Ancora sulle pensioni.
Il governo vuole accorciare il periodo, definito dalla legge Dini, al fondo del quale vi è l'affossamento delle pensini di anzianità. Un'analisi delle proposte in campo, l'atteggiamento della Lega e le debolezze e i tentennamenti del sindacato. Di Duilio Felletti. Settembre 2003.


In queste settimane il governo intende procedere con decisione a una riforma del sistema pensionistico, con l'obbiettivo dichiarato di rendere meno costoso e più competitivo il sistema economico e produttivo italiano.

Da sempre infatti i padroni insistono per una drastica riduzione della contribuzione che sono tenuti a versare alle casse dell’INPS per garantire questo sistema pensionistico, e mettono in stretto collegamento le difficoltà del sistema industriale italiano rispetto la concorrenza, con i gravosi costi degli oneri sociali.

Sovente i vari governi che si sono succeduti, in presenza di crisi aziendali, o per favorire la crescita occupazionale, hanno mostrato sensibilità rispetto i piagnistei di lorsignori, e tramite leggine e decreti vari hanno fatto sconti riversando sulla fiscalità generale i minori introiti nelle casse dell'INPS.

Oggi per ogni lavoratore dipendente le imprese versano all’istituto una quota pari al 32,7% del salario; in pratica per ogni 100 euro circa 9 vengono trattenuti dalle buste paga e i rimanenti 23,7 vengono versati direttamente dal padrone.

In questa fase di esasperazione della competitività tra le grandi multinazionali, e di globalizzazione dei mercati, l'argomento delle pensioni è un problema da risolvere sul tavolo di tutti i governi europei, i quali a loro volta, devono stare attenti di non rompersi le corna nello scontro con i sindacati come accadde nel 94 al primo governo Berlusconi.

La parola d'ordine è quindi che "nulla si fa senza un accordo con le parti sociali" .

Analizzando i contenuti delle proposte in discussione, vedremo anche come le diverse forze politiche cercano di agire, e come cercano di evitare che vengano approvati provvedimenti che vadano a danneggiare le rispettive basi elettorali, in quanto è matematicamente accertato che quando un partito, di destra o di sinistra, si fa portatore, su questo terreno di proposte sospette e impopolari, ha un immediato contraccolpo sul piano elettorale.

Vediamo ad esempio AN e l'UDC che cercano di difendere le pensioni degli statali, mentre la Lega Nord vorrebbe non modificare il sistema di pensionamento di anzianità, visto che il grosso di questo tipo di pensioni è al nord, e vorrebbe invece colpire le pensioni di invalidità che sono (dicono loro) concentrate nel sud.

I DS, i quali sono già stati scottati sul piano elettorale quando, dal governo, annunciarono di voler modificare le pensioni, chiedono di procedere non intaccando i diritti acquisiti e di inserire la questione delle pensioni in un discorso più ampio di riforma dello stato sociale.

La Margherita chiede semplicemente un rapporto più stretto con i sindacati.

Quindi, a parte le sinistre comunista e verde, che non vorrebbero modificare niente, ma che obbiettivamente esercitano un peso assai scarso nelle decisioni che contano, non vi è, sul piano istituzionale, una seria opposizione ai provvedimenti impopolari che il governo si prepara a varare, ma non vi è nemmeno da parte di nessuno un pieno appoggio.

C'è una forma di attendismo per vedere chi farà la prima mossa su cui, poi, scaricare il peso di tutte le responsabilità

Anche i sindacati si sono detti contrari a modifiche peggiorative ma nello stesso tempo hanno dato la propria disponibilità a sedersi al tavolo quando il governo avrà articolato una proposta organica di riforma.

Gli unici che non hanno problemi di tipo elettorale sono i padroni, i quali dalle colonne del sole24ore, da mesi portano avanti una campagna martellante sulla questione delle pensioni, cercando di spingere il governo a essere determinato, di agire in fretta, e di non temere lo scontro con i sindacati.

Per loro infatti, una volta portata a buon fine una riforma che ritengono vantaggiosa, se poi cade questo governo e se ne forma un altro, a loro proprio non importa nulla.

Ma vediamo nei contenuti le proposte che nei prossimi giorni saranno al centro del dibattito politico e sindacale, cercando da parte nostra di mettere in luce gli elementi che, andranno a peggiorare quello che è rimasto del sistema pensionistico.

Vi è innanzi tutto le questioni della pensione di anzianità e dell'età pensionabile.

Anzianità

Come quasi tutti i lavoratori sanno, si accede a questo tipo di pensione dopo che si è lavorato 35 anni. Prima della riforma Dini del 1995 non era fissata un'età; pertanto accadeva che se un lavoratore aveva cominciato a lavorare a 15 anni, a 50 anni aveva diritto alla pensione.

Con la riforma Dini (appoggiata anche dai sindacati, compresa la Cgil di Cofferati) si è stabilito che non basta aver lavorato 35 anni ma occorre avere anche una certa età, che all'epoca era stata fissata in 52 anni, ma che nel 2008, gradualmente, sarà a 57 anni, e il periodo necessario per l'anzianità sarà di 40 anni.

Oggi siamo nella fase del percorso in cui l'assegno di anzianità spetta a chi è in possesso di 35 anni di contributi e 55 anni di età (56 dal 2004), fermo restando la pensione assicurata, al dilà dell'età, con 37 anni di contributi.

Questo sistema però resta in vigore finché ci saranno lavoratori che hanno iniziato la loro attività prima della fine del 1995, quindi nel tempo, oltre che peggiorare, la pensione di anzianità scomparirà proprio, e quindi la tanto decantata riforma Dini ha semplicemente costruito un percorso che alla fine prevede l'abolizione sostanziale della pensione di anzianità.

Il Governo e i padroni sostengono che bisogna porre fine a questo meccanismo che a loro dire consente il pensionamento anticipato; e se a questo si aggiunge che gli anziani si sono messi in testa di non morire in tempi ragionevoli, i costi per l'INPS stanno diventando insostenibili.

Propongono quindi di spostare il 2008 (anno di piena attuazione della riforma Dini) al 2005.

Questo meccanismo è invece difeso così com'è dalla Lega e dal ministro Maroni, e ovviamente dai sindacati.

La Lega lo fa innanzi tutto per motivi propagandistici: sostenendo che il grosso delle pensioni di anzianità sono al nord (1778600 su un totale di 2592600: quasi il 70%), arriva alla conclusione che non è giusto che il popolo padano debba subire questo ulteriore affronto da Roma ladrona.

Vi sono però anche delle ragioni politiche tutte interne al suo progetto di devolution: ciò che la Lega ha in mente è in definitiva una sorta di federalismo dello stato sociale, in cui solo nelle situazioni territoriali in cui la produzione di reddito e profitto marciano secondo certi ritmi, vi deve essere uno stato sociale (e di pensioni) coerente e adeguato. In pratica la Lega si chiede: per quale motivo il ricco nord che si può permettere di avere anche le pensioni di anzianità , vi debba rinunciare?? Portiamo quindi a termine prima il percorso di riforme sul federalismo, e solo dopo avere evidenziato le situazioni in cui le pensioni di anzianità non possono reggere, sarà un problema di quelle situazioni decidere di abolirle o modificarle.

Un bel calcio quindi a qualsiasi forma di solidarietà sia tra le generazioni, sia tra le diverse realtà territoriali.

Per quanto riguarda invece i sindacati, la linea è quella di non toccare nulla e di lasciare fare al tempo; nel 2008, con la necessità di 40 anni di contributi, e con l’inevitabilità del pensionamento a 60 anni, le pensioni di anzianità scompariranno, come abbiamo detto, per vie "naturali" senza colpo ferire.

Ciò che quindi chiedono al governo è semplicemente di occuparsi di altre priorità del tipo: sviluppo, occupazione, ecc.

Quindi con grande disappunto dei padroni che se potessero abolirebbero quello che resta delle pensioni di anzianità domani, il governo sta studiando un semiblocco delle finestre di uscita, riducendole dalle quattro attuali a due o una all'anno, giusto per posticipare di almeno 6/8 mesi le fuoruscite dei lavoratori. Inoltre spera di convincere Maroni ad anticipare l’attuazione piena della legge Dini al 2006 o al 2007.

Età pensionabile

Proprio per il fatto che comunque oggi è possibile andare in pensione con meno di 60 anni, e in via teorica anche dopo il 2008, il governo vorrebbe portare gradualmente, dal 2005 l'età minima di pensionamento da 57 a 60 anni (o anche 62) entro il 2007-2008.

Sembra che su questo argomento vi sia stato un intervento diretto di Berlusconi, che, seminando lo scompiglio tra i suoi stessi alleati, ha proposto di andare all'innalzamento del limite minimo dell'età di pensionamento di 5 anni (da 57 a 62 per le pensioni di anzianità, e da 60 a 65 per le pensioni di vecchiaia)

Le casse dell'INPS ne avrebbero un giovamento semplicemente perché il pensionato si troverebbe ad avere meno tempo da vivere in pensione, avendone trascorso di più lavorando.

Ma come si può ben vedere non toccando nulla nei meccanismi dell'anzianità questo provvedimento è destinato a non avere successo.

Questa proposta è comunque da combattere con azioni di lotta, sia perché ha l'obbiettivo di anticipare la condizione prevista per le pensioni di anzianità nel 2008, sia perché è volta ad aprire la strada ad un ulteriore innalzamento dell'età pensionabile a 62 anni.

I problema su cui però si sta discutendo è se rendere obbligatorio o facoltativo l'andare in pensione posticipata rispetto i termini dell'anzianità; ed è qui che si innesca tutta la polemica sugli incentivi a restare al lavoro e sui disincentivi ad andare in pensione.

Incentivi

Per convincere a ritardare la pensione quei lavoratori che, compiuti i 57 anni, e con alle spalle 35 anni di lavoro, non vogliono sentire ragioni e vogliono andarsene, Maroni vorrebbe introdurre un bonus del 30-32,7% del salario direttamente in busta paga.

Questa aliquota, come abbiamo spiegato sopra, corrisponde all'intero ammontare della contribuzione previdenziale attuale.

Diciamo subito che questa proposta piace ai sindacati, perché non obbligherebbe nessuno a restare al lavoro, e l'accesso all'incentivazione sarebbe solo su base volontaria.

A nostro avviso però la strada degli incentivi presenta dei pericoli seri per i lavoratori.

Innanzi tutto va detto che l'aumento in busta paga al netto delle tasse si decurta di un terzo e pertanto i vantaggi non saranno quelli che vengono dipinti.

In secondo luogo si apre la strada a un processo di trasferimento dei contributi in busta paga che lasciati nelle mani del lavoratore potrebbero essere utilizzati per andare ad alimentare fondi privati e dare quindi un poderoso impulso alla privatizzazione delle previdenza.

Vi è un’altra questione da non sottovalutare e che ho giustamente sollevato la Cgil.

Ci riferiamo al fatto che nel periodo in cui il lavoratore presterà attività con lo stipendio "incentivato" non si determinerà un aumento della pensione.

Si affermerà quindi il principio secondo cui non è detto che un periodo di lavoro più lungo porti a una pensione più pesante.

Nonostante questi elementi chiaramente negativi, come dicevamo, i sindacati si sono detti disponibili a discuterne, e agitano come argomento forza il fatto che comunque nessuno sarà obbligato ad accedere al meccanismo dell’incentivazione.

Ma anche questo argomento è assai fragile: un aumento netto del 20% resta comunque un fatto ghiotto in una situazione in cui i salari vengono continuamente erosi e (come insegna il contratto dei metalmeccanici) non sono sufficientemente tutelati da un sistema di contrattazione adeguato.

C’è da aggiungere che i padroni non sono molto entusiasti nei confronti dell’idea degli incentivi, in quanto per loro non vi sarebbe nessun vantaggio sul piano dei costi, e inoltre non potrebbero decidere loro chi tenere a lavorare e chi invece espellere: dovrebbero semplicemente prendere atto della scelta del lavoratore di restare e pagare a lui e non all’INPS i contributi.

I padroni preferirebbero invece che si attuasse una polita di disincentivo all’uscita, da questi ritenuta più efficace.

Disincentivi

Si tratta di penalizzare i lavoratori che decidono di andare in pensione senza avere compiuto gli anni che il governo andrà a decidere (60 anni).

Sono tre le ipotesi allo studio:

Una penalizzazione progressiva per ridurre l'assegno delle pensioni di anzianità: cioè prevedere un coefficiente di correzione al ribasso della pensione, tanto più alto quanto più è ampio il periodo dall’andata in pensione al compimento dei 60 anni;

L'introduzione di un contributo di solidarietà su tutti i trattamenti anticipati: cioè trattenere dalla pensione un quantitativo di denaro da destinare a non si sa bene che cosa (una specie di tassa aggiuntiva);

L'applicazione del metodo contributivo puro per il calcolo della pensione: cioè calcolare l’importo della pensione sulla base dei contributi versati e non in percentuale sugli ultimi stipendi percepiti.

Come si può vedere, senza la necessità di troppi commenti, la strada dei disincentivi è quanto di più odioso si possa immaginare e pertanto deve vedere l’opposizione più determinata dei lavoratori.

I sindacati sono compatti nel rifiutare questa proposta, ma è quella su cui il governo e i padroni stanno puntando con determinazione, mettendola in campo come contropartita che i sindacati dovrebbero cedere in cambio dell’ottenimento degli incentivi.

Ma vediamo in particolare la questione (che è quella più gettonata, anche da Maroni) del calcolo della pensione su base contributiva.

Contributivo

Come abbiamo detto, calcolare la pensione col metodo contributivo, significa prendere a riferimento non gli anni di lavoro e gli ultimi stipendi percepiti, bensì il volume dei contributi versati nell’intera vita lavorativa.

Si tratterebbe di considerare i contributi versati come una sorta di risparmio forzoso da cui dopo un certo numero di anni il lavoratore ne trae una rendita.

Questo metodo è quello usato dalle compagnie private.

La diretta conseguenza di questo meccanismo è che la pensione di ogni singolo lavoratore sarà pagata dai suoi stessi contributi e cesserebbe quindi quel famoso patto tra generazioni che ha retto fino ad oggi il nostro sistema previdenziale secondo cui chi oggi lavora, con i propri contributi paga la pensione di chi non lavora più, e questo a sua volta sarà mantenuto da coloro che in seguito entreranno nel mondo del lavoro.

Con il contributivo ogni lavoratore si preoccuperà solo di come i propri soldi verranno impiegati dalla compagnia di assicurazione, al fine di avere poi la rendita più alta possibile.

Vi è però un altro aspetto da non trascurare, ed è che le pensioni calcolate in questo modo saranno praticamente la metà di quelle attuali.

Dal 1° gennaio 1996 la riforma Dini ha introdotto (sempre con l’approvazione dei sindacati) il metodo di calcolo contributivo per i trattamenti dei neoassunti, e un calcolo misto (contributivi/retributivo) per chi, all'epoca, aveva maturato non più di 18 anni di contributi.

L’introduzione del metodo contributivo, così come il governo vorrebbe fare da subito per coloro che hanno meno di 30 anni di contributi (prima si diceva per tutti), è quindi un poderoso strumento dissuasivo all’andata in pensione, tant’è che si è arrivati a parlare apertamente anche di abolizione del principio di età pensionabile: il lavoratore andrà in pensione nel momento in cui stabilirà che la rendita del suo capitale accumulato sarà sufficientemente adeguata.

Vi è da dire inoltre che quando si era pensato all’introduzione del contributivo i sindacati e il governo pensavano che i lavoratori sarebbero corsi ai ripari costituendosi delle pensioni integrative, cercando a loro volta di favorire la cosa consentendo nelle fabbriche la formazione di questi fondi, alimentandoli innanzi tutto con gli accantonamenti del TFR.

Si è visto però che questa operazione non ha avuto un grande successo, sia per la diffidenza dei lavoratori sia per le resistenze dei padroni che non intendono tutt’oggi rinunciare a questa fonte di autofinanziamento a interessi zero, e il tutto pertanto sta andando a rilento.

Quando alla televisione sentiamo che l’introduzione del contributivo deve andare di pari passo alla crescita delle pensioni integrative significa proprio questo: in pratica il nostro ci dice: "come faccio a ridurvi la pensione a livelli miserabili se voi non vi attivate per farvene un’altra per conto vostro??"

E qui si innescano le varie proposte sull’uso dei TFR e sulla decontribuzione contenuta nella legge delega così strenuamente difesa da Maroni.

Tfr e fondi pensione

La questione del TFR da versare sui fondi pensione può essere riassunta in due punti.

Come favorire questo trasferimento di denaro sui fondi pensione?

Come risarcire i padroni per la non più disponibilità di questo fondo di autofinanziamento?

Alla prima domanda il ministro Maroni da una risposta secca: i lavoratori saranno obbligati a farsi un fondo integrativo versandovi l’intero TFR che andrà a maturare.

I sindacati però la pensano in modo diverso e sostengono che la cosa deve essere volontaria, e sono disponibili ad accettare il principio del silenzio assenso (cioè se il lavoratore non dice nulla, vuol dire che è d’accordo).

E questo sarà argomento di trattativa.

Per quanto ci riguarda pensiamo che, trattandosi di soldi dei lavoratori, debbano essere essi stessi a decidere in merito, magari con un bel referendum: si potrebbe in questo modo avere veramente il polso di come la pensano i lavoratori sui fondi pensione e su altre amenità del genere.

Per quanto riguarda invece il risarcimento ai padroni la proposta è quella della decontribuzione.

Decontribuzione

I tecnici del governo hano calcolato in un 3% l’interesse che i padroni dovranno alle banche per accedere al credito non avendo più a disposizione i soldi dei TFR dei lavoratori.

La delega del governo prevede quindi una decontribuzione di tre punti sui neo-assunti. Cioè i padroni che assumeranno nuovi lavoratori pagheranno all’INPS il 29,7% (di cui l’8 da trattenere dalle buste paga) del salario e non più il 32,7; questo, in via sperimentale per 4/5 anni e dopo si vedrà…

I soldi che l’INPS incasserà in meno dovranno essere dati dal fisco.

Ma qui sorgono alcuni problemi a cui nessuno è ancora riuscito a dare risposte sensate.

Se la fiscalità generale dovrà coprire il buco che si creerà nelle casse dell’INPS, ciò significa che vi sarà un aumento delle tasse, e non una diminuzione come il governo continua a promettere.

È più logico pensare che non vi sarà alcuna copertura e di conseguenza sarà inevitabile ridurre il valore delle pensioni che percepiranno quei lavoratori.

I tecnici del governo stanno però anche lavorando per studiare un meccanismo di detassazione delle pensioni integrative che dovrebbero in questo modo compensare il minor valore delle pensioni pubbliche (giusto per semplificare ancora di più le cose…)

Anche su questa proposta i sindacati hanno manifestato contrarietà, al punto di minacciare lo sciopero. Vedremo.

Alcune conclusioni

Quelle che abbiamo riportato sono le proposte che hanno costituito il tormentone dell’estate, e che più che altro sono servite ai vari big della politca a far scoperchiare le carte agli altri; i veri giochi si stanno facendo in questi giorni in riunioni che il governo sta tenendo in luoghi più o meno segreti.

Quali saranno quindi le proposte che verranno presentate ai sindacati è obbiettivamente difficile oggi poterlo dire con certezza.

Si può sicuramente dire quali saranno gli argomenti che verranno toccati, e questo dovrebbe essere sufficiente per i lavoratori per cominciare ad affilare le armi.

Si vuole sicuramente ridurre i tempi di attuazione della riforma Dini.

Si vuole alzare l’età pensionabile.

Si vuole incentivare i lavoratori a non andare in pensione, e li si vuole disincentivare ad andarsene.

Si vuole obbligare i lavoratori a farsi una pensione integrativa privata.

Come si vede c’è molta carne al fuoco, e per questo sarebbe opportuno che tra i lavoratori se ne parlasse, proprio per fare in modo che chi va a trattare lo faccia con un mandato preciso e verificabile.

E poi la lotta, quella serve sempre.