il 2006 dovrebbe crescere di una cifra compresa tra i 6 e i 14 miliardi di euro, portandola al 3% del PIL.

Vi è anche la proposta di destinare l’otto per mille assegnato alla Stato, dell’imposta derivante dalla dichiarazione dei redditi di cittadini e imprese, a "progetti di ricerca di alto contenuto scientifico miranti al miglioramento della qualità della vita" (questa si commenta da sola).

Nel semestre italiano di presidenza europea si chiede che il Governo sostenga un’interpretazione del Patto di stabilità che escluda la spesa per la ricerca dal calcolo per l’indebitamento, così da non avere vincoli nei trasferimenti di questi finanziamenti nelle mani dei padroni.

La filosofia complessiva che comunque c’è dietro queste proposte, che sul documento sono ben articolate, è che lo Stato debba farsi finanziatore di progetti di ricerca e innovazione che devono portare il sistema delle imprese a ottenere un livello di eccellenza nelle tecnologie e nei processi produttivi privati, i quali poi ne intascherebbero gli utili.

In pratica lo schema non cambia: il pubblico spende e il privato incassa.

Non poteva mancare inoltre il federalismo della ricerca: cioè un meccanismo (ancora da inventare, ma già pensato) che dovrebbe elargire risorse in modo differenziato a seconda della regione o territorio, mantenendo così inalterati gli squilibri esistenti.

Sulla formazione

Partendo dalla constatazione che in Italia il livello della scolarizzazione è tra i più bassi d’Europa, Confindustria e Sindacati intendono proporsi come soggetti attivi per la crescita professionale e culturale dei lavoratori.

Le proposte che fanno sono volte a favorire un più facile inserimento nel mercato del lavoro sia dei giovani che degli ultra cinquantenni espulsi a causa di processi di ristrutturazione.

È ovvio che in una società a capitalismo avanzato, le aziende più competitive sono quelle che hanno il personale più preparato e polivalente.

Ciò aumenta l’efficienza del sistema e i livelli di produttività.

Ma l’esigenza di una più elevata formazione deriva soprattutto dal fatto che, nella nuova fase che si va a configurare, in cui il rapporto di lavoro è sempre più caratterizzato dalla precarietà, il lavoratore corre un rischio più elevato di essere licenziato o comunque estromesso per fine contratto dall’attività produttiva, per cui il possesso di una più elevata capacità professionale rende il lavoratore più facilmente collocabile in altre realtà, un suo utilizzo pressochè immediato senza lunghi periodi di addestramento, per poi espellerlo non appena non servisse più.

La via della formazione permanente rappresenta, quindi, secondo i proponenti, l’elemento che può aggirare la questione della difesa dei diritti; nel senso che il lavoratore licenziato ingiustamente, ma ben formato sul piano professionale, non andrà a pretendere l’applicazione dell’articolo 18, per ottenere la reintegra, ma semplicemente si cercherà un nuovo posto di lavoro che, a detta di questi, sicuramente troverà.

Da parte sua il padrone "licenziatore" troverà altrettanto facilmente un lavoratore preparato che fa al caso suo, poiché in giro se ne troveranno parecchi.

La formazione, quindi, dovrà garantire la possibilità dei datori di lavoro di poter scegliere rapidamente sulla piazza la tipologia esatta della mano d’opera di cui ha bisogno, e di avere a disposizione un ampia gamma di materiale umano usa e getta.

Ovvio che questo costa, e pertanto al governo si chiede di intervenire con massicci finanziamenti in questa nobile azione.

Persino le 150 ore conquistate negli anni 70 dai lavoratori che dovevano servire alla crescita culturale dei lavoratori, si propone che vengano utilizzate per la formazione professionale, e quindi anche questo spazio di tempo che in definitiva era per il lavoratore ora diventerà per il padrone.

In termini concreti si propone che per il 2010 l’85% dei giovani dovrà conseguire un diploma di istruzione o qualificazione professionale, mentre il tasso di partecipazione degli adulti alla formazione dovrà aumentare del 30% e il tasso di abbandono scolastico dovrà dimezzarsi.

Si chiede inoltre che il Governo dia adeguati incentivi alle aziende che intendono svolgere direttamente la funzione di formazione e che pertanto investono in questa direzione: tali aziende, rispetto alle attuali, dovranno essere il 30% in più.

Il tutto dovrebbe essere monitorato da "soggetti bilateriali" (strutture composte da sindacati e padroni e finanziate dal governo) che dovrebbero sorvegliare l’avanzamento di questo progetto.

Sulle infrastrutture

Le infrastrutture (strade, porti, linee energetiche, ecc…) rappresentano un elemento che dice in modo inconfutabile quanto il sistema è nel suo insieme competitivo.

Avere vie di comunicazione veloci ed efficienti, consente alle merci di raggiungere velocemente i mercati e generare immediatamente profitto, e grazie alla rapida realizzazione del profitto, è più semplice fare marciare la macchina dell’economia speditamente e con continuità.

La conquista dei mercati aviene quasi sempre a vantaggio di chi arriva prima, e da qui l’importanza della velocità di trasporto delle merci.

Lo stesso dicasi per la circolazione delle informazioni e l’accesso all’uso delle fonti energetiche.

Secondo il ragionamento di Confindustria e Sindacati, l’Italia, a causa della sua particolare posizione geografica, si trova collocata alla periferia dell’Europa, e pertanto la sua possibilità di giocare un ruolo di rilievo nell’economia europea è principalmente legata alla sua capacità di dotarsi di adeguate infrastrutture.

Ma è chiaro che la quantità di denaro da investire per dotare il territorio nazionale delle infrastrutture necessarie, è enorme; il soggetto principale è gioco forza lo Stato, il quale dovrà necessariamente stringere accordi e stipulare contratti con imprese costruttrici nei diversi campi, e compensare con adeguati sconti fiscali le imprese che intenderanno collaborare con il Governo in questa colossale impresa.

Nell’accordo si chiede che si intervenga con massicci investimenti per realizzare i corridoi autostradali che attraversando la penisola, mettano in comunicazione le varie zone europee, e raccordi che agevolino i transiti interni.

Si chiedono investimenti nell’alta velocità, per il completamento e l’ammodernamento dei porti marittimi e delle linee ferroviarie.

Si chiede la liberalizzazione delle tariffe dell’autotrasporto, e il rafforzamento e ammodernamento delle reti energetiche e una drastica riduzione dei costi per l’accesso alle reti di comunicazione elettronica.

Insomma, tutto ciò che serve per non complicare la vita ai padroni.

Sul Mezzogiorno

Le organizzazioni che hanno firmato questo accordo dichiarano di essere convinte che l’integrazione vera dell’Italia nel contesto europeo debba necessariamente prevedere l’uscita dalle secche del sottosviluppo del Sud.

Il Sud inoltre riveste un carattere strategico ai fini della prossima creazione nel 2010 dell’Area di scambio mediterraneo, che dovrebbe collegare l’Europa con i paesi del Nord-Africa e del Medio Oriente.

Come si può ben intuire, i tempi non sono molto lunghi, e pertanto quello che sollecita è una accellerata decisa negli interventi, studiati apposta per il Mezzogiorno, ma che fino ad ora hanno arrancato, producendo risultati deludenti rispetto le aspettative.

Il documento vuole inoltre sollecitare il Governo a fare presto, perché quando tra qualche anno l’Europa dei 15 diventerà dei 25 accadrà inevitabilmente che il grosso dei finanziamenti europei a favore delle aree disagiate andranno in gran parte ai Paesi dell’ex blocco dell’Est, e per il Sud Italia resterà ben poco.

Il Governo dovrebbe quindi, anche utilizzando le opportunità che gli sono date dalla presidenza di turno della UE , fare presto, e creare le condizioni perchè nel Mezzogiorno vadano ad approdare masse considerevoli di capitali da investimento.

Il Governo dovrebbe approvare i provvedimenti necessari per fare in modo che chi investirà nei prossimi anni nelle aree del sud abbia interessanti vantaggi fiscali.

E quando si parla di vantaggi fiscali si parla veramente di tutto: dagli incentivi alle nuove assunzioni (premi ai padroni per i nuovi assunti), sconti sui mancati versamenti dei contributi sui lavoratori tenuti in nero, finanziamenti per corsi di formazione, finanziamenti a imprese che si fanno carico della costruzione di infrastrutture, finanziamenti per l’acquisto di impianti e mezzi di produzione, e acceso rapido al credito senza troppe pastoie burocratiche.

Da parte sua i Sindacati offrono ampie possibilità per la creazione di zone, e per tempi definiti, dove anche le questioni contrattuali possano in qualche modo venire eluse; in pratica, i lavoratori possono anche guadagnare di meno.

La filosofia dell’attrazione degli investimenti non deve trovare ostacoli.

Alcune considerazioni per concludere

Ciò che salta immediatamente all’occhio da una lettura dell’accordo, è che non vi sono riportati dei contenuti misurabili, sia in termini quantitativi che temporali; sembra più una dichiarazione politica che le parti hanno liberamente fatto, come a voler indicare la direzione strategica entro cui nei prossimi anni sviluppare le proprie iniziative.

Niente di tutto cò è stato discusso tra i lavoratori, e niente di tutto ciò verrà sottoposto a referendum.

È facile prevedere quindi che i prossimi contratti e/o i prossimi accordi concertativi dovranno necessariamente essere dentro questa cornice.

È emblematico, ad esempio, il fatto che proprio in questi ultimi giorni (quindi dopo la firma di questo accordo) si stia già parlando di una revisione dell’accordo del 1993 sulla politica dei redditi.

Sembra quasi addirittura che anche lo stesso Patto per l’Italia sia un ferro vecchio già superato da questo accordo sulla competitività.

Un’altra questione.

Non è trascurabile il fatto che qui vi sia anche la firma della Cgil.

Ovviamente la Cgil ha dichiarato di voler mantenere la sua autonomia nel rapporto con il Governo; ma noi pensiamo che i vincoli (seppur generali) posti da questa intesa limiteranno non poco il suo raggio d’azione.

Come potrà la Cgil creare un collegamento tra le dure lotte fatte in difesa dei diritti per tutti i lavoratori, a prescindere dal contesto sociale e produttivo in cui questi operano, e la linea di adegamneto alle esigenze del capitalista di maggior sfruttamento del lavoro, della sua precarizzazione, e del sottopagamento del lavoratore in nome della competitività?

Un’ultima cosa sulla questione della competitività.

I padroni di tutto il mondo perseguono la massimizzazione dei propri profitti cercando di essere competitivi; cercando cioè di ridurre i costi di produzione, aumentando la produttività e lo sfruttamento dei lavoratori.

Da che mondo è mondo i lavoratori e i sindacati, nelle loro lotte hanno sempre teso ad andare in controtendenza cercando, con richieste di aumenti salariali e di riduzione del tempo di lavoro, di ostacolare il padrone nei suoi intendimenti.

I lavoratori hanno sempre cercato di mettere in campo e contemporaneamente il massimo delle proprie forze nel tentativo di dare il massimo dell’efficacia alle proprie iniziative; per questo motivo hanno sempre difeso la validità politica dei contratti nazionali come momenti in cui spostare in proprio favore i rapporti di forza.

I lavoratori non hanno mai preso in considerazione le esigenze di competitività del proprio padrone, quanto invece i propri interessi e bisogni di classe.

I sindacati invece hanno sempre cercato di tenere il piede in due scarpe: difendere la competitività e, nello stesso tempo, difendere gli interessi dei lavoratori, cercando i migliori punti di mediazione.

È chiaro che nelle fasi di espasione economica, dove quindi per i padroni non è difficile conquistare nuovi mercati, la linea sindacale può avere (ed ha avuto) un certo successo; ma quando i mercati sono saturi o sono invasi da merci a basso prezzo (come in questa fase di globalizzazione dell’economia), non vi è più la possibilità di difendere i lavoratori e la competitività delle aziende: o si fa una cosa o si fa l’altra.

Viene facile la tentazione di difendere la competitività del nostro sistema (ed è quello che stanno facendo Cgil, Cisl e Uil), ma così facendo è come fare una guerra in cui c’è chi vince e c’è chi perde: e chi perde sono altre aziende non competitive che chiuderanno e lasceranno quindi a casa migliaia di lavoratori.

È emblematico il caso del settore auto, in cui i grandi gruppi sono in eterna concorrenza tra loro per conquistare fette sempre maggiori di mercato, e il metodo che usano è quello della riduzione costante e continua del numero dei lavoratori, per poter intensificare il livello di sfruttamento di quelli che restano.

Pensiamo di non esagerare se affermiamo che fare proprio l’obiettivo della difesa della propria competitività significa implicitamente mettere in conto licenziamenti in qualche altra parte del mondo.

E un sindacato che dice di voler difendere i diritti di tutti i lavoratori, e di volere battersi per l’unità di classe non può essere dentro questa filosofia.

Non può un sindacato, degno di questo nome, distinguesi e dividersi da altri sindacati che non intendono in modo intransidente difendere gli interessi dei lavoratori, per poi trovare momenti di unità quando si tratta di tutelare gli interessi dei padroni.