wpe1.jpg (10576 bytes)

Rete Nazionale Sprigionare

WB01343_.gif (599 bytes)

Intervento per il convegno della Rote Fabrik, Zurigo

15-24 maggio 1991

 La varietà, la ricchezza e l'obiettivo interesse dei temi che hanno caratterizzato il convegno organizzato dalla Rote Fabrik di Zurigo, sono, dal nostro punto di vista, assolutamente considerevoli. Parlare dei movimenti rivoluzionari degli anni 70, significa infatti remare contro le correnti ideologiche e culturali oggi predominanti. Parlarne in rapporto alla lotta armata, vuol dire puntare l’attenzione sul fenomeno più vituperato e misconosciuto di quel ciclo di lotte, e non a caso etichettato da sempre (dal sistema politico, dai mezzi di informazione, dai corpi giudiziari e repressivi dello stato) sotto la comoda categoria del terrorismo».

 Ma "terroristi" furono detti i comunardi parigini, "terroristi" erano i narodniki e poi i bolscevichi russi, "terroristi" vennero chiamati anche i partigiani che si battevano in mezza Europa contro il nazifascismo trionfante, cosicché si respira una certa aria di famiglia, e nell’inferno della storia ci si trova in buona compagnia, a condizione di non temere lo zolfo dei santi o le scomuniche degli immancabili imbrattacarte di regime.

 La verità, infatti, è che la maggior parte dei tentativi rivoluzionari di questo e dell'altro secolo sono andati incontro all'esperienza della sconfitta. E per una generazione che ha potuto raccontare da vincitrice la propria storia, ce ne sono state cento che hanno avuto in sorte l'obbligo di confrontarsi col destino opposto. In vita, questi uomini e queste donne si son visti rifiutare spesso persino l’elementare diritto all'identità politica. Grandi romanzi sono stati scritti per denigrarli (ad esempio i Demoni di Dostoevskij). Scaltri libri di storia si sono compilati per dimostrarne l'inconsistenza ideologica e sociale. La borghesia ha sempre impiegato in questa lotta la bassa e l'alta cucina della sua cultura. E bisogna dire che molto spesso ha ricevuto aiuto dalla stanchezza dei rivoluzionari stessi: da quel senso di tracollo esistenziale e politico che l'esperienza della sconfitta reca in sé inevitabilmente, e che, al di là di tutto, resta il principale motivo dei tanti rinnegamenti e delle tante abiure compiute, in favore dell'ordine costituito, da grandi e piccoli protagonisti delle ribellioni contemporanee.

 Perché la sconfitta, come la vittoria, comporta i suoi problemi di gestione. E non è detto che, sempre, una generazione di militanti vi sappia far fronte in modo accettabile o, semplicemente, in modo organizzato. La generazione di comunisti che, in Europa occidentale, tentò soluzioni rivoluzionarie di forza tra gli anni 70 e gli anni 80, è apparsa, da questo punto di vista, particolarmente svantaggiata. Nessuna "legalizzazione" delle organizzazioni armate clandestine è risultata possibile, anche solo come accorgimento temporaneo atto a passare il guado della fase di stanca della lotta di classe. Nessun punto di riferimento internazionale è rimasto saldo, a mo' di "patria lontana ma reale" per i militanti impotenti e in condizioni di cattività. Al contrario, le lunghe e lunghissime carcerazioni hanno caratterizzato la repressione effettuata dai governi sui militanti delle organizzazioni armate. E, contemporaneamente, si produceva uno smottamento del paesaggio sociale in cui quei progetti rivoluzionari avevano tratto la loro linfa vitale, uno smottamento accompagnato a sua volta da un mutamento formidabile del contesto ideologico e culturale alla base del senso comune del movimento operaio e comunista. 

Detto questo, non è il caso di tragedie. Lo studio della storia ci insegna che, già in altre occasioni, le dimensioni della sconfitta sono state altrettanto dure. Come è vero che, già in altri periodi, si è presentata la ripugnante tendenza ad affermare che "tutto era mutato", onde i sogni di rivoluzione andavano messi nel cassetto, e magari derisi qualora si presentassero, freschi, mutati e pieni di energia, nella generazione successiva. In tutti questi casi, infatti, molti ex militanti aderiscono con masochistica voluttà al punto di vista delle classi dominanti. E in tutti questi casi risultò dal principio assai difficile invertire la tendenza: creare cioè un'altra storia (quella vera) dei movimenti rivoluzionari, formulare un'analisi dei motivi del riflusso che non conducesse alla rassegnazione e all'inattività, affrontare anche il problema dei "costi materiali" della sconfitta: costi che si traducevano quasi sempre in vite umane imprigionate o esiliate per decenni, e la cui condizione agiva da monito oppressivo nei confronti di chi, nelle condizioni mutate ma egualmente caratterizzate dallo sfruttamento e dall'alienazione, ricominciava daccapo a prendere in mano il proprio destino.

Ecco perciò che oggi, in Italia (e probabilmente anche in Germania), ci troviamo di fronte a una situazione complessa ma tipica. E' complesso ma tipico il problema della ricostruzione storica di un ciclo di lotte la cui immagine risulta deformata e distorta dalla propaganda di regime. E' complesso ma tipico il problema di un'analisi dei motivi della sconfitta che non si traduca in mero avvilimento, ma fornisca elementi utili alla ripresa delle lotte. Ed è complesso ma tipico il problema della liberazione dei prigionieri e del ritorno degli esuli: liberazione che non è solo del passato, ma anche e soprattutto del presente, se è vero che questo risulta ricattato dalle politiche repressive consolidate negli anni 70 e dunque limitato, nelle sue possibilità di evoluzione, dal persistere di ciò che noi in Italia chiamiamo "emergenza" e da cui bisogna a tutti i costi sbarazzarsi.

Ma chi se ne deve sbarazzare? Ed è possibile immaginare uno stato capitalistico non repressivo? Uno stato, cioè, che garante dello sfruttamento e interno alla catena dell'imperialismo, possa eliminare dalla sua logica e dalla sua organizzazione l’animus controrivoluzionario che ne caratterizza l'operare fin nell'essenza? In realtà, così posto, il problema non ha e non può avere alcuna soluzione. Perché, se una lotta contro l'emergenza e per la liberazione dei prigionieri politici deve essere esclusa dalla sostanza controrivoluzionaria (effettivamente immutabile) degli stati della borghesia, allora anche ogni altro successo parziale della lotta di classe va respinto in linea di principio dal novero dei risultati utili al cammino della rivoluzione. Ma in questo modo, ecco il punto, si cadrebbe in un curioso immobilismo, il cui sottinteso teorico risiederebbe in una concezione del cambiamento sociale quasi ingenua. L'immodificabile preparazione di un altrettanto immodificabile "atto unico" ne costituirebbe la stella polare, e, quanto ai problemi di cui si è discusso nel convegno, tutto il radicalismo o la vivacità di questo mondo non basterebbero a spostare di una virgola gli attuali rapporti di forza politici e culturali.

Ma ovviamente le cose non stanno così. Nella congiuntura attuale, la lotta per la verità storica, lo sforzo analitico sulle ragioni della sconfitta e la battaglia per la liberazione dei prigionieri e per il ritorno degli esuli, appaiono anzi talmente collegati, da rappresentare un unico complesso problematico e l'oggetto di un unico, possibile, grande sforzo collettivo dei movimenti antagonisti. E' tempo di liberarsi dalle logiche di scontro intestino che solo i duri momenti degli anni 70 potevano (e non sempre!) giustificare. Ed è tempo di raccogliere davvero la sfida della comprensione storica, smettendo peraltro di delegare agli storici e ai politici delle istituzioni l'esclusiva della discussione sulla varie ipotesi di soluzione al problema dei militanti incarcerati.

La distruzione della memoria, di cui sempre ci lamentiamo con ottime ragioni, non passa infatti per l'annichilimento tout court di ogni informazione storica, ma semmai per la loro distorsione, per una "mitizzazione negativa" dei fatti avvenuti nel passato recente, per un sottile travisamento della sostanza politica e umana delle esperienze di lotta delle classi subalterne. Così, è significativo che, tanto attraverso le letture «dietrologiche» quanto attraverso le interpretazioni "esistenziali", alla vicenda della lotta armata in Italia si sia innanzitutto tentato di negare il carattere fondamentalmente politico e fondamentalmente comunista. Ed è significativo che vi sia un riverbero di questo anche sulla questione della liberazione dei militanti imprigionati, perché persino i promotori delle ipotesi legislative di indulto giustificano le stesse in base a fuggevoli considerazioni di ordine "umanitario" o ad improbabili criteri di "riequilibrio delle pene".

Edunque evidente che spetta alle realtà antagoniste dell'oggi il compito di avviare una grande opera di ricostruzione e riappropriazione (anche critica) del proprio passato, troppo a lungo consegnato alle volgari e sensazionalistiche deformazioni dei media. Ma è anche evidente che, lungi dal confinarla in un circuito parallelo e in qualche modo sotterraneo, si tratta di far irrompere nel dibattito "ufficiale" la forza dirompente di questa memoria non addomesticata, perché 1' "altra storia" ha senso solo in funzione della lotta, e lotta per la liberazione dei prigionieri, lotta per l'allargamento degli spazi di agibilità politica, lotta per la verità contro la storiografia dei vincitori, sono a questo punto un tutt’uno, cosicché saremmo degli ingenui se non cogliessimo i nessi oggettivi che stringono fra loro queste dimensioni, nessi che oltretutto rappresentano anche una grossa opportunità di lavoro e rilancio politico dell'azione della sinistra rivoluzionaria in Europa.

Nel momento attuale, infatti, il vuoto di memoria che caratterizza l'immaginario sociale e culturale delle nuove generazioni, risulta più che mai funzionale alla nuova pretesa di eternità del capitalismo triumphans del dopo-89. Si può anche sottilizzare sui risvolti potenzialmente sovversivi dell'individuo sganciato da ogni tradizione, ma è un fatto che, ogni qualvolta una nuova leva rivoluzionaria si è proposta di far saltare il continuum della storia, ha sempre trovato alimento nel generoso recipiente della memoria: un contenitore che è razionale e mitico insieme, e la cui capacità di ammaestrare sugli errori del passato è almeno pari alla forza con cui spinge, ogni volta di nuovo, alla ripresa del cammino interrotto nella generazione precedente. Così, se aveva ragione Benjamin a scrivere che "in ogni epoca bisogna cercare di strappare la tradizione al conformismo che è in procinto di sopraffarla", questo è ancor più vero per la storia delle lotte di classe degli anni 70. Vilipese, osservate con paura dalla borghesia, e con vendicativo disprezzo dalla sinistra ufficiale, esse attendono ancora quello sforzo storiografico non neutrale che sappia costruire intorno a loro una tradizione storica e simbolica alternativa. Non si tratta di agiografia, ma di lotta. La lotta, vogliamo dire, per una grande evasione collettiva dall'interno della storia.

Pasquale Abatangelo, Renato Arreni, Paolo Cassetta, Geraldina Colotti, Prospero Gallinari, Maurizio Locusta, Remo Pancelli, Teresa Scinica, Bruno Seghetti.

WB01343_.gif (599 bytes)