Nuovo scandalo, vecchi
sistemi.
Il
crack Parmalat dimostra non i limiti del sistema Italia, ma quelli del sistema
capitalista. Di Maurizio Attanasi. Gennaio 2003.
E
due ….
Dicembre duemilatre ci consegna un nuovo crack finanziario tutto italiano.
La Parmalat di Calisto Tanzi, (patron anche del Parma calcio) percorre lo
stesso cammino tracciato dalla Cirio di Sergio Cragnotti (proprietario della
S.S Lazio) qualche mese fa.
La Parmalat, società multinazionale (ha sedi e stabilimenti in quasi
tutti i continenti) non ha vissuto momenti difficili da un punto di vista
produttivo o industriale; il crack nasce, si sviluppa nelle stanze del managment
e sui libri contabili provocando poi i suoi devastanti effetti.
Non ci interessa entrare nei dettagli di questi due crack, di vedere cioè
le scatole cinesi create in paradisi fiscali come le Cayman o le Barbados;
non ci interessa il modo con cui questi gruppi si finanziavano ricorrendo
alle banche o sul mercato, di come i controlli esterni hanno funzionato male
o non hanno funzionato per nulla.
Ci preme inserire questi ultimi episodi che si sono verificati in Italia nel
quadro più generale del sistema economico in cui viviamo: quello capitalista.
Sulla vicenda Parmalat si è “giocato” e si “gioca”
sulla pelle dei risparmiatori (i lavoratori che hanno sudatamente messo da
parte i risparmi e che cercano di farli fruttare) e dei lavoratori (che spesso
sono risparmiatori mancati a causa dei meccanismi della società in
cui viviamo, vedasi rapporto salario – prezzi dei beni di consumo).
Per Parmalat, cosi come accadde per Cirio, si sono precipitati anche i politici,
forse con qualche secondo fine. Ed ecco allora lo scontro su chi non ha controllato,
sui ruoli delle istituzioni sul loro malfunzionamento, sulla loro “necessaria”
riforma. Tutte parole per celare uno scontro che ormai va avanti da tempo
e che vede in campo da una parte il governatore di bankitalia Fazio e dall’altra
il superministro dell’economia Tremonti.
In questo scontro è stato trascinato a pieno titolo un terzo attore,
una figura di primo piano nel mondo del credito: quel Cesare Geronzi presidente
del gruppo Bancario Capitalia (leggasi Banca di Roma e Banco di Sicilia tra
gli altri) che nelle scorse settimane ha ricevuto un avviso di garanzia relativa
alla vicenda dei bond Cirio (Corriere della Sera 5/12/2003) e che sedeva nel
Consiglio di Amministrazione di Capitalia proprio con Calisto Tanzi verso
cui il gruppo bancario romano che presiede risulta esposto per diversi miliardi
ed era uno dei maggiori referenti del già collassato gruppo Cirio (non
ultimo è stato uno degli attori del salvataggio della squadra di calcio
Lazio, anche questa di proprietà di Cragnotti)
Nei giorni nerissimi del crack Parmalat il titolo del gruppo bancario capitolino
ha perso diversi punti percentuali – ad esempio il 4% l’8 dicembre,
anche se erano tutti i titoli delle banche coinvolte nella vicenda a subire
consistenti ribassi.
Lo scoppio di questo nuovo bubbone ha spinto i “soliti” esperti,
che avevano già pontificato sul crollo della Cirio, a ribadire le loro
argomentazioni in base alle quali l’unico vero problema è quello
del malfunzionamento del sistema dei controlli.
“Il sistema funziona ma ci sono le solite mele marce che cercano di
fare i furbi”, “il sistema è ottimo occorre perfezionare
i controlli” (vedi articolo di Cassese sul Corriere della Sera del 22/12/2003).
Ma in realtà forse non è cosi. Come ha scritto anche l’economista
Salvati sul Corriere della Sera del 22/12/2003, se esiste la possibilità
di creare società collegate ad una capogruppo in paradisi fiscali è
ovvio che il sistema compie scientemente una scelta. Non sono stati “furbissimo”
Tanzi, Cragnotti o gli amici di oltre oceano a scovare questo trucchetto:
è semplicemente una possibilità prevista dal sistema.
Giuseppe Turani, su la Repubblica del 23 dicembre, parlando di lacune, omissioni
e impedimenti burocratici nelle file dei controllori, alla fine ammette che
“truffe come quelle scoperte nei casi Cirio e Parmalat sono difficilmente
individuabili dall’esterno, da chi si trova fuori della società”;
crolla, quindi il mito del sistema che da solo riesce ad individuare le distorsioni
e a correggerle.
Potenziamo allora i controlli interni?
Ma nelle vicende precedentemente citate il managmanet è stato forse
danneggiato? Che interesse avrebbe una società che vive per anni di
carte false per accrescere le proprie fortune (cosi come sembrerebbe emergere
dalle prime ammissioni del patron della Parmalat, vedi Corriere della Sera
del 31/12/2003) ad effettuare controlli severi che la danneggerebbero e la
farebbero uscire dal mercato, perdendo quindi parte o tutto il profitto?
Vari opinionisti hanno comparato ed esaminato le diverse misure repressive
adottate da due paesi capitalisti diversi: l’Italia e gli Usa. Tutti
hanno sottolineato come gli americani abbiano aumentato le sanzioni e come
invece in Italia si sia depenalizzato il falso in bilancio e riscritto il
diritto societario.
Ma queste considerazioni inserite nel contesto più ampio di discussione
sulla utilità degli strumenti repressivi e sulla loro efficacia, non
muta le cause profonde dei crack finanziari, né ci possono far dimenticare
che la situazione negli USA non sia magicamente cambiata (a quando la prossima
Enron?) né che in quel severo paese i manager “truffaldini”
siano in galera ad espiare le proprie colpe.
Il sistema fa acqua da molti versanti, questo è solo uno dei più
evidenti perché coinvolge diverse migliaia di persone tra lavoratori
e risparmiatori.
Sul sito Indymedia, parlando del crack Parmalat (l’articolo è
“Parmalat, Enron Europea”) si cita il rapporto tra la richezza
prodotta dal lavoro e la sua distribuzione. Ebbene, ben il 45% non va alla
forza lavoro. Il risparmio della forza lavoro è il 6% del pil (secondo
Bankitalia), percentuale sulla quale il sistema cerca di mettere le mani.
Ma questi dati vengono nascosti. È interesse del sistema non far sapere
ai lavoratori quanta parte della loro ricchezza vada ad altri; invece li si
cerca di coinvolgere, e “sfruttando” il loro risparmio li si fa
partecipare in imprese che alla fine rischiano di danneggiare sempre il più
piccolo, che ha meno mezzi, meno forza e meno tutele.
Il sitema si adopera per verniciarsi in continuazione, per evitare che la
patina cada e riveli la triste realtà prodotta dal nostro attuale modo
di dividere le richezze.
Sempre Michele Salvati, nell’articolo prima citato, parla della necessità
che il sistema riveda alcuni suoi meccanismi per evitare di perdere credibilità.
Ma in realtà la credibilità, oggettivamente, il sistema l’ha
già persa.
Una rondine non fa primavera, ma di “scandali” negli ultimi anni
ce ne sono stati tanti.
Enron, Worldcom, Vivendi, Ohal, Cirio e Parmalat indicano forse che la crisi
non può essere ricondotta ad una singola nazione o continente. Guido
Rossi (ex presidente della Consob, un economista che circa dieci anni fa fu
incaricato di salvare Ferfin-Montedison dal crack in cui era precipitato in
piena Tangentopoli il gruppo creato da Raul Gardini) in una intervista rilasciata
a “La Repubblica” del 23 dicembre si accanisce nel difendere l’idea
che il capitalismo che c’è in Italia è diverso da quello
che si pratica in Europa e che a sua volta è diverso da quello statunitense.
Di fronte all’intervistatore che comunque sottolinea che in paesi diversi
si sono verificati crack con modalità simili anche se con importi,
coinvolgimenti e implicazioni diverse, Rossi sostiene che i casi sono diversi
perché il nostro è un capitalismo ancora arretrato, straccione,
provinciale etc….
Noi non riusciamo a vedere la differenza. Se immaginiamo davvero l’esitenza
di capitalismi diversi, ma che rimangono di fondo come un unico e simile modello
di organizzazione dei rapporti economici di una società, dovremmo spiegare
perché i crack ci sono stati in tutti i modelli pretesi differenti.
In realtà sono crisi del sistema economico.
E veniamo ad una domanda banale: perché si costruiscono montagne di
carte false, perchè si chiedono finanziamenti alle banche, perché
si creano una miriade di società offshore? Semplice: per fare più
soldi, o detto in termini più aulici, per massimizzare il profitto
dell’imprenditore che, al contrario degli insegnamenti dei classici
dell’economia, non rischia più del suo, utilizzando invece soldi
di suoi lavoratori o di ignari risparmiatori.
In questo scenario di capitalismo del nuovo millennio, un bel contributo a
dimostrare quali sono le vere regole che vigono sul mercato è stato
il sistema bancario, italiano e non solo.
Non solo perchè le principali banche sono esposte nei confronti dei
due gruppi oggetto di crack, ma anche perché sono stati gli istituti
di credito ad acquistare per il proprio portafoglio le obbligazioni incriminate,
che poi venivano collocate ai singoli risparmiatori (gli investigatori stanno
verificando anche questo aspetto).
Nota a margine per capire come funziona il mondo economico finanziario di
questa nostra società: un altro piccolo-grande caso sta covando sotto
le ceneri ed è quello relativo ad una delle banche piu antiche d’Italia:
il Monte dei Paschi di Siena. La magistratura sta indagando (il Sole 24 ore
del 31/12/2004) su un’acquisizione fatta dal gruppo qualche anno fa.
Nel 2000 la banca senese acquistò per 2500 miliardi di lire la Banca
del Salento, divenuta poi Banca 121 simbolo dell’internet banking (Milano
Finanza del 31/12/2003), che sembra abbia collocato dei prodotti ad alto rischio
fra i propri clienti spacciandoli per titoli molto tranquilli. Risultato:
Banca del Salento acquistò maggior valore per vendersi. Banca Mps sta
valutando la possibilità di intraprendere azioni legali contro i vecchi
amministratori.