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Rete Nazionale Sprigionare

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Milano, 14 dicembre 1997

Convegno VERITA’ E LIBERTA’ tenutosi a Milano presso la sala Fondazione Stelline - Corso Magenta, 61

Relatori:

PRIMO MORONI: Per una serie di ritardi e in attesa di qualche ospite che sicuramente arriverà più tardi diamo il via ai lavori di stamattina. ....per quelli che non c’erano credo che i ragionamenti che possono essere fatti nella mattinata; qui alla presidenza c’è Guido Viale, Fabrizio Nizi della Rete Sprigionare, Mauro Palma, Paolo Cento e Niki Vendola. Credo che si entri più in un discorso che riguarda la lunga vicenda della prigionia politica in Italia e della legislazione d’emergenza ... già ieri di alcuni di questi argomenti si è parlato, io credo che in alcuni documenti che abbiamo letto da Milano e da altre zone del paese e in ogni caso la mia personale posizione avendo collaborato lungamente ad un gruppo informale di lavoro sull’indulto ... ultimi due o tre anni che comprende vari avvocati conosciutissimi nel movimento, alcuni compagni che provengono dall’area della controinformazione e altri soggetti ancora. Credo che per l’ennesima volta negli ultimi due o tre anni sia stato rilanciato il tentativo di un percorso istituzionale che riguardasse la liberazione dal carcere di alcune centinaia di prigionieri politici e il rientro degli esuli dall’estero, dai vari paesi da cui sono ospitati e, in particolar modo, dalla Francia. Nei documenti che circolano viene ribadito frequentemente che è un percorso che dura da molti anni ormai, credo che duri dalla metà degli anni ‘80, ‘86-’87; il percorso della soluzione politica è di volta in volta presentato come amnistia e in quest’ultimo caso è stato presentato come progetto di indulto. Leggevo un articoletto a pagina 8 del Manifesto di oggi in cui Giuliano Pisapia si riferiva alla posizione presa in Commissione Giustizia e a questa proposta di legge sull’indulto che era peraltro passata in Commissione Giustizia anche se, per quanto se ne è capito non andrà mai in Parlamento fin quando non ci saranno una quantità di modifiche, la conclusione della Bicamerale e quant’altro ancora che prolungherà il tempo di questa possibilità, percorso peraltro dalle ali in parte tagliate perché non prevede gli esuli e anche una certa forzatura inserita che farebbe considerare la latitanza come periodo carcerario però ben difficilmente verrà mantenuta all’interno della legge successivamente. Ora di questo percorso i compagni che se ne sono occupati ne avevano l’assoluto realismo; era un’operazione che aveva una sua intelligenza, tenuto conto dello schema giuridico ma risentiva di un clima, in qualche modo, di difficoltà di praticare sullo stesso piano le tre indicazioni che ho letto nel volantino che viene distribuito all’ingresso e cioè la verità sulle origini, lo sviluppo della strategia della tensione, della politica dell’emergenza, la verità su di un paese che ha avuto per moltissimi anni e penso che abbia tuttora in parte una nozione di sovranità apparentemente limitata, un’oscurità pressoché totale sulle responsabilità istituzionali di corpi rilevanti dello stato per ciò che riguarda la politica dello stragismo e, in realtà la criminalizzazione tout court, senza nessuna interpretazione storica di tipo etico, morale e culturale su quei soggetti che scelte radicali hanno fatto nel corso degli anni ‘70 e quindi senza operare grandi distinzioni tra coloro che hanno militato in organizzazioni più strutturate da un punto di vista della forma partito clandestina indifferentemente da quella dell’uso più diffuso della violenza di massa in questo paese. Certamente questo percorso ha permesso alla fine degli anni 70 una fortissima delega voluta in particolare dai partiti di governo, ma con una particolare sua intelligenza del partito comunista italiano al tempo di Berlinguer di modifica profonda dei fondamenti, dei parametri dell’equità delle leggi, della sfera del diritto penale. Una svolta, una modifica che è caduta come una pietra tombale sulle spalle di questi compagni, ma non solo sulle loro spalle, ma ancor più e profondamente sulla possibilità di una ricostruzione storica che restituisse, pur nella critica, ... non solo nella critica - uno può rimanere pure esterrefatto che l’on. Violante sia così pervicace nel voler recuperare una sua dignità all’esperienza della repubblica di Salò e non abbia equivalente disponibilità ad interpretare una serie di scelte che hanno portato comunque dei soggetti politici legati alla classe e all’interno del mondo del lavoro, dello studio o della società civile a fare scelte di un certo tipo che li ... in carcere. Allora, dopo i periodici fallimenti delle varie campagne sull’amnistia, l’idea di un indulto che riportasse le pene nell’ambito del diritto penale ordinario e cioè sottraesse tutte quelle aggiunte che avrebbero fatto sì che in altre situazioni, per un equivalente reato di tipo comune la pena sarebbe stata assai inferiore a quella erogata, venisse riportato dentro il diritto penale ordinario, permettendo di uscire dal carcere un certo numero di compagni immediatamente e, nel tempo, di altri ancora. Lo schema della legge sull’indulto è noto, metà pena per tutti coloro che non hanno preso l’ergastolo, e l’ergastolo unificato a 21 anni con la possibilità quindi anche per gli ergastolani di uscire nei primi anni del 2000. Una serie di operazioni - devo dire - in questo tipo di lavoro sono state fatte, ad esempio è evidente che l’atto di aver fatto passare in commissione bicamerale, di aver riportato la maggioranza per la votazione sull’indulto e l’amnistia alla maggioranza semplice invece che a quella dei due terzi per me ... bloccata dentro questo schema. E’ ovvio che occorreva - e di questo si deve riparlare stamattina - ripartire da zero e rimpostare totalmente anche in termini politici una gran parte delle riflessioni, senza con questo - e questa è una posizione prettamente personale - non apprezzare gli sforzi fatti dal gruppo di lavoro sull’indulto che, comunque, ha fatto anche una battaglia assai dignitosa in commissione giustizia ed ha richiesto con forza il provvedimento. Allora i problemi sono due o tre: da un lato ricostruire verità storica e liberarsi dagli anni ‘70, dall’altro c’è la questione della liberazione dei prigionieri politici e come terza variante, è stato aggiunta nel volantino la vicenda che riguarda i compagni ex dirigenti di Lotta Continua, o non dirigenti e comunque militanti, Sofri, Bompressi e Pietrostefani che come è noto hanno preso una posizione diversa, una posizione autonoma e indipendente. Ora io non so come si concilino le tre cose e credo sarà di grande interesse nelle conversazioni che ci saranno durante la giornata, anche se in questi mesi non mi sembra che abbiano funzionato granché ... della comunicazione, però certamente credo che una soluzione generosa e intelligente, restituendo ad ognuno reciproca dignità vada portata. Si dice anche all’interno dei documenti che promuovono questo convegno di oggi che occorrono spazi europei riguardo l’amnistia. Qualcuno dei presenti, in particolare Fabrizio, Tonino, Agata e molti altri hanno partecipato recentemente a maggio ad un convegno a Zurigo a cui sono stati invitati militanti di formazioni armate italiane degli anni ‘70, ma anche di formazioni tedesche come la RAF, la 2 Giugno, la ... o altre ancora, ovvero francesi come Action Direct, ovvero belghe come ... e ancora basche e anche lì si è parlato di uno spazio europeo per l’amnistia per la detenzione politica. Devo dire che al di là dell’agitare, questo tipo di percorso abbia bisogno di collegamenti, stampelle, gambe, articolazioni per proseguire questo discorso e, soprattutto, della volontà di una grande battaglia che faccia sì che un elemento di ricostruzione storica che restituisca - la storia non è obiettiva, del resto quanto dice .... nell’ultimo convegno, ha ... politica sull’uso ... della storia che è funzionale alle operazioni politiche ... che vengono fatte in un determinato stato e quindi questo tipo di percorso o abbiamo la forza di portarlo avanti ricostruendo e abbandonando una parte delle sottili disquisizioni che fanno sì che un’organizzazione avesse o meno un progetto migliore dell’altra, le Brigate Rosse invece che Prima Linea o quant’altro, il problema è che venga assunto sulle motivazioni di fondo che hanno portato a queste scelte, all’interno di quale svolta etica e morale, discutibile finché si vuole, ma comunque legittima per ciò che riguarda coloro che hanno messo in discussione la propria vita, e come queste iniziative - peraltro tra di loro abbastanza deboli - sparse per l’Italia, la più consistente nell’ultimo periodo è stata la Rete Sprigionare che è nata a Roma, periodicamente ... c’erano stati gruppi molto consistenti in molti convegni di molti percorsi, io credo che a tutto questo muoversi vada dato un più efficace collegamento, continuo e costante, non tanto per ... l’interesse, ma perché diventino ricchezza perché diventino complessità, perché diventino strumenti di intelligenza collettiva che producano una cultura della liberazione che, pur mantenendo i propri accenni critici, abbia a che fare sia col realismo della sfera dei poteri, sia con l’identità dei detenuti politici - che come è noto non tutti hanno posizioni ...... anzi, la gran parte tra loro ... posizioni ... contraddizioni, quindi questo va rispettato - e che all’interno di questo percorso anche quelle posizioni che i compagni di Lotta Continua, ingiustamente condannati per la vicenda Calabresi, abbiano un proprio spazio di parola e una propria posizione. Per una posizione soggettiva notoriamente non sono mai stato un innocentista e non faccio grandi differenze fra coloro che in qualche modo hanno scelto di appoggiare un uso forte del conflitto e anche gli strumenti del conflitto e coloro che lo hanno organizzato in azioni specifiche e che un’assunzione di responsabilità in questa direzione può avere restituzione di identità o dignità politica, può fare storia. Fare storia vuol dire fare cultura, fare verità, fare battaglie ... di parte per fare rappresentanza di un periodo storico preciso del paese Italia e dentro questo percorso ricostruire una possibilità in cui dei forum costanti e periodici di confronto consentono iniziative meno separate e meno contraddittorie. Quindi io spero che se all’interno di ali di movimento che si contrappongono lo slogan ... va ben al di là della dignità e del rispetto di colui che ha una funzione diversa dalla tua ...però ci confrontiamo su questo; evidentemente, si può avere una posizione completamente diversa da un altro su un percorso che riguarda anche l’uso degli strumenti interni alla storia del diritto penale o alla sfera delle istituzioni senza con questo pensare che chiunque si ... percorso sia di per sé un traditore, uno che abbandona la lotta o una delle tante varianti, come mi è capitato di leggere recentemente, della dissociazione. La dissociazione è stata una stagione specifica che molti di noi abbiamo combattuto molto duramente, con varie attività; non credo che i percorsi attuali che riguardano un ragionamento di amnistia e, sia pure con maggiore debolezza, di indulto abbia a che fare con quel percorso, ma abbia a che fare con queste tre parti incrociate fra loro, tra cui quella della ricostruzione storica e della responsabilità dello stato delle stragi e dell’emergenza che non è l’unico responsabile di queste scelte. Personalmente non mi sognerei mai di dire ... che è perché ci sono state le stragi che i compagni, o una parte dei compagni, hanno imbracciato le armi; era insita in una parte del movimento quella possibilità, comunque, indipendentemente dal fatto che una certa politica, una certa scelta e tutte le azioni coperte dai vari servizi anche nelle recenti trasmissioni televisive dovute all’anniversario di piazza Fontana risulta con tutta evidenza che c’erano trame complesse che volevano creare una situazione di caos per consolidare certi poteri a vicenda. Però se dovessimo pensare che tutta quella scelta che ha portato a delle conseguenze fosse determinata esclusivamente dall’azione dello stato riconosceremmo poca intelligenza politica agli stessi compagni che quelle scelte hanno fatto a cui vanno riconosciute a loro volta le loro identità. Con uno sforzo di intelligenza e con l’abbandono di una parte.. Ha ragione Mauro Palma sul Manifesto, erano minoranze quelle che hanno imbracciato ... nel convegno alla Camera del Lavoro, ma certamente in una situazione - perlomeno io ho vissuto quella milanese - quelle minoranze rappresentavano un immaginario o comunque un riferimento più vasto di quanto non fossero le forze più specificamente messe in campo ... Questo era il ragionamento che gli restituiva in qualche modo non tanto il brodo dove nuotavano, l’acqua, ma la dignità di ... muoversi sul territorio, sostanzialmente. Poi io ho notoriamente una formazione politica che non è particolarmente marxista-leninista e quindi non avrei .... massimo rispetto per un altro percorso. Però se noi non ragioniamo, non riusciamo a mettere insieme questa lettura in momenti, Fabrizio che era a Zurigo lo può dire c’è stata questa ... da parte di Tonino Paroli, da parte di Piero Bassi che è intervenuto con una posizione completamente diversa tra l’altro al convegno di Zurigo, c’è stata questa dignità di riconoscere all’altro le proprie ragioni delle scelte, del suo muoversi ed anche la propria opposizione ad un percorso che può essere quello dell’indulto e dell’amnistia. In questo percorso, se non troviamo un tavolo comune in cui lo scontro sia anche aspro ma soprattutto intelligenza collettiva, non andremo molto lontano.

F.N. (Rete Sprigionare - Corto Circuito): l’introduzione di Primo è stata abbastanza esauriente nel senso che ci ha introdotto dentro ad un dibattito difficile, un dibattito che noi abbiamo provato a forzare in quest’ultimo anno, che qualcun altro ha provato a raccogliere, anche qualcuno dei presenti a questo tavolo, che pochi altri hanno sostenuto e che sostanzialmente oggi vede un momento di stallo, direi di blocco totale nei confronti delle prospettive che pensavamo essersi aperte qualche tempo fa. Verità sulle stragi, soluzione per la prigionia politica, liberazione per Sofri, Bompressi e Pietrostefani sembra un po’ un tema storico, la necessitò si affrontare storicamente una questione che in maniera continua in Italia si ripropone, ripropone un meccanismo che nega democrazia, nega libertà, e apparentemente dovrebbe essere in grado di suscitare non solo sensazioni ed emozioni a chi è stato partecipe di quegli anni, a chi è stato partecipe di queste vicende storiche ma dovrebbe essere in grado di suscitare la capacità di capire che questo tipo di situazione non può continuare in questa maniera, cioè che c’è bisogno - qualcuno ieri parlava di una riscossa morale - di un tentativo di incidere a tal punto nel piano dell’interpretazione storica, politica e culturale che sta condizionando quest’ultimo decennio, incidere a tal punto dentro questo piano affinché sia possibile modificare gli avvenimenti, sia possibile recuperare, riappropriarci di alcune cose che apparentemente ci sono state completamente tolte. Noi abbiamo provato a ragionare in questi ultimi giorni, faccio una breve introduzione proprio per dare anche il motivo di questi incontri, sul percorso che abbiamo messo in piedi ultimamente. Anche ieri è stata un’ulteriore verifica nel senso che sinceramente questo percorso ci ha portato a molto, ci ha portato a riconsiderare molte delle cose che sono accadute in questo paese ed anche a riconsiderare noi stessi dentro questo percorso, cioè essere in grado di guardare quelle vicende con l’occhio distaccato, con l’occhio dell’oggi per certi versi; dico questo da un punto di vista di distacco ideologico, la presa di distanza anche per quanto riguarda ciò che siamo oggi, ciò che è oggi la realtà e come dovrebbe essere affrontata e modificata. Noi siamo cambiati anche, bisogna dire e - ripeto - il dibattito di ieri ci dà ulteriormente ragione, che non è cambiato altro, cioè che in questo paese quella risposta, quella visione storica, culturale e sociale che tiene ancora 200 persone dentro, 200 all’esilio, che impedisce che venga fatta la verità, che impedisce che venga affrontata in termini concreti la questione di Sofri, Bompressi e Pietrostefani; in questo paese questo meccanismo non è stato per nulla scalfito, ma non soltanto da noi, noi siamo un pezzo, una minoranza nella minoranza nella minoranza di questo paese. Pensiamo di essere in grado di poter fare molte cose ma ci rendiamo conto che nel meccanismo complessivo che si è messo in piedi da una decina di anni a questa parte contiamo molto poco; però sembra che apparentemente contiamo tanto perché gli unici che a livello minimamente di massa hanno provato a sollevare queste questioni siamo stati noi, gli unici che hanno provato dentro questo meccanismo a modificare anche se stessi siamo stati noi. Quello che ci è sembrato - lo ripeto, lo dicevo anche all’inizio - è che, tranne qualche bell’atteggiamento, qualche bella persona che ha provato da un punto di vista personale e soggettivo a modificare un andamento che sia a livello parlamentare, che legislativo, che storico, che culturale sembra aver ormai assunto una sua cristallizzazione, tranne questo null’altro è cambiato. Ad esempio ieri qualcuno diceva indulto in riferimento alla questione degli anni ‘70: indulto cari ragazzi levatevi dalla testa che sarà possibile. Ma questo avviene in un quadro in cui sostanzialmente quest’affermazione questo semplice dire levatevi dalla testa che sarà possibile nei prossimi mesi e che forse se avverrà fra due anni e cioè quando probabilmente molti saranno o già usciti o probabilmente non so le condizioni di vita di molti che stanno dentro o di alcuni che sono stati riportati dentro - per esempio Salvatore in questi ultimi giorni - ci confermano che non è una soluzione facile quella di dire aspettiamo due anni. Questo tipo di condizione avviene in un momento in cui sembra normale affermare queste cose, è normale che in questo paese non si voglia fare un’operazione che sia di giustizia "civile", un’operazione che sia di ricostruzione storica, un’operazione che sia sostanzialmente di riacquisizione non solo della memoria, ma riacquisizione di alcuni meccanismi particolari che riguardano il modo di vivere, riguardano il modo di concepire la partecipazione sociale, il modo di concepire il conflitto. Ci sono delle responsabilità, certo, ma questo avviene in un momento in cui al governo di questo paese c’è una composizione diversa da quella che aveva portato Berlusconi, c’è una composizione legata, per certi versi, anche ad alcuni ideali di "giustizia e libertà"; bene a me sembra che questa responsabilità oggi sia evidente ad esempio e a me dispiace moltissimo che non sia presente Folena qui e penso che sia un segnale da questo punto di vista e dovremmo anche capirlo che significa per noi continuare questa battaglia, perché ci rendiamo esattamente conto che le responsabilità, i motivi per cui questo tipo di meccanismo è ancora soggetto ad una incapacità di essere affrontato. Sia la verità sulle stragi, sia la questione degli anni ‘70, sia la questione di Sofri, Bompressi e Pietrostefani, questi motivi risiedono anche nella concessione culturale, storica e politica che attraversa questa sinistra. Questa sinistra che per certi versi è "responsabile" di alcune cose che sono accadute negli anni ‘70, "responsabile" di alcune cose che succedono ancora oggi, la possiamo mettere come vogliamo, fatto sta che queste prese di posizione sono prese di posizione che sostanzialmente dicono: da qui non si va avanti; qui siamo arrivati, tanto avete fatto, tanto abbiamo combattuto questo punto fermo però non lo possiamo mettere, non c’è nessuno che in questo paese si assumerà la responsabilità di dire e di fare cultura da questo punto di vista, invertendo quel meccanismo - qualcuno lo chiamava di revisionismo culturale e storico - con cui si è modificata, si è approcciato in maniera completamente diversa a quella che è stata la storia del nostro paese. Ecco a noi la discussione di ieri ci ha ridato questo tipo di visione, ci ha restituito questo meccanismo; è un meccanismo che non ci piace, è un meccanismo che, tra l’altro, non ci piace ammettere, che ci costringerà a rivedere anche molte delle nostre impostazioni, anche a rivedere molto del lavoro che abbiamo fatto. Ci è sembrato che su questa questione dell’indulto avessimo trovato, per certi versi, il grimaldello, il modo concreto con cui affrontare una questione politica e culturale ben più ampia. Purtroppo come dicevo all’inizio così sembra non essere; la questione dell’indulto non solo non è stata in grado di risolvere questa questione, di affrontarla né, tantomeno, di farne un elemento comune per tutti, per tutte quelle forze che potessero quantomeno riconoscersi all’interno di un orizzonte di libertà; e se questo non è a noi rimane come meccanismo, rimane come prospettiva quella di pensare e di lavorare alla liberazione di quegli anni, pensare e lavorare alla liberazione del meccanismo che porta a votare il ritorno dei Savoia in Italia, ma non ad andare a fondo rispetto alla questione delle stragi, che porta a tener dentro Sofri, Bompressi e Pietrostefani ma non ad affrontare in maniera storica e culturale quel periodo ed anche quell’avvenimento particolare di cui sono accusati. Per cui per noi oggi liberazione può significare un elemento importante del nostro DNA, cioè fa parte della nostra storia, continuerà a far parte della nostra storia e gli daremo anche un altro nome, gli daremo il nome dell’amnistia probabilmente, come un meccanismo all’interno del quale collocare il nostro immaginario ma non riusciamo più a vederlo concretamente all’interno di una realtà operante, di un tentativo reale, anche in collegamento con forze differenti di modificare la realtà politica di questo paese. E questo per noi dovrebbe essere anche un momento di confronto serio, tra i partecipanti di questa giornata, dicendoci veramente perché è accaduto, dove ognuno di noi pensa che risiedano le responsabilità di questo fatto e come è possibile che in questo paese, la sinistra di questo paese non sia stata in grado di ricostruire, di riappropriasi di quel pezzo di storia di cui è stata espropriata tanti anni fa ma che sostanzialmente è diventato un modo di costruire un altro modello societario che sta diventando sempre più oppressivo e che sostanzialmente non dà nessun tipo di risposta a bisogni di questo tipo.

Questo era soltanto un piccolo contributo che ci sentivamo di dare; tra l’altro è interno al percorso che vorremmo, anche dal punto di vista del dibattito, rimettere in piedi come Rete.

Invito a parlare l’Avv. Paolo Sodani, che è l’avvocato dell’Associazione Walter Rossi che è l’associazione con cui abbiamo costruito queste giornate, con cui abbiamo fatto l’appello che poi le ha indette.

PAOLO SODANI: io sono l’avvocato che ha presentato a nome dell’Associazione Walter Rossi una nuova denuncia per l’omicidio del compagno che è morto il 30 settembre del ‘77 e sono anche un amico di Walter. L’esperienza di quest’associazione parte da una consapevolezza: che oltre, ovviamente, a patire il fatto che non siano stati raggiunti i colpevoli dell’omicidio di Walter, parte anche da un altro presupposto che è quello di avere la consapevolezza che probabilmente - inserendomi nel discorso che faceva Fabrizio - c’è un grande vuoto, c’è un grande buco storico che sta attraversando ormai l’Italia da 50 anni. Le parole d’ordine di questo convegno credo che siano delle parole d’ordine estremamente strategiche perché all’interno di queste due parole d’ordine, probabilmente è possibile ritrovare un filo attraverso il quale riallacciare le possibilità di incidenza sul problema della verità rispetto agli autori delle stragi e fondamentalmente anche rispetto al problema della soluzione alla detenzione politica. E allora io credo che il problema fondamentale sia proprio riconoscere un legame inscindibile tra queste due parole: verità e libertà.

E’ stato fatto molto; io sono convinto di quello che diceva Fabrizio sulla impossibilità che queste proposte legislative sull’indulto possano trovare una loro approvazione dopo che è stata cambiata questa legge costituzionale che porta alla maggioranza semplice dalla maggiorana dei 2/3 per approvare provvedimenti di clemenza. Se si parte da alcune verità io credo che bisogna poi prendere anche delle conclusioni rispetto a queste verità. La prima verità è che le proposte di indulto non passeranno nella situazione parlamentare che ci troviamo di fronte; io ho letto la proposta di Cento, la proposta di altri, sono tutte proposte meritorie, poche differenze, Cento inserisce anche gli esuli, ma non abbiamo i numeri a livello parlamentare per risolvere il problema. E allora credo che ci sia stato un grande assente al di là del riconoscere lo sforzo meritorio di tutti coloro che hanno firmato questo proposte di legge, ma c’è un grande assente che è, io credo, una mobilitazione di massa in riferimento a questo problema e una mobilitazione di massa non può non passare oggi riconoscendo il legame inscindibile tra il discorso delle verità e il discorso della libertà.

E allora un’altra verità: noi abbiamo una stranezza, abbiamo sicuramente un’atipicità. L’Italia è l’unico paese dove questi due problemi sono presenti, al di là di quei paesi industriali dove esistono problemi indipendentisti. Il problema della verità sulle stragi perpetrate e il problema della libertà dei detenuti politici. Questa è una emergenza che probabilmente ci contraddistingue, ma un altro elemento atipico è che comunque sulle stragi tutti hanno una risposta, il movimento antagonista ha ricostruito le vicende che hanno attraversato l’Italia, sappiamo perché ci sono state, abbiamo capito il filo, la strategia che ha portato alle stragi, agli assassini impuniti ma non abbiamo una risposta giudiziaria rispetto a quello che è successo in Italia. Quello che è successo in Italia parte ovviamente da molto lontano, parte da uno scontro ovviamente di sfere internazionali, parte da una democrazia bloccata, sappiamo che queste stragi sono state perpetrate anche ovviamente per bloccare e per stabilizzare una classe dominante che stava al potere. E sappiamo che queste stragi sono state fatte e questi assassini impuniti sono stati fatti per condizionare anche la formazione della coscienza. E allora il legame inscindibile, ma non tanto perché è vero, ma io credo che non sia però centrale il problema di andare a ricercare se chi negli anni ’70 e ‘80 aveva scelto la lotta armata lo avesse fatto in risposta ad una strategia della tensione perché così peraltro non è perché non credo che si possa oggi definirla tale, era ben di più che una strategia della tensione; io non credo che il nostro sforzo debba limitarsi esclusivamente al verificare se in effetti i gruppi che hanno imbracciato le armi lo abbiano fatto perché avevano di fronte un’Italia stragista. La verità è sicuramente che c’è un legame inscindibile tra le stragi e comunque il problema della soluzione della detenzione politica e probabilmente questo è il fatto nuovo e forse su questo fatto nuovo, su questa verità del binomio, e quindi del legame inscindibile tra questi due problemi noi avremo la forza di sprigionare delle energie, delle fantasie che si vadano ad aggiungere, non a sostituire, a tutti gli sforzi che sono stati fatti nel depositare e portare avanti la battaglia sull’indulto. Detto questo e questo è il primo punto, il problema dei provvedimenti di clemenza è un problema estremamente delicato. Sappiamo tutti che i provvedimenti di clemenza sono tre: amnistia, indulto e grazia concessa dal presidente della repubblica. Ora è evidente, Scalfaro lo ha detto, ha delegato al parlamento la soluzione di questo aspetto e credo che non abbia neanche tutti i torti anche perché questo è un problema squisitamente politico. Il problema dell’amnistia è un provvedimento di clemenza che ovviamente andrebbe a risolvere alla radice, perché rispecchierebbe quello che è stato lo scontro che è esistito in Italia, in riferimento a quello che è successo nel nostro paese negli ultimi 50 anni. Il provvedimento di indulto è evidente che è un provvedimento più semplice da giustificare da un punto di vista giuridico-politico e, nonostante la sua semplicità, tutti abbiamo verificato quante difficoltà queste proposte meritorie hanno incontrato per riuscire ad essere approvate. E allora se non riconosciamo e se non nasce una grossa discussione, un grosso dibattito tra il legame inscindibile, tra il blocco della democrazia, tra la sospensione anche della possibilità di formarsi liberamente autonomamente la coscienza, il fatto che c’è stato un controllo delle coscienze, il fatto che ci sia una consapevolezza da questo punto di vista, il fatto che si vada a creare - noi facciamo con questo intervento una proposta che si va ad allacciare anche a quello che diceva prima Fabrizio - la proposta della costituzione di un coordinamento nazionale che parta dalle esperienze specifiche come ad esempio potrebbe essere la nostra, di un gruppo di compagni a Roma, che sta lavorando per arrivare a trovare, a scovare gli assassini di un loro compagno morto il 30 settembre su una strada buia di Roma nel 1977. Che si vada a creare un coordinamento di tutte le situazioni che abbiano bisogno di un’agognata verità anche giudiziaria, un coordinamento che parta in modo specifico da queste strutture ma che abbia la forza di estendersi in ogni situazione. In definitiva noi crediamo che questo problema, il fatto che ci sia un legame inscindibile tra il problema della verità delle stragi, il problema della soluzione della detenzione politica non possa non partire da un grande sussulto nazionale, da una grossa mobilitazione decentrata, da una grande tensione culturale che sia una battaglia di civiltà che vada a coinvolgere anche i livelli istituzionali; noi non possiamo consentire, anche al di là delle questioni, al di là dei giudizi che ci possono essere in riferimento al governo che oggi amministra la cosa pubblica in Italia - chi lo definisce di sinistra, chi lo definisce di centro-sinistra, chi lo ritenga peggiore o migliore di quello che potesse essere il governo di centro-sinistra socialista, non è quello il problema, sicuramente questo governo ha al suo interno delle forze che potrebbero essere utilizzate - un governo di questo tipo non può non mobilitarsi in riferimento a questo legame inscindibile. Noi non possiamo permettere che la storia venga ricostruita così come oggi viene fatto. Io leggevo - ho dei figli che frequentano il primo anno delle superiori - l’anno scorso i loro libri di terza media e questo è un fatto clamoroso, perché le nuove generazioni si formano anche attraverso i libri di testo, ovviamente la cultura passa su altri orizzonti, ma la bomba di piazza Fontana viene inserita come fatto rientrante nella strategia della tensione senza nessuna giustificazione, senza nessun commento, ma messo lì vicino al sequestro di Aldo Moro e ad altre poche cose che i nostri storici stanno scrivendo sui libri che poi leggeranno i nostri figli e i nostri nipoti. Ora io credo che il punto sia questo: vedete Togliatti nel 1946 con un decreto legislativo - mi sembra il n. 4 del giugno del ’46 - voi tutti sapete, introdusse il provvedimento di clemenza dell’amnistia e dell’indulto sia in riferimento ai reati comuni, politici e militari. Ebbene quel provvedimento fu un provvedimento che provocò una grande lacerazione in quel momento ma fu un provvedimento introdotto soltanto dopo 12 mesi dalla fine della guerra. Fu un provvedimento dibattuto perché poi ci furono delle polemiche su come veniva applicato perché addirittura - lì si escludevano gli omicidi e si escludevano quei fascisti che avevano ricoperto dei ruoli rilevanti all’interno del partito fascista, all’interno della strategia del ventennio fascista le procure generali nella interpretazione di quel provvedimento di clemenza andavano a riconoscere non come rilevante l’attività svolta da grandi gerarchi, alcuni addirittura esponenti della banda .... che a Roma ha fatto delle cose inenarrabili, determinando la loro scarcerazione e ci fu un grandissimo dibattito su questo provvedimento di Togliatti, addirittura Pertini superò a sinistra Togliatti e in parlamento fece un famosissimo intervento dove richiamava alla giustizia, richiamava alla realtà delle cose, perché si vedevano addirittura grandissimi esponenti fascisti reinseriti nelle loro attività lavorative mentre i partigiani, ma non solo, quelli che non avevano firmato l’atto di sottoposizione al partito fascista e quindi erano stati allontanati dai loro posti di lavoro non riuscivano ad ottenere la reintegrazione. Ebbene è sintomatico, comunque, che quel provvedimento, all’interno di una situazione storica sicuramente diversa, perché uscivamo da una guerra, uscivamo da un periodo di estrema gravità ma fu un provvedimento comunque adottato dal legislatore di quel periodo. Io credo che oggi, se riuscissimo a creare questo coordinamento che diventi anche un interlocutore - questa è un’altra proposta - della commissione stragi; noi non possiamo pensare, non possiamo pretendere al di là dell’attività portata a termine dalla commissione stragi, che è possibile delegare a singoli parlamentari, mossi dai più nobili motivi, mossi e strutturati da una capacità notevolissima come sono molti di questi personaggi parlamentari all’interno della commissione stragi, pensare che questa commissione possa risolvere e possa ricostruire la storia d’Italia. Noi crediamo che questo coordinamento debba essere un coordinamento interlocutore della commissione stragi che sia un grimaldello, che sia uno strumento di grande sollecitazione nei confronti dei partiti, che riesca ad ottenere una grandissima battaglia culturale, che venga indetta nell’intero paese, attraverso i mass-media - questo è l’obiettivo che dovrebbe raggiungere questo coordinamento - una sessione culturale, una grandissima battaglia di civiltà che spieghi nel modo più decentrato, dalle valli del bergamasco alle ultime spiagge della Calabria e della Sicilia, che in Italia ci sono stati degli apparati dello stato che hanno condizionato l’alternanza della democrazia, hanno soppresso la democrazia e hanno messo sotto ricatto una nazione per 40 anni attraverso anche lo strumento delle stragi. Non è possibile che un governo oggi di sinistra non operi una battaglia culturale in questo senso; non è possibile, non è tollerabile che non ci sia un organismo, un’organizzazione, un coordinamento che non sia un interlocutore, uno stimolo diretto rispetto a questa grande sessione che ci aspetta.

MAURO PALMA: io non vi nascondo, come dire, una certa anche stanchezza nell’intervenire sulla tematica dell’indulto dopo ormai una decina d’anni e nel sentire più volte sempre problemi di percorsi, di una legge che va avanti, poi si ferma, poi ritorna ecc. Tralascio quindi tutta quanta la questione - anche perché ci sono poi dei parlamentari - e l’affido a loro la questione di come stia la situazione attuale nel suo cammino, nel suo percorso. E vorrei sviluppare due idee, la prima delle quali parte da un punto di vista forse apparentemente più distante; io credo che ci sia una grande miopia culturale e direi, in generale, istituzionale nel non affrontare il problema di una chiusura legislativa dell’eredità degli anni ‘70/’80. Cioè, prima ancora di una necessità che noi possiamo porre e poniamo in questo contesto a partire anche dai destini dei singoli incarcerati o esuli, a partire anche dalla volontà di ricostruire memoria, politica e non giudiziaria, ecco io credo che ancora prima di questo da un punto di vista istituzionale dovrebbe essere avvertita la necessità di utilizzare un provvedimento - dico il provvedimento indulto, poi cerco di argomentare perché - in maniera utile ad un raddrizzamento del proprio ordinamento nel senso che se esaminiamo i danni dell’emergenza ci accorgiamo che c’è stata una forte tendenza a porre come principio sovradeterminato, che guidasse anche le scelte giudiziarie, il principio della salvezza dello stato come norma a monte da cui far muovere poi tutta l’azione e contemporaneamente c’è stata una risposta della magistratura di allora che si è offerta per essere in qualche modo il braccio, l’interprete di questo principio della salvezza dello stato in funzione del quale poi attivarsi nelle proprie aule processuali e via dicendo.

Io ricordo sempre che nel ’78 - visto che andiamo come memoria - ci fu un documento dell’Associazione Nazionale dei Magistrati che terminava dicendo abbiamo superato tutta la composizione delle varie correnti e la frase finale era: abbiamo deciso di unirci per sconfiggere il terrorismo; superiamo quindi le spaccature tra Magistratura Democratica, Unità per la Costituzione tutte le varie correnti ecc., ci mettiamo insieme. Ecco io credo che questo tipo di sovradeterminazione del principio che guidasse l’azione dei magistrati, la salvezza dello stato, e contemporaneamente la risposta data dalla magistratura, sia alla base di tanti esiti che ci costringono oggi ad intervenire con uno strumento tipo l’indulto e anche di tanti esiti che sono stati poi negli anni successivi scontati in altri ambiti e per altre emergenze. Io credo che si siano da allora verificati due guasti generali: il primo quello che una magistratura che scendeva in campo così direttamente era tendente ad interpretare il momento processuale non più come momento in cui acquisiva notizie, informazioni e cercava di capire, ma era un momento di lotta, il magistrato era in lotta in prima linea per sconfiggere il terrorismo. E seconda cosa è che siccome era in lotta ciò che a lui interessavano non erano solo l’accertamento dei reati, ma era anche la posizione singola, del singolo soggetto, cioè il capire anche se lui era o non era nemico delle istituzioni, se accettava o non accettava il processo, se si schierava e in che modo si schierava con le tesi dell’accusa. Molte delle cose di cui noi discutiamo rispetto alla cosiddetta iperpenalizzazione, l’estensione su cui poi dopo diciamo di intervenire, sono alla base anche di questa discrezionalità giocata rispetto ai singoli: a seconda di come ti collochi tu avrai un determinato tipo di aggravante, un determinato tipo di considerazione, avrai poi anche, allora, determinati tipi di esecuzione penale cioè il carcere - ricordate la carcerazione speciale - sarà diverso a secondo del tuo essere o meno ancora nemico diciamo dello stato. Non a caso - e questo poi è un elemento di saldatura anche su vicende diverse e distante come può essere il processo a Sofri, Bompressi e Pietrostefani - la dichiarazione di innocenza, in qualche modo, è il massimo della tua opposizione, della tua non accettazione; il dichiararti innocente significa non accettare per niente il percorso che io ho ricostruito e quindi diventa non più diritto del soggetto ma la massima espressione del suo essere anche antagonista.

Noi sappiamo bene che questo tipo di impostazione ha determinato delle estensioni processuali che io generalmente definisco sempre in tre direzioni e che dico proprio sinteticamente: una direzione diciamo così orizzontale; quando veniva preso uno di una banda armata veniva fatta una retata di tutte le persone anche più ai margini, più ai bordi. Una che dico verticale: nel senso che alla singola persona venivano attribuite tutte le responsabilità di ciò che aveva fatto la banda. Quindi estensione orizzontale a tutti e poi al singolo gli veniva attribuito tutto. Ricordo sempre che sono state attribuite nei nostri processi responsabilità penali non solo a persone chiamate in correità dal singolo, da un soldato, da un pentito, da un singolo pentito, ma anche persone per le quali il pentito aveva escluso la partecipazione a quella particolare azione cioè anche nei casi in cui il pentito aveva detto: no, il tale non c’era alla singola decisione; ma per l’appartenenza a una struttura direttiva della banda gli è stata attribuita responsabilità penale. E la terza estensione è temporale: le inchieste diventavano enormi, per lunghissimi tempi grazie alla custodia cautelare in modo che erano dei contenitori dove andare ad inserire tutti.

Bene, un sistema che si è così deformato dal punto di vista ordinamentale, strutturale - a mio parere - ha esso stesso bisogno di un provvedimento di controtendenza che raddrizzi la via anche dell’azione giudiziaria di questo paese, che la raddrizzi affermando - e qui arrivo poi a qual era la ragionevolezza della proposta di indulto - con una legge un provvedimento che si applichi a tutti, indipendentemente dai comportamenti soggettivi tenuti, che sia consistente, perché consistente è stata l’iperpenalizzazione che si è prodotta e che chiuda complessivamente con questa vicenda. Io trovo un po’ indecente che nelle proposte di legge attuali siano esclusi coloro che si sono sottratti e che sono rifugiati all’estero. Lo trovo un po’ indecente anche culturalmente perché se è vero che lo stare all’estero non può essere equiparato all’essere stato in galera e nessuno vuol far questo, è pur vero che non può essere equiparato allo stato di libertà. E comunque dicevo un provvedimento che in qualche modo, quindi, abbandoni la logica della discrezionalità e raddrizzi con la sua caratteristica di assolutezza nell’applicarsi a tutti - questo è un primo punto che volevo sviluppare - secondo me dovrebbe essere un provvedimento che preme anche alla classe politica, indipendentemente ripeto dagli esiti delle persone verso cui può essere applicata, per dare una sterzata al proprio ordinamento, per recuperare, diciamo, sensatezza e ragionevolezza ad un sistema che invece in maniera emergenziale si è distorto e poi abbiamo visto che è diventato luogo di conflitti sempre più aperti. Tuttavia questa è solo la prima delle due riflessioni che volevo fare. La seconda è che fermo restando tutto questo elemento di iperpenalizzazione e di necessità di recuperare misura alla pena, di recuperare equità noi non ci diremmo la verità - appunto - se ci dicessimo soltanto che un provvedimento di indulto è un provvedimento di riequilibrio aritmetico. Faremmo un’operazione, secondo me, sbagliata due volte; innanzitutto perché è un’operazione che ha una sua verità, una sua forza in larga parte dei casi. Ha una sua verità non solo nelle aggravanti che sono state contestate, ma anche nelle modalità con cui sono stati fatti i processi. Però è una verità che non è esaustiva del problema. E l’altro errore lo faremmo perché negheremmo la politicità dei fatti a cui ci si riferisce; è sbagliato ridurlo ad un conto aritmetico neutrale o a una pura questione di diritto. Questi reati sono reati che hanno una chiara connotazione politica e questa va assunta, va rivendicata. Forse la debolezza, secondo me, di questi anni di battaglia - lo dico anche in termini autocritici essendo stato uno dei soggetti coinvolti nel portarlo avanti - è averla troppo depoliticizzata ed averla riportata ad un troppo semplice parametro di computo aritmetico, per cui oggi ci può essere chi ti dice perché non facciamo una proposta di legge che toglie le aggravanti da terrorismo e quindi risaniamo tutti i casi. Il delitto politico negli ordinamenti ed anche nel nostro, da sempre è stato un delitto iperpenalizzato nei momenti di tensione, di acutezza del fatto che in qualche modo si voleva contrastare e simmetricamente la motivazione politica è sempre stata una motivazione perché una volta chiuse, diciamo, le questioni e le vicende a cui quelle azioni ed ambito politico facevano riferimento si procedesse nel segno inverso, senza, diciamoci chiaramente, porsi il problema - rispetto al quale va il nostro rispetto - delle vittime come giustamente nel giugno del ’46 Togliatti non interpellò le vittime nel procedere con l’amnistia. Perché c’è, perché un atto politico ha una sua ragione statuale, ha una sua giustificazione per rinsaldare un tessuto sociale, ha una sua ragione per chiudere una ferita e chiudere una vicenda che non può essere subordinata all’accettazione dei singoli. E allora questa seconda questione si salda al tema di cui parliamo oggi e cioè al tema della verità e della libertà, ovvero il tema della memoria. Questo è un paese in cui la memoria politica di quegli anni si è declinata come memoria giudiziaria; questo è un dato di fatto e non abbiamo spesso potuto avere memoria perché prima di noi altre memorie nelle aule dei tribunali avevano ricostruito i fatti e la nostra afasia è un prodotto di questa assenza di memoria. Come non leggere, se non come afasia, anche come ceto politico debole, perché un ceto politico forte è in grado di chiudere delle ferite; come non leggere come afasia e ceto politico debole il fatto che solo 10 giorni fa su Le Monde e sul Guardian ci sono pagine intere sulla vicenda italiana, ci sono pagine intere da partner europei mentre ci preme di entrare in Europa mentre facciamo sacrifici per entrare in Europa e su questo terreno non riconosciamo le domande che i partner europei ci pongono perché nessun giornale italiano ha ripreso il fatto che ci fossero due paginoni interi su Le Monde, che ci fossero gli articoli sul Guardian interrogandosi su queste vicende se non in termini di afasia e di memoria in qualche modo bloccata. Io ricordo un convegno di vari anni fa qui a Milano in cui Fortini si soffermò sul fatto della memoria dicendo memoria non è ricostruzione di fatti neanche è documentazione di un clima, memoria è sostanzialmente giudizio storico ed è un giudizio storico che va dato sui fatti passati ma in funzione del presente e allora ci preme ricostruire le vicende di allora, ci preme ricostruire la sensazione di iniquità e impunità vissuta da una generazione come la nostra dopo, per esempio piazza Fontana, dopo l’evidenza della collusione o della diretta azione degli apparati dello stato, una situazione di iniquità da un lato vissuta fortemente e, contemporaneamente una situazione di rottura del filo di comunicazione che si deve stabilire tra ciò che i movimenti vanno elaborando e ciò che l’apparato istituzionale e politico è in grado di tradurre normativamente. La memoria degli anni, secondo me, va ricostruita secondo queste due linee molto forte: da un lato che si coniugano in una sensazione di iniquità, da un lato quella della sensazione di impunità rispetto ad uno stato che è evidentemente colpevole ed evidentemente colpevole anche delle azioni più dirette anche attraverso propri apparati, perseguiva invece altre strade nelle inchieste e perseguiva strade di addebito, in sostanza, ai movimenti stessi delle operazioni che si andavano facendo, è un’iniquità dei primi anni ’70, una sensazione di impunità; e dall’altro lato il venir meno di un canale di comunicazione possibile tra ciò che i movimenti esprimevano e ciò che anche le organizzazioni di sinistra e i sindacati, in qualche modo, erano in grado di recepire. Ecco questa memoria, secondo me, è la memoria che va ripresa e ricostruita e che può aiutare a leggere anche le attuali rotture perché anche oggi leggiamo le rotture tra ciò che i movimenti elaborano e ciò che a livello istituzionale può essere letto, recepito. Questa memoria è la memoria che dobbiamo liberare, ma la possibilità di liberarla può essere fatta soltanto quando le vicende legali e giudiziarie siano state chiuse. Ecco perché ho posto sempre che la chiusura legislativa fosse un momento, da un lato per le istituzioni - come dicevo poc’anzi -di recuperare sensatezza anche .... ordinamento e, dall’altro lato, per tutti noi di recuperare una capacità di memoria e quindi anche una capacità di parola.

GUIDO VIALE: buongiorno, intanto ringrazio gli organizzatori di questo incontro per avermi invitato, parlo a nome del Comitato Liberi Liberi di Milano. Riprenderei il tema della memoria, che mi sembra al centro di questo dibattito, con alcune considerazioni molto semplici e banali, ma che secondo me meritano di essere enucleate come centro di un possibile lavoro che ci possa impegnare nel prossimo .... Sono passati 28 anni dal 1969, dalla strage di piazza Fontana, 30 dall’inizio del movimento studentesco nell’autunno del ’67, cioè un periodo di tempo equivalente - mi è capitato di aver fatto notare in un’altra circostanza - a quello intercorso dall’inizio della prima guerra mondiale e la fine della seconda guerra mondiale, cioè stiamo parlando di storia, ma questo periodo storico non è stato metabolizzato ancora dalla società in cui viviamo. Hanno, come ha detto Palma, fatto la storia le sentenze e le indagini della magistratura, si sono ritirati dalla ... in maniera abbastanza vistosa gli storici accademici di professione con pochissime eccezioni, soprattutto fra gli storici più marginali, rispetto al dibattito sulla storia contemporanea e, vorrei dire, che i magistrati sono stati aiutati in questa ricostruzione anche da un massiccio intervento di giornalisti e di operatori culturali dei media alla ricerca sempre di scoop e con un retroterra di disinformazione e di disinteresse per la realtà dei fatti che ha subito un processo di aggravamento e di degenerazione nel tempo. Il risultato di questa miscela è micidiale, faceva bene Sodani a ricordarlo come viene trattato nei libri di storia che vengono letti dai nostri figli nelle scuole, studiati, ma addirittura direi io nel sentire comune. Già 10 anni fa io ricordo un inchiesta di C... nel settimanale Cuore fatto su dei temi svolti in classe da ragazzi di liceo in cui la strage di piazza Fontana veniva tranquillamente attribuita a Curcio in un pot-pourri di nomi. Che cosa si è venuto a creare? un appiattimento dei movimenti degli anni ’70, movimenti di massa degli studenti, degli operai, nelle carceri, nelle caserme, delle donne, dei giovani nonché dei dipendenti pubblici, addirittura dentro la magistratura per un periodo purtroppo brevissimo come movimento di rivolta delle strutture tradizionali della magistratura, vengono ormai nel sentire comune appiattiti sugli anni ’70 intesi come anni di piombo, come periodo del terrorismo, e dentro gli anni di piombo c’è anche tutta la strategia della tensione. Cioè è un unico mélange in cui al di là dei pochi professionisti della memoria o alcuni reduci, come molti di noi sono, di quegli anni che hanno dei ricordi assolutamente differenti per le nuove generazioni, ma anche per chi non si sente particolarmente coinvolto per una azione di scavo rispetto a quegli anni ormai il panorama che si presenta è questo. Con un’aggravante ulteriore che la cosiddetta lotta e vittoria contro i cosiddetti anni di piombo, che non sono semplicemente il terrorismo di sinistra, ma sono questo magma indistinto che occupa il periodo storico degli anni ’60 è stato di fatto e molto spesso esplicitamente letto come atto fondativo della Repubblica oggi lo stato italiano si regge grazie alla vittoria che ha raggiunto contro il terrorismo di sinistra che rappresentava una grande minaccia per lo stato così come lo stato dei primi anni ‘50 si legittimava in virtù del fatto che fosse nato dalla resistenza e dalla vittoria contro il fascismo. Mentre credo che l’atto costitutivo dello stato in cui viviamo sia esattamente la politica delle stragi e dei servizi segreti che segna una continuità evidente anche nelle più recenti vicende giudiziarie e non solo giudiziarie fra il periodo che precede gli anni ’70 e il periodo che lo segue. Allora io credo che la prima operazione corretta per cercare di riportare in termini estremamente semplici, ma fondamentali il dibattito storico su questo periodo, cercando di confrontarci anche fra di noi che siamo, credo, tutti quanti interessati a valorizzare la memoria di un elemento di lotta politica e di lotta generale, culturale, anche nella fase ... sia innanzitutto di cercare di distinguere nettamente le tre componenti di questo magma indistinto cioè i movimenti degli anni ‘68-‘69-’70, la strategia della tensione e le formazioni della lotta armata e della lotta clandestina, cercando di vedere con spirito laico e accettando tranquillamente che ci siano delle divergenze di interpretazione della norma che siano al massimo chiariti quali sono i nessi che collegano questi avvenimenti. Io che non sono uno storico e che ho sempre dissentito dagli storici che mi insegnavano a scuola e all’università che la storia non si fa con i se, penso che sia invece ad alcuni se che noi dobbiamo porci di fronte per mettere ordine in questo pasticcio. E la prima cosa è la domanda che si è posta prima Moroni cioè era possibile in Italia, nelle dimensioni che ha avuto, con la durata che ha avuto, un movimento di lotta armata clandestina guidata e condotta da gruppi che sono figli, anche legittimi, dei movimenti di sinistra degli anni ’70, se non ci fosse stata la strategia della tensione? Cioè, constato che c’è una divergenza tra quello che penso io e quello che pensa Primo; questa cosa qua io penso che non ci sarebbe stata, ci sarebbero stati solamente singoli episodi, ci sarebbe forse stata una certa tracimazione del movimento tutto verso forme di lotta illegale, ma non clandestine e armate, forse anche maggiori di quello che c’è stato. Probabilmente, secondo me, ma questo io credo che sia un terreno di confronto e di discussione, non ci sarebbe stato un movimento armato con matrice chiaramente di sinistra come quello che c’è stato. Secondo: ci sarebbe stata la strategia della tensione e la strage - voglio ricordare che la strage di piazza Fontana inaugura una serie di (Aldo Giannuli dice 8 io ne ho contate 11) stragi riuscite cioè portate in porto da apparati dello stato dal ’69 all’84 e senza contare almeno 20-25 stragi messe in campo e fallite miracolosamente o per fortuna. Basti pensare che la strage di piazza Fontana doveva avere 4 epicentri, 4 erano le bombe messe e 4 punti con effetti per lo meno paragonabili a quello che è avvenuto nella Banca dell’Agricoltura. Ci sarebbe stata la strategia della tensione nelle forme che ha assunto se non ci fosse stato il movimento del ’68, del ’69, del ’70 e poi quelli seguenti? Anche questa è una domanda cui noi all’epoca abbiamo risposto con molta sicurezza no, questa era la risposta puntuale - avevamo detto - alla crescita del movimento, oggi alla luce anche della documentazione storica che abbiamo a disposizione, forse la domanda dovrebbe essere più sfumata; indubbiamente oggi sappiamo che la strategia della tensione è stata preparata molto prima della comparsa del movimento degli studenti e del movimento degli operai alla fine degli anni ’60 e inizio anni ’70 e che probabilmente sarebbe stata portata avanti da una matrice simile a quella che ha portato il colpo di stato in Grecia. Però, sicuramente, anche lì non avrebbe avuto da un lato la continuità, l’arroganza che ha avuto e, soprattutto, non avrebbe avuto quelle implicazioni politiche che ha avuto grazie alla risposta che è venuta dal movimento se il movimento non ci fosse stato. E quindi forse è bene non pensare che tutto sia avvenuto in funzione di risposte a quello che era successo; sicuramente il contesto da cui la strategia della tensione è partita è stata una cosa che gli ha fatto avere effetti molto più dirompenti. Ma la terza domanda che ci dobbiamo porre e che è molto semplice: ci sarebbe stata la strategia della tensione nella forma che ha assunto, cioè di una strage all’anno, più tutto quello che lo ha accompagnato nel senso di utilizzo politico, se la magistratura italiana fosse riuscita, avesse provato a fermare in tempo, dopo la strage di piazza Fontana, gli autori individuandoli e fermandoli? Io penso che non solo non ci sarebbero state altre stragi o ce ne sarebbero state molto meno, ma tutto questo avrebbe avuto un effetto di saldatura nel senso di comunicazione molto più grande fra i movimenti e una componente del mondo istituzionale che invece allora si è divisa e non ha mai più trovato un momento di confronto. Cioè quello che io voglio sostenere è che quella parte della magistratura, sicuramente maggioritaria, che ha lavorato sistematicamente dal ’69 in poi ad avallare i depistaggi dei servizi segreti e a trasferire i processi da un punto all’altro, da Milano a Roma, da Roma a Milano, da Milano a Catanzaro, da Catanzaro a Bari, per affossarli, per non far emergere la verità sia stata non solo complice di fatto dei depistatori e degli autori della strategia della tensione che poi risalgono alle stesse centrali, ma gli ha di fatto preparato il terreno perché dopo una strage un’altra se ne preparasse, sicuri dell’impunità che gli sarebbe stata garantita. Ed era possibile che la magistratura, all’indomani di piazza Fontana, individuasse e fermasse i responsabili? Ebbene si, era possibile. Il movimento di sinistra degli anarchici milanesi, da Lotta Continua a successivamente molte altre, sia personalità che raggruppamenti di sinistra avevano, senza essere dotati di poteri inquirenti, individuato perfettamente - ad esempio il libro "la strage di stato" è del 1970 - se non i nomi e i cognomi di tutte le persone direttamente coinvolte nell’organizzazione della strage di stato, delle centrali operative a cui ... E quindi questa non è stata una incapacità della magistratura di seguire la sua strada, ma è stata una scelta determinata di corresponsabilità con quello che stava succedendo. Il risultato di tutta questa cosa qua, per venire al punto che giustifica la mia presenza qua è che oggi gli autori, in particolare della strage di piazza Fontana, sono impuniti e resteranno impuniti, perché alcuni sono stati assolti dalla magistratura italiana con sentenza definitiva e non possono più essere sottoposti a processo nonostante che le nuove risultanze giudiziarie indichino esattamente in loro se non gli autori materiali, perni attorno a cui è ruotata quella strage, ed altri sono impuniti perché sono dotati tuttora per esempio di passaporto diplomatico permanente rilasciatogli dal ministero degli esteri italiano e dagli organismi dello stato italiano, mi riferisco a Dotti. Mentre le persone che si sono impegnate per primi, con più forza e probabilmente anche con molti errori ed eccessi ma sicuramente con una chiara coscienza politica e morale dell’importanza di questa battaglia e cioè degli esponenti di Lotta Continua, oggi sono in prigione con un’accusa da cui non solo si dichiarano innocenti, ma che è stata suffragata nel corso di nove anni di vicende giudiziarie e di numerosi processi, esclusivamente con argomentazione di carattere politico. Le prove della colpevolezza di Sofri, Pietrostefani e Bompressi non sono nel racconto di Marino che è contraddittorio, che tutti quanti sono d’accordo nel dire che non si regge in piedi - per sostenerla hanno dovuto cancellare i testimoni, le prove, hanno dovuto annullare le decisioni dei giurati, hanno dovuto esercitare pressioni di ogni tipo su altri giurati perché arrivassero ad una sentenza di condanna - le prove e le motivazioni della condanna di Sofri, Bompressi e Pietrostefani è che sono corresponsabili gli autori della campagna di denuncia contro uno, o alcuni, o un meccanismo che ha partecipato direttamente, sicuramente al depistaggio dell’indagine su piazza Fontana e probabilmente anche alla preparazione della strage stessa.

Allora di fronte a questa situazione io sono molto d’accordo con Sodani, che una battaglia per l’indulto o per qualsiasi altra soluzione di carattere legislativo generale che debba coinvolgere tutte le persone che sono state colpite da condanne nei processi relativi ai fatti degli anni ’70 non può avere speranze di vincere se non è legata a una grande battaglia, al tentativo di rimettere in piedi una grande battaglia politica e soprattutto culturale che investa anche, e chiami alle sue responsabilità il mondo della cultura, il mondo della scuola, sulla ricostruzione della verità su quello che riguarda quegli anni. Cioè non sarà, con tutto l’impegno che ci mettono i parlamentari che lavorano da anni su questi temi qua, non sarà la vicenda parlamentare a mettere capo all’indulto se non verrà sostenuta da una richiesta molto più forte di cui oggi una minoranza si fa portatrice, ma, in altri anni dalle minoranze sono nati anche dei grandi movimenti, delle grandi campagne ... per chiedere giustizia e soprattutto per chiedere verità su queste cose. Vorrei dire un’ultima cosa sulla peculiarità del caso Sofri, Bompressi, Pietrostefani; intanto come sapete non rientra nei termini del provvedimento legislativo di indulto che è stato proposto ma che i comitati Liberi Liberi hanno gestito in questi ultimi anni come una questione sicuramente collegata con tutte le tematiche relative alla ricostruzione della memoria di quegli anni ecc., ma anche come un caso specifico. Il caso specifico del processo Sofri, Bompressi e Pietrostefani sta essenzialmente ..... Il problema dell’innocenza e della colpevolezza è fuori discussione; ciascuno si tiene le proprie opinioni e non sto qua a perorare l’innocenza di Sofri. Sto qua, invece, a denunciare decisamente i meccanismi giudiziari che hanno portato alla sua condanna e che hanno perpetuato per nove anni di seguito attraverso le violazioni più scoperte non solo del codice delle leggi, ma di qualsiasi deontologia professionale, stravolgendo completamente il meccanismo processuale. Questo è, secondo me, il risultato di quel processo di degenerazione della giustizia italiana che è iniziato proprio con la gestione del periodo emergenziale con l’impegno in prima linea dei magistrati come antagonisti del terrorismo, come paladini e cavalieri di questa lotta invece che mantenere nella loro posizione di giudici, di valutatori di quello che le indagini avevano fatto e che li ha rivestiti di un ruolo di cui non si sono più spogliati, che oggi la vicenda Calabresi - con tutte le illegalità che non vi sto a ripetere che l’ha caratterizzata - è il caso di dire che è il risultato di quello che ci troviamo oggi di fronte per cui la necessità di affrontarlo nel modo in cui, anzitutto gli imputati ma anche i comitati Liberi Liberi che li hanno voluti sostenere, li ha affrontati cioè prioritariamente e fondamentalmente sul piano giudiziario del diritto, senza negare nessun tipo di solidarietà e di rapporto, di comprensione e di sostegno a chi sta facendo la battaglia sull’altro terreno. E’ proprio un’azione di denuncia su quali sono i risultati del processo di degenerazione della giustizia a cui siamo arrivati. Ricordo semplicemente che domani 15 dicembre, anniversario della morte dell’anarchico Pinelli gli avvocati di Sofri, Bompressi e Pietrostefani presenteranno in procura a Milano l’istanza di revisione del processo, la presenteranno in una conferenza stampa a Milano e poi in parlamento, al senato e ai gruppi parlamentari, Radio Popolare domani mattina farà un telefono aperto su questo documento che però nessuno di noi ha visto e che contiene notizie abbastanza esplosive che non possono essere anticipate prima di metterle a disposizione della magistratura e che martedì 16 dicembre alle ore 21 alla Camera del Lavoro di Milano si terrà un’assemblea aperta con tutti quanti per discutere su questa vicenda e in particolare dell’atto, del documento con cui è stata chiesta la revisione del processo.

PAOLO CENTO: io credo che l’incontro di oggi serva per fare il punto non solo della battaglia sulle diverse proposte di legge sull’indulto e del loro iter parlamentare, ma anche per comprendere cosa di nuovo è accaduto negli ultimi mesi, diciamo da luglio ad oggi, sul terreno della politica e della società civile che in qualche modo ha condizionato e credo condiziona in maniera significativa anche lo sviluppo della battaglia sull’indulto e in qualche modo quindi il nesso che c’è fra il bisogno di verità nella ricostruzione della memoria e dell’identità storica di questo paese e dei suoi movimenti e la libertà fisica, oltre che culturale, di coloro che di quei movimenti ne sono stati protagonisti. Il fatto nuovo sta nella misura che questo governo e credo l’insieme delle forze politiche, culturali e istituzionali che oggi detengono le leve del comando di questo paese si sono misurate per la prima volta con forme di conflitto sociale che dal mese di settembre in poi hanno attraversato questo paese. Ed è evidente che forme di conflitto sociale, in sé non ancora movimenti e in sé non ancora identità antagonista, hanno riproposto il problema del controllo sociale e della disciplina sociale in un contesto seppur governato da forze di centro-sinistra. Lo dico perché credo che se noi non facciamo questa riflessione, non comprendiamo il perché nel mese di luglio tutti i maggiori leader delle forze politiche della sinistra, e non solo, hanno dato un’apertura di credito alla possibilità concreta, misurata attraverso un fatto concreto importante che non va sottovalutato che è l’approvazione in commissione giustizia della camera degli articoli del provvedimento di indulto, poi possiamo discutere se è perfettibile o meno, se è comprensivo di tutto, però dando l’impressione politica negli interventi che andavano dal segretario di Rifondazione Comunista al leader dei Verdi, a Folena a D’Alema, cioè tutti coloro che in questo paese hanno la responsabilità - ovviamente con gradi di incisione diversa - hanno le leve delle decisioni in parlamento e del cambiamento di un clima culturale e politico anche attraverso l’utilizzo degli organi di informazione che in qualche modo determinano delle campagne - e sappiamo quanto queste campagne condizionino l’opinione pubblica - e quello che invece da settembre in poi si è verificato con l’insorgenza di forme di conflitto su cui per la prima volta si sono sperimentate da una parte la difficoltà della sinistra più attenta a porsi in collegamento e dall’altra si è sperimentata una sorta di movimento attivo a sostegno del governo e delle politiche del governo che molto fa somigliare, fa rendere la situazione politica che noi oggi abbiamo per alcuni aspetti in via di irrigidimento a forma di regime.

Io cito due fatti che sono credo significativi e su cui la riflessione non è stata adeguata e sufficiente: l’occupazione delle scuole a Roma, ma credo che fatti simili siano capitati in tutta Italia, ad esempio al Mamiani, dove una radicalità come quella del collettivo politico studentesco di quella scuola ha avuto per la prima volta, costruita dagli organi di informazione sotto una direzione politica delle forze politiche della sinistra nella città di Roma, la costruzione di un movimento contro l’occupazione che vedeva protagonisti genitori, studenti e docenti guidati dal preside, ex partito comunista e punta di diamante del tentativo, per la prima volta non più solo repressivo, di costruire un movimento di opinione contro una forma di radicalità che in quella scuola si esprimeva e che rischiava di diventare esempio estendibile ad altre scuole. Secondo esempio è ciò che è accaduto con la mobilitazione dei detenuti che è iniziata nel mese di settembre e che ha avuto nei giorni del 10 -11 e 12 dicembre un altro momento di passaggio e di verifica nazionale su cui il sistema dell’informazione e quindi anche il sistema della politica ha creato un circuito di silenzio e quindi ha messo il silenziatore a una forma di contraddizione e conflitto che non era più mediabile e gestibile dentro la normale dialettica democratica e dentro anche al gioco della dialettica che esiste nel centro-sinistra per cui a volte Rifondazione Comunista rompe un po’ i coglioni o i Verdi rompono un po’ i coglioni, ma sostanzialmente sono ben compatibili dentro a una dialettica che non accetta che questa rottura che più volte si manifesta, abbia poi invece la sedimentazione di movimenti e di conflitti sociali. In questo contesto io credo che il cambio di marcia che c’è nelle forze politiche del centro-sinistra, il cambio di marcia che c’è stato sulla vicenda dell’indulto è strettamente funzionale al fatto che riconoscere oggi l’indulto e riconoscere la politicità, seppure postuma, dei movimenti che hanno attraversato la storia degli anni ’70 in questo paese significa in qualche modo riconsegnare attraverso un processo, anche legislativo, una memoria e una radicalità che oggi può trovare forme di espressione, forme di identificazione, forme di identità che non sono direttamente riconducibili alla dialettica che c’è nel centro-sinistra, alla dialettica che c’è fra le forze parlamentari e quindi sono un elemento di disturbo. Io credo che tra i tanti motivi che sono stati detti per cui il dibattito sull’indulto in Parlamento e sugli organi di informazione si è arenato, c’è anche il motivo di una ripresa e di una insorgenza di movimenti, di embrioni di movimenti, di soggettività sociali che in maniera disordinata, che in maniera ancora disaggregata, però pongono, con sempre più forza e sempre più evidenza, un bisogno di radicalità e nelle trasformazioni di questo paese e nel rapporto tra questo paese e i bisogni di socialità e l’Europa e il trattato di Maastricht che non sono compatibili per cui era bene fermare quel processo politico di modifica per ammonire e dare un segnale molto chiaro a chi oggi in maniera ancora dispersa e disgregata, però comincia a porre problemi di conflitti e di antagonismo fuori dallo schema politico tradizionale. Questa è la realtà per cui il dibattito sull’indulto trova un suo arenamento e credo che se questa riflessione, che certamente non ha la verità, ma che credo è uno dei punti di partenza che noi dobbiamo avere nel dibattito di oggi, dovremmo da queste riflessione anche trarre alcune conseguenze su come riprendere quel cammino e quel lavoro che positivamente da un anno a questa parte e non certo per merito dei parlamentari - io l’ho sempre detto nei dibattiti a cui ho partecipato, il problema della presentazione delle leggi era la strumentazione tecnica che quel dibattito poteva darsi - ma il fatto positivo è che in questo paese si erano rideterminate dentro la creazione anche di alcune esperienze, dalla Rete Sprigionare a dibattiti, confronti, mobilitazione; la manifestazione a Roma del 12 maggio di Giorgiana Masi, momenti in cui si usciva dal circuito tradizionale e si cercava di investire la società civile. Allora credo che forse uno degli errori che sono stati commessi, che abbiamo commesso, nel portare avanti questa battaglia è quello di non dare a questa battaglia il senso della politicità, di pensare che questa vicenda dell’indulto la si poteva affrontare e vincere solo sul terreno del riequilibrio delle pene giudiziarie; questa è una strada sbagliata, è una strada che non ha prodotto i frutti sperati perché il riequilibrio delle pene giudiziarie è un terreno su cui oggi non si innesca nessuna contraddizione perché l’emergenzialità prodotta negli anni ’70 della magistratura antiterrorismo è la stessa emergenzialità che ancora oggi si riproduce su tutti i terreni di regolamentazione del conflitto sociale: dall’immigrazione alle droghe, dalla mafia e so’ che è provocatorio dirlo, ma bisogna avere il coraggio di dirlo, a Tangentopoli, queste sono le forme su cui oggi si riproduce un sistema giuridico emergenziale ed è il problema della pena in un paese dove si rischia sei anni per qualsiasi reato, la sovrapenalizzazione non è oggi la contraddizione forte che riesce a scardinare e a mettere in crisi il sistema che ha determinato le leggi speciali e gli anni ’70.

E questo è vero se noi lo rapportiamo, per esempio, al dibattito che c’è stato sulla depenalizzazione dei reati minori; va beh, la legge certamente è importante perché bisogna riconoscere quando si fanno dei passi avanti, ma quella legge sulla depenalizzazione dei reati minori ha depenalizzato qualche assegno fatto a vuoto, ma non è intervenuta su nessuno dei meccanismi di conflitto e su nessuna delle forme di reato che non hanno nessuna valenza rispetto alla sicurezza delle persone, ma hanno solo la valenza di creare le condizioni per interventi penali repressivi laddove il conflitto si manifesta. L’attacco che ieri il presidente della repubblica ha fatto sui blocchi stradali, guardate non è casuale, l’abbiamo tenuto sottotono rispetto all’approvazione della legge sulla depenalizzazione, ma guardacaso incide sull’unica norma che nella depenalizzazione dei reati minori è stata introdotta con valenza sociale che è proprio la depenalizzazione dei blocchi stradali e dei blocchi ferroviari. Non è un caso che ieri la presidenza della repubblica con il contorno di alcuni giuristi, più o meno noti, è intervenuta parlando dei trattori e degli allevatori del Veneto su questa vicenda, ma il vero obiettivo è attaccare l’unica vera norma che dentro la depenalizzazione dei reati minori, qualora dovesse essere approvata - alla Camera è stata approvata e sta in discussione al Senato - rappresenterebbe un terreno positivo di confronto laddove c’è un conflitto e quindi di intervento per modificare la norma penale quando interviene in termini repressivi sul conflitto sociale e non certo per garantire "la sicurezza e l’ordine pubblico" all’interno del .... Quindi la battaglia non può essere solo giuridica, la battaglia ha da investire una questione politica e lo dico anche perché mi dispiace che oggi non c’è Folena, mi dispiace anche che non c’è Manconi - e quindi parlo anche di casa mia - sarei stato contento anche di Bertinotti, anche se c’è Vendola, perché, ad esempio, se non si assume la battaglia politica non si comprende perché quello che tecnicamente e politicamente in Parlamento accade su tutte le leggi che è lo scambio tra maggioranza e minoranza laddove c’è l’assunzione di priorità, la vicenda dell’indulto non è stata posta su un terreno, anche di "trattativa" istituzionale e parlamentare nel momento in cui si dà il via libera, al di là dell’ostruzionismo, al di là del fatto che ci siamo sbracciati un po’, ma sostanzialmente si è dato il via libera in parlamento per la discussione della legge sul rientro dei Savoia. Tecnica parlamentare mi dice, in questo anno di presenza in parlamento ho imparato, che se le forze politiche che hanno dichiarato di volere l’indulto lo volevano davvero quella era la sede per una trattativa politico-istituzionale-parlamentare che può non piacere ai movimenti, a chi sta all’esterno del parlamento, ma che forse consentiva di dire cara Alleanza Nazionale, cara Forza Italia se volete la discussione di una legge costituzionale che ha bisogno dei 2/3 così come quella dell’indulto per i protagonisti degli anni ’70, come il rientro dei Savoia o c’è un terreno per cui marciano tutte e due oppure la sinistra, il centro-sinistra quella legge all’ordine del giorno non ve la fanno mettere; questo non è accaduto, questa è la dimostrazione che oggi c’è un arretramento in termini politici, in termini culturali sulla battaglia sull’indulto perché c’erano le condizioni per porlo all’ordine del giorno utilizzando questa contraddizione all’interno dello schieramento parlamentare e mettendo, visto che hanno la stessa connotazione tecnica, in stretta correlazione, certo non di merito - perché sarebbe ovviamente un’offesa rispetto a ciò che rappresenta la storia e la legge sull’indulto - ma giocando sulla contraddizione puramente istituzionale e parlamentare e forse ci avrebbe consentito di portare a casa un risultato in tempi più brevi di quelli che ci si prospettano realisticamente con la bicamerale e con tutto quello che sapete già.

E’ finito il tempo del politicismo e delle mediazioni, io credo che questo movimento che si è determinato sull’indulto deve avere la capacità di fare due passaggi; il primo passaggio è quello di collegare la battaglia sull’emergenza degli anni ’70 alle emergenze sociali e nei confronti dei movimenti oggi emergenti, perché noi dobbiamo conquistare alla battaglia sull’indulto i nuovi soggetti sociali che sono protagonisti del conflitto, far capire che quell’emergenza è parte dell’emergenza quotidiana che si vive oggi; l’intervento della polizia al Mamiani non è altro dall’intervento repressivo, ovviamente su livelli diversi e su uno scontro sociale più alto, di quello che si è manifestato negli anni ’70. Esiste una continuità e noi, come dall’altra parte mettono in comunicazione e rivendicano queste continuità di interventi, dobbiamo conquistare a questa battaglia i nuovi soggetti protagonisti di forme sociali di conflitto e allargare lo spettro, non essere più solo la battaglia dei reduci degli anni ’70, ma dargli una prospettiva di futuro che riguarda anche la quotidianità dei nuovi soggetti e delle praticabilità di forme di conflitto e di forme di agibilità sociale. La seconda è quella di mantenere in un dualismo intelligente e antagonistico anche un forte stimolo sulle forze parlamentari, un forte stimolo sulle rappresentanze istituzionali, perché è da lì che comunque la legge passa. Io credo che sia stato un momento di debolezza che questo movimento che da un anno e mezzo ha ripreso la discussione sull’indulto non abbia investito il parlamento in forme anche nuove e originali, marcando la propria diversità, non abbia investito di queste contraddizioni il parlamento in termini visibili e in termini di stimolo e di critica senza diventare di volta in volta i soggetti utilizzati da questo o quel parlamentare, compreso il sottoscritto, ma rivendicando una propria azione autonoma di intervento, di critica, di radicalità rispetto al parlamento. Credo che questo è il passaggio che noi abbiamo da gennaio, perché se è vero che si dice che bisogna finire i lavori della bicamerale e quindi della riforma costituzionale per approvare l’indulto, è anche vero che siccome un altro dei termini del ricatto che il ceto politico pone, che è la soluzione su Tangentopoli sta venendo meno perché i processi stanno andando in prescrizione, noi rischiamo di consumare anche questo anno senza poi trovarci nelle condizioni di forza politica, culturale e materiale per poter imporre dopo le riforme istituzionali, il completamento dell’iter dell’indulto e forse rischiando anche di veder compromessa la modifica dell’art. 79 della Costituzione, perché emendamenti per introdurre i 2/3 come quorum per approvarlo ci sono e sono, guardacaso, quasi tutti firmati da deputati della sinistra dei diversi schieramenti. Questa è la realtà, queste sono le condizioni. E allora capacità di iniziativa politica, capacità di collegarsi rispetto ai nuovi conflitti sociali, ai nuovi movimenti, credo che questa battaglia è una battaglia che deve uscire dalle secche di un puro sguardo al passato, ma porre quel passato in una prospettiva di liberazione di memoria che riguarda il presente e il futuro. Credo che ce ne sono le condizioni, si tratta di affrontarla con coraggio e anche con radicalità rispetto al passato.

NIKI VENDOLA: Qualche settimana dopo io rapimento e l’omicidio dell’on. Moro, in un paesino del palermitano fu trovato letteralmente a brandelli il corpo di un militante comunista chiamato Peppino Impastato. I carabinieri della stazione di Cinisi fecero una relazione che chiudeva sostanzialmente l’indagine con la seguente tesi: Peppino Impastato è un terrorista rosso ed è morto mentre cercava di mettere a punto un attentato, mentre cercava di depositare dell’esplosivo per un attentato. Il carabiniere - lo dico tra parentesi - che ha scritto quel verbale ha fatto carriera, è diventato generale dell’arma dei carabinieri e oggi è consulente del ministro degli interni. Lo dico tra parentesi però la parentesi meriterebbe, diciamo, un ragionamento a se. Ecco anche in quella terra così lontana, in questo pezzo così apparentemente abitato da una lontananza abissale come Cinisi, in qualche maniera fa capolino lo stato, sia attraverso la menzogna durata 20 anni su Peppino Impastato, sia attraverso qualcosa che ritornerà sovente nella storia italiana ed è il rapporto tra servizi, terrorismo neofascista e mafia. Perché mi prende al cuore questo episodio: non soltanto per il rapporto emotivo con la storia di Peppino Impastato, ma perché noi spesso discutiamo - la dico così - di testi senza contesto, anche la discussione sulla lotta armata, anche in relazione ad alcuni contributi un po’ letterari, un po’ narrativi di alcuni protagonisti della lotta armata - mi riferisco al dibattito di due anni fa sulle colonne dell’Unità - hanno tutto sommato consentito uno sguardo molto di comodo nei confronti di quella problematica; fummo un pezzo di generazione in preda ad una sorta di dissipazione nichilista, fummo una specie di sturmung drang dei tempi nostri, come dire categorie letterarie, maledettismo applicato alla politica, tutto molto utile a rimuovere il problema politico rappresentato dall’insorgenza di un fenomeno di insubordinazione sociale e politica, anche armato, che fu la reazione allo stragismo di stato da parte di un pezzo di movimento che si era formato negli anni della contestazione studentesca. Io ho difficoltà, se non si ricorda questo che per molti di noi è uno schema anche banale, ma se non si è capaci di ricostruire pienamente quello che appunto Sciascia chiamava il contesto, noi manipoliamo del materiale sconosciuto e, per esempio, dobbiamo di volta in volta ricorrere a categorie metafisiche, letterarie, pietistiche per poter o cercare di conquistare simpatie alla nostra battaglia o, per i nostri avversari, per cercare di seppellire quei duecento compagni nel carcere a vita, nel carcere eterno.

Allora fa bene Paolo quando mette in relazione un certo passato con delle coazioni a ripetere che si vedono anche nel tempo presente; io la dico così perché non bisogna, per la nostra cultura politica è molto più facile scorgere nella vicenda del Mamiani la filigrana di una coazione a ripetere, ma attenzione non è solo il Mamiani. L’emergenza è diventata un paradigma, lo abbiamo detto tante volte, nessuno meglio di Mauro; questo paradigma si è tradotto in un modello disciplinare di regolamentazione della complessità sociale, ha avuto la sua espressione legislativa più compiuta nella legge Craxi-Iervolino-Vassalli sulle tossicodipendenze - questo piccolo capolavoro criminogeno - e si è inverato questo paradigma nella realtà effettuale del carcere; un luogo come il carcere, oggi, pieno di tossici, di immigrati, di gente con problemi di salute è esattamente l’inveramento di questa idea, l’emergenza come risposta generale di semplificazione autoritaria ai problemi della complessità, badate! Ma anche la discussione sulla violenza sessuale, parlo di un infame testo di legge approvato l’anno scorso in un clima di euforia ecumenica in parlamento, approvato dall’intero parlamento che al tema dello stupro nei confronti delle donne reagiva nella più classica delle maniere, proponendo una sovrapenalizzazione. E badate il dibattito viscerale, simbolico che si è aperto a proposito del terribile omicidio del bambino Silvestro Delle Cave a Cicciano e quello che è accaduto dopo la morte per mano divina, si è detto, del cosiddetto mostro di Cicciano, siamo all’apoteosi della celebrazione di questa cultura dell’emergenza che ha bisogno di inventare mostri, di nutrirsi del rito sacrificale del mostro di turno. Evvivaddio che esiste il mostro di Cicciano perché consente a tutti noi di ucciderlo, sia pure per mano di dio, e di non discutere di quella mostruosità che attiene all’ordinario, che attiene alla normalità che sta dentro la nostra vita quotidiana.

Allora per quello è davvero importante tornare a discutere di quegli anni, dell’insieme di questioni politiche e sociali che lì sono venute emergendo, e della risposta dello stato. Io ho avuto un confronto drammatico e anche bello, ultimamente, con i parenti delle vittime della lotta armata. L’ho avuto nella sede parlamentare, nella commissione giustizia della camera. Noi dobbiamo da un lato reagire con sdegno a questa deroga, che avviene soltanto per questa legge, per cui la legge in questo caso non è la norma, non è astratta, ... tendenzialmente universale, in questo caso deve essere fatta sotto dettatura di una parte, sia pure la parte che ha subito un’offesa, a volte un’offesa non quantificabile e mai più remunerabile. Però contemporaneamente credo che l’ascolto anche nei confronti di chi ha subito quest’offesa sia un atteggiamento, non lo dico in maniera diplomatica, istituzionalmente doveroso, dico sia un atteggiamento politicamente utile. Senza che questo crei scandalo o fastidio da parte di nessuno, ma è stato drammatico perché la percezione plastica più sconcertante per me era questa: loro e i 200 in carcere così duramente schierati più o meno volontariamente su fronti contrapposti nella loro vita in realtà erano entrambi, oggi vittime di un pericoloso gioco politico, perché quando le mogli, le madri, o i figli delle vittime del terrorismo, come dicono loro, dicono non possiamo consentire che quell’uscio blindato venga schiuso perché non conosciamo ancora tutta la verità allora tu capisci che davvero non si può schiudere quell’uscio blindato perché lo stato o i poteri forti dello stato devono avere un ostaggio, un capro espiatorio dentro al carcere proprio perché le domande ancora inevase della storia degli anni ’70 e degli anni ’80 possano restare tali; cioè la durezza sepolcrale dello stato è inversamente proporzionale alla sua capacità di andare a fondo , perché come voi sapete su via Fani i protagonisti da una certa parte della barricata, quelli che poi hanno scontato anni di carcere, credo che abbiano raccontato tutto quello che era onestamente raccontabile. Se ci sono delle pagine bianche, se ci sono delle pagine strappate, chi dovrebbe colmare quelle lacune non è certo né Moretti, né Gallinari e neppure gli altri protagonisti delle Brigate Rosse, appartiene alla più verminosa storia dello stato, alla capacità di intercettare perfino l’autonomia piena di un movimento di insubordinazione armata, come fu l’eversione di sinistra degli anni ’70 per provare a ricomporlo dentro un mosaico che era il suo originario progetto eversivo cioè questa grande permanente vocazione eversiva della borghesia italiana, di una classe che non è ai stata dirigente ma è sempre stata dominante, è stata capace di egemonia ma prevalentemente per un cinquantennio è stata capace di esercitare forme di dominio. E allora per quello devono stare in carcere, devono stare in carcere, è necessario che stiano in carcere. Io devo dire onestamente evitiamo di dividerci tra fan dell’indulto e fan dell’amnistia, perché credo che potremmo soltanto coniugare le nostre rispettive solitudini e io avrei difficoltà a collocarmi, essendo stato - Mauro Palma lo sa - nel corso di tutta la mia vita pre-parlamentare nemico dell’indulto perché pensavo che per questa battaglia ci dovesse essere un massimo grado di politicizzazione e che a quel massimo grado corrispondesse lo slogan, l’obiettivo dell’amnistia. Naturalmente per quelle astuzie, quei paradossi della vita, mi sono trovato ad essere relatore in commissione giustizia del provvedimento sull’indulto e a dover anche pormi il problema di compiere le mediazioni che nel luogo istituzionale sono necessarie per il percorso; ve ne dico una quella di cui dovrei portare qualche segno di imbarazzo, ma ve la dico come è. Il problema degli esuli, voi non potete immaginare per aver pronunciato in maniera neutrale la parola esuli, anzi avendo detto testualmente: esuli o latitanti o rifugiati chiamateli come volete non facciamone una disputa nominalistica, essi rappresentano un problema vero; questa fu la mia locuzione precisa; per aver adoperato la parola esuli sono stato "fucilato", ma non dalla destra, ma da tutta l’area moderata del centro-sinistra nella commissione giustizia. Io mi riferivo a quelle che sono le tre nozioni che possono essere adoperate: rifugiati è la condizione oggettiva e legale dei nostri compagni oggi a Parigi; latitanti è il punto di vista dello stato e neanche tanto, perché perfino il ministero di grazia e giustizia quando compila l’elenco dei latitanti dentro non ci scrive i nomi dei compagni che sono a Parigi perché sono dentro uno status giuridico che è quello di rifugiati; oppure l’altra nozione un po’ più etica, un po’ più letteraria che è quella di esuli, che è la nozione con cui questi compagni descrivono se stessi e il proprio peregrinare. Bene, già questo è stato un impedimento alla prosecuzione del dibattito; che obiettivo dovevamo noi onestamente porci? L’obiettivo era quello comunque di travalicare l’ambito angusto della commissione per poter portare il provvedimento nelle aule del parlamento e allora il punto che appartiene al progetto di legge di Paolo sugli esuli non c’era nessuna condizione perché fosse punto di mediazione, era un punto non mediabile. La mia rinuncia ad inserire quell’articolo nel mio progetto di legge che è il testo unificato che io ho proposto alla commissione giustizia era semplicemente figlia di questa considerazione oggettiva; il progetto di legge se avesse tenuto dentro l’articolo sugli esuli non avrebbe fatto un passo neppure in commissione giustizia, tanto che il relatore disse: tolgo questo punto sapendo che esso è un punto politico vero, lo restituiamo poi all’interezza dell’aula, ne discuteremo perché naturalmente avremmo firmato emendamenti su quel punto nel contesto dell’aula pur sapendo che qualcuno poteva immaginare qualche vigliaccheria, ma davvero non so se le dinamiche della vita parlamentare possono essere immediatamente intese, ma questa è la logica. Ma noi ci siamo trovati con una battaglia che ha visto la medesima, per quanto appartata commissione giustizia, deserta. In tutti i momenti del dibattito, un anno di dibattito, con la presenza di Paolo, con la presenza mia, con l’assenza di tutti i compagni del PDS impegnati in questa battaglia, con la presenza di quei compagni del PDS che invece si sono messi di traverso rispetto a questa battaglia, con un ruolo positivo del partito popolare nella commissione giustizia che è esattamente il contrario della posizione che il partito popolare ha invece dal punto di vista delle scelte politiche nazionali. Questo è il garbuglio di situazioni in cui ci troviamo. Qual era la posizione alla quale in qualche maniera abbiamo dovuto piegarci? a quella che ha dettato Folena, la discussione sull’indulto è una discussione sul riequilibrio delle pene, quindi è una discussione, diciamo, di algebra carceraria, è una discussione tutta tecnico-giuridica. E’ ovvio che una discussione tutta tecnico-giuridica non può portare da nessuna parte, tanto più perché militano ragioni robuste per impedire di aprire quella porta, ragioni robuste, simboliche, politiche, perché la libertà piena dell’insieme dei protagonisti delle vicende della lotta armata in qualche maniera riconsegna al paese un problema che oggi è ostaggio delle patrie prigioni. E quindi questo, in qualche maniera, lo si vuole evitare.

Voi avete giustamente usato la parola memoria che io trovo, non vorrei dire un’eresia, più importante, o almeno ho più confidenza con questa che non con la parola verità, che è una parola molto più impegnativa e per certi versi un po’ più ambigua. Memoria: noi è vero o non è vero, che anche dentro questa battaglia scontiamo un clima culturale segnato dal trionfo del revisionismo storico? e che su questo piano dobbiamo attrezzare meglio una lotta di lungo periodo; la battaglia per la memoria non è la battaglia per la ricollocazione degli album di famiglia, non è la cerimonia dei ricordi, ma è la battaglia - esattamente - del giudizio storico, del bilancio stringente, del rendiconto di verità e di quanto di quel passato, che vorremmo analizzare, resiste, dura e ipoteca il presente. Vedete amici e compagni, la verità anche alla luce delle cose che diceva Paolo, tutte giuste e tutte pensate, è il giudizio che diamo di questa transizione politica, sociale e istituzionale che sta vivendo l’Italia, non compiuta, zigzagante, opaca in tantissimi passaggi; quale cesura vi è stata rispetto al passato e questa cesura quanto è stata diciamo, padronanza di giudizio storico e di verità e quanto è stata invece rimozione? Pensate al dibattito sui sevizi segreti: vivaddio che c’è un dibattito sui servizi segreti, ma voi pensate che il problema debba essere qual è il nuovo nome dei servizi segreti o qual è la nuova scansione: se invece di avere un servizio segreto civile e uno militare ne dobbiamo avere uno interno e uno estero. Potrebbero anche essere tutte cose di buonsenso vivaddio, ma il punto è o no che bonifica vuoi fare; il primo governo di centro sinistra, primo governo che ha un personale politico che non è colluso con la gestione stragista e mafiosa dello stato degli ultimi 30 o 40 anni che bonifica corpi di quegli apparati. Non mi interessa cambiare la sigla. Da chi gestisce il Ministero degli interni voglio sapere risposte sulla politica della sicurezza, certo, voglio capire se le forze dell’ordine debbono essere la N.U. al servizio del Pensiero Unico e quindi sgombrare le strade da tutto ciò che sporca la quiete del perbenismo piccolo borghese e quindi accanirsi su viados, puttane, barboni, giovani tossici e poi studenti, e poi vaccari e via dicendo o se invece, la politica della sicurezza non è, appunto, questo strumento di igiene sociale ma è un’altra roba. Ma dobbiamo discuterne, la discussione non è collocata sul binario giusto, ve lo dico francamente amici e compagni, perché su questo penso che dobbiamo avere più forte il senso di una battaglia. Ma il punto, ripeto e finisco, è esattamente il punto che riguarda la transizione che stiamo vivendo; io penso che è ,una specie di catena di S. Antonio delle rimozioni quella che noi scontiamo, perché noi rimuoviamo la storia degli anni ’80, la consegniamo anch’essa a categorie etico-letterarie, scontiamo la rimozione della storia degli anni ’70 ed è una china di rimozioni, di silenzi, di paure a ricordare, ma ci sarà un motivo se il ’68 continua a spaventare così tanto che ogni insorgenza di movimento merita immediatamente il dispiegamento di un’autentica macchina di guerra per l’offerta di forme di coscienza che consentano ai giovani di resecare ontologicamente qualunque rapporto con quel punto. Eppure tutti là attorno giriamo, cari compagni, non è la questione del look che tu adoperi, degli slogan che tu adoperi, del fatto che hai dell’eschimo e il libretto rosso, è il punto che lì, in maniera più compiuta e più di massa, si è dispiegata la grande, vera contraddizione del capitalismo italiano. E che quella contraddizione non l’hai mai sanata e ti torna ciclicamente, certo in forme involute, regredite, panstudentesche, come dire segnate da elementi di corporativismo, ma che vuoi? vuoi dal movimento studentesco, nel deserto della sinistra, dopo 20 anni di sconfitte, una compiutezza del percorso di trasformazione del percorso rivoluzionario? finché c’è una sola scuola occupata in questo paese forse uno può dire: beh la scuola si salverà, visto che è talmente quella la cartina di tornasole per compiere un’analisi di classe che non sia mera esercitazione sociologica ma anche lì c’è un punto veramente importante. Che fare? bene io penso che dobbiamo evitare, e forse l’abbiamo già cominciato a fare, di dividersi scioccamente tra chi pensa che bisogna guardare con un qualche raccapriccio per esempio alla linea difensiva adoperata, dall’inizio del suo calvario giudiziario fino alla fine, da Adriano Sofri, una linea socratica, rispetto a chi pensa invece che bisogna costruire un percorso squisitamente politico. Io dico che noi non dobbiamo dividerci, dico che abbiamo un interesse comune che è quello di riaprire i conti con gli anni ’70, altro che colpo di spugna! Noi abbiamo l’esigenza formidabile di riaprire i conti con gli anni’70 perché sentiamo che lì c’è qualcosa che riguarda le nostre gambe di oggi, che se sono paralizzate, che se con fatica si muovono, forse la patologia o l’elemento immobilizzante sta lì, per quello non solo perché vogliamo liberare degli amici, dei compagni, delle persone per cui proviamo solidarietà; certo vogliamo liberare anche delle persone, anche una sola persona è importantissima, ma perché lì dietro c’è qualcosa che mi prende, mi afferra per le caviglie, mi tiene ipotecato nella mia libertà di movimento. Per questo la battaglia di libertà, la soluzione politica sono questioni che non appartengono a minoranze estremiste, o a minoranze incazzate e non meritano soltanto di essere battaglie costruite con la nostra ira, di persone che considerano tutta l’indecenza del fatto che quelli lì siano ancora in carcere, ma sono battaglie che riguardano la grammatica delle libertà e dei diritti in Italia oggi, per cui noi dobbiamo occuparcene. Io dico che dobbiamo riprendere il percorso parlamentare, non vorrei trovare in voi o nei compagni in giro per l’Italia delle persone che già si arrendono, che sono completamente sfiduciate perché - lo posso dire ai compagni che stanno da questa parte del tavolo - è una specie di maledizione questa storia della lotta armata per la mia vita, certe volte davvero maledico il giorno in cui ho cominciato ad occuparmene perché quando tu pensi che è la volta buona, e chi sta qui l’ha pensato per 10 anni, ogni anno, ogni mese, che è una cosa buona e santa questa battaglia e finalmente conosci un gesto di decenza e di forza da parte del ceto politico, della democrazia italiana e poi ti ritrovi sempre, avendo fatto sentire il rumore delle chiavi, il chiavistello a chi sta dentro e poi, invece, rimetti il chiavistello al riparo. Questo è angosciante; figuratevi quando mi è toccato di prendere sulle mie spalle questo onere, ma anche questo piacere, e allora pensando questa volta ce la facciamo, ma io non mi vorrei arrendere amici e compagni. Non ce l’abbiamo fatta non solo perché i nostri avversari sono perfidi e cattivi, ma perché facciamo fatica anche noi ad organizzare la battaglia, perché dobbiamo essere meno schifiltosi gli uni degli altri, siamo gente sconfitta, che viene da tante storie sconfitte; piuttosto che guardare in cagnesco gli uni alle biografie degli altri, dovremmo essere capaci di tirare insieme una lezione dagli anni di questa sconfitta comune per poter avanzare insieme verso qualcosa che non sia la coazione al naufragio, ma che sia la possibilità di rimetterci su una barca per andare da qualche parte.

N. (Leoncavallo): bene compagni, secondo me ci sono stati, verso la fine di questo dibattito, alcuni interventi che hanno posto delle questioni che a mio avviso sono abbastanza .... l’intervento di Cento, l’intervento di Vendola .... io sono uno dei protagonisti degli anni ’70, mi sono fatto i miei 7 anni di galera. Il fatto che tutti i compagni che sono dentro, che abbiano avuto o meno la mia storia, vorrei che uscissero, ma credo che il fatto che in Italia questa cosa è ancora resa impossibile e tutto il discorso della liberazione, non della soluzione politica degli anni ’70, sia resa impossibile è perché non esclusivamente lo stato, e cioè quello stato diciamo così hegeliano, che tutto deve dominare altrimenti c’è la barbarie, ma le forze politiche di questo paese anche di sinistra che hanno formato un blocco di carattere statuale che andava oltre gli organismi dello stato. Quando negli anni ’70 le prime azioni di lotta armata si sono rivelate in questo paese quello che veniva fuori da parte delle forze dominanti del sindacato e della parte dominante dell’ex partito comunista dicevano che le Brigate Rosse erano agenti del SID, ci sono volantini su queste cose, ci sono documentazioni; io non sono mai stato delle Brigate Rosse, sono stato fiero avversario - politicamente ovviamente - delle Brigate Rosse, ma mi sono sempre dovuto trovare nel luogo dove lavoravo, alla Sit Siemens, a dover difendere da quest’infamia quel tipo di ingiuria che veniva detta. Questo perché succedeva? si diceva agenti del SID perché c’era una criminalizzazione di tutto ciò che andava oltre quella sinistra, che stava cercando di fare delle lotte che avevano dei contenuti non tradizionali. E dei contenuti non tradizionali erano, per esempio, l’egualitarismo; man mano negli anni ’70 questo tipo di percorso è andato avanti in maniera tale che aveva messo in discussione non evidentemente ed esclusivamente quello che viene detto lo stato, aveva messo in discussione lo stesso tipo di accordo costituzionale che si era formato nel dopoguerra. Quello che stava avvenendo era un nuovo movimento di trasformazione che forze politiche extra-parlamentari lo intendevano sì, in maniera diversa, però in maniera sincera contribuivano a cercare di portare avanti questa nuova trasformazione. Certo io mi battevo contro l’autonomia del partito armato perché per me era - lo dico oggi perché amo quei compagni, non lo dico perché li voglio in galera - un’autonomia dal politico istituzionale da parte della sinistra e un’autonomia dal politico della lotta armata che però, comunque, mi era più vicino, perché era vicino a me, faceva comunque delle lotte; mentre quella parte di sinistra istituzionale che sapeva benissimo come erano composti i servizi segreti: ma che cosa mi venite a dire che forse i "paghetta" non conoscevano la composizione dei servizi segreti che erano ereditari del fascismo, che la grande amicizia di Andreotti con personaggi di questa sinistra non si parlavano e non sapevano quali erano le condizioni e le pazzaglie all’interno dello stato in Italia? A noi, comunque, il partito comunista ci diceva dormite a casa che forse ci può essere il colpo di stato, che forse ci possono essere le retate. Ma il problema vero non è questo, è che negli anni ’70 la lotta non si era dispiegata solamente in Italia, ma a livello internazionale e mondiale si era dispiegata questa lotta. La globalizzazione della lotta era avvenuta negli anni ’70 perché in Uruguay, perché in Argentina, perché in Italia, perché in Francia, perché in Germania, perché in Africa, compagni, perché Amid già negli anni ’70 ci aveva detto attenzione all’Africa che stanno venendo fuori delle lotte e se la parte più avanzata del capitale non sta attento noi avremo la risposta integralista islamica e così è stato. C’erano analisi negli anni ’70 che sono attualissime. Non si vogliono liberare gli anni ’70 perché c’è un filo di continuità di analisi, c’è un filo di continuità di prefigurazione nell’oggi. Quello che la Rete Sprigionare, i centri sociali, hanno fatto in questo anno e mezzo tac! ad un certo punto che cos’è che si è rivelato? si è rivelato che quest’indulto o quest’amnistia o la soluzione politica per Sofri, Bompressi e Pietrostefani non vengono fuori perché il filo conduttore non del mio o del tuo percorso, Viale, o quello dei compagni qualcuno qui delle Brigate Rosse vedo, ma di un certo tipo di analisi che negli anni ’70 era venuto fuori che era quella di una nuova produzione e delle crisi strutturale del capitale che un ceto tipo di borghesia, ovvio, ma anche di sinistra aveva paura di queste cose. E diciamolo una volta per tutte queste cose! È così difficile poterle dire? E’ vero che quello che la magistratura ha fatto rispetto a Sofri, Bompressi e Pietrostefani è la risultanza di un certo tipo di lottatrice diciamo della magistratura, ma non è vero che questo tipo di risultanza sia un qualcosa che va fuori da quella che è stata la lotta negli anni ’70 in Italia. Oggi, Mauro, non è che in magistratura ci sono i magistrati che condannano Sofri, Bompressi e Pietrostefani, è che quando tu vai in magistratura per fare un processo di lavoro sai di essere al 99% sconfitto. Questo è. Gli anni ’70 avevano capito una cosa terribilmente fondamentale, che la comunicazione entrava in produzione. E la produzione della trasmissione su piazza Fontana, su Rai Due, è un gioiello di produzione di .... non è un gioiello di produzione televisiva, di talk show, è un gioiello di produzione di ..... perché tutto ormai è entrato in produzione. Questo governo io non credo che sia solamente vile, io penso che abbia paura perché una trasmissione come quella che cos’è che ha fatto? a me, se ti devo dire la verità che pure ho 53 anni e che politica ne ho fatta - se permettete ero uno dei segretari soggettivi di Rosso - che la magistratura disse avremmo vinto contro le BR, avremmo vinto contro tutti, ma contro questi che cambiavano in continuazione; sì noi ci trasformavamo man mano che si trasformava la società. E allora questa trasmissione di paura che c’è stata è una trasmissione che non deve far liberare quello che lavora alla robotica della Fiat, è una trasmissione di paura che deve fare in modo che tu abbia paura. Il compagno del centro sociale che non vuole lottare solamente per la liberazione degli anni ’70, ma che vuole cercare di imprimere una via diversa a quello che è un sociale di carattere odierno, un sociale che deve cercare di liberarsi non dentro un’antica struttura capitalistica, ma dentro una moderna struttura capitalistica; e allora questo governo non fa fuori la legge Reale che non ha bisogno di avere i 2/3, ma che potrebbe con il 51% farla passare. Ma un blocco stradale deve essere ancora un blocco stradale e tu devi rischiare la galera, perché il blocco stradale non è in sé, un blocco stradale è un tua comunicazione nell’interno di questa società, tu che di comunicazione ne hai talmente poca. Le 40 denunce, le migliaia di denunce che per esempio hanno i compagni del Leoncavallo o i compagni di altri centri sociali in giro per l’Italia servono non perché c’è una cattiveria di qualcuno, ma perché c’è un ordine produttivo da mantenere. Quindi io sono convinto, Viale, che noi dobbiamo fare tanto, però io sono felice se Sofri, Bompressi e Pietrostefani escono anche se loro dicono noi con gli anni ’70 non c’entriamo, io credo che c’entrino, perché quello che loro si dice hanno fatto su Lotta Continua ecc. così., hanno cercato di portare un momento di verità con coraggio negli anni ’70. Fa niente io non mi divido, non sono qui per dividermi, però credo che il discorso che faceva il compagno di Walter, dobbiamo costruire un movimento di massa, certo che sì, ma glielo dico anche a Vendola, noi come centri sociali siamo maturi è questo che nessuno ha voluto capire. Noi come centri sociali siamo maturi per ricattare tutti i partiti. E sarà anche un ricatto di carattere elettorale, si sta manifestando un nuovo movimento che vive fuori dai sacrifici che c’è dentro questi centri sociali; sta maturando un punto di vista politico che non vuole solamente liberare i compagni, ma che vuole liberare i compagni a partire dalla difesa delle proprie condizioni di fare questo collegamento con le prefigurazioni che negli anni ’70 c’erano, senza avere la paura che invece trasmissioni tipo Rai 2 ci vogliono trasmettere e inculcare, dove servizi segreti ci infiltrano, non ci possiamo muovere. Noi lo sappiamo quello che sono, noi la verità che volevamo non era la verità su chi ha messo le bombe di piazza Fontana o e altre bombe , volevamo la verità, che qualcuno dicesse che politicamente è stato comodo a qualcuno mettere quelle bombe perché noi politicamente lo sapevamo, ma perché nessuna forza politica anche di sinistra non lo dice; il discorso che la verità è un sacrificio, anche, la verità non è un qualcosa che è così, perché la verità è lotta. I centri sociali sono maturi per questo tipo di lotta, sono maturi rispetto ad un nuovo punto di vista, dai centri sociali nasceranno progetti di trasformazione per il futuro. E allora se ci sono forze che vanno da Rifondazione Comunista o ai Verdi o parte del PDS che vogliono lasciare libere queste cose, che vogliono fare una battaglia che non è più la battaglia per la lotta di classe di n tempo, ma che sono due società che si vanno ad affrontare: una società conservatrice e una società di carattere, progressiva e rivoluzionaria che vuole portare una trasformazione diversa, produttiva, culturale in questo paese, aboliscano immediatamente un certo tipo di leggi che non hanno bisogno di fare i conti nemmeno con gli anni ’70, che oggi lo facciano in modo che i compagni del centro sociale Leoncavallo non vadano in galera, per sette anni, senza aver fatto nemmeno lotta armata, oppure pene di carattere non solo detentive, ma pene di carattere pecuniario che vogliono dividere la gente, scompaginarla, perché è anche economia la lotta che noi facciamo; è economica, è politica, è culturale, è tutto. E allora noi ricatteremo tutti man mano che cresceremo e diremo: vi diamo fiducia o non vi diamo fiducia ma non perché vi presentate più o meno di sinistra, perché vogliamo vedere sul campo, nella materialità quello che fate.

APPELLO YA BASTA: volevamo denunciare quello che sta succedendo adesso. Ci sono di nuovo gli squadroni della morte che vanno in giro in tutto il nord del Chiapas a fare accurate torture ed esposizione di corpi mutilati; ci sono un migliaio di contadini indigeni in fuga e c’è un tasso di mortalità neonatale per cui su 10 bambini nati ne vanno morendo 9. Questa è un po’ la situazione in Chiapas; negli ultimi mesi insieme all’attentato a Ruiz, che non è indifferente, sono innumerevoli gli episodi hanno visto i gruppi paramilitari legati all’esercito attaccare le comunità zapatiste, contemporaneamente al fatto che l’esercito ha aumentato la densità della propria presenza e il tutto accompagnato da costanti intermediazioni nei confronti degli osservatori di pace stranieri che portano lì la loro solidarietà e vengono espulsi come è accaduto a Bizzarri due settimane fa. Il governo messicano vuole che la guerra sporca che si sta combattendo in Chiapas passi ovviamente sotto silenzio, gli occhi indiscreti non debbono vedere, questi occhi militari ed illegali soprattutto, con cui cerca di attaccare l’estensione ormai enorme dell’esperienza di autogoverno delle comunità indigene in Chiapas. A parole tramite il suo rappresentante, il governo in Chiapas si dice disponibile ad aprire le trattative, ma la realtà è invece un’altra; è che il governo messicano non ha mai mantenuto quegli accordi di S. Andres che si sono bloccati il 12 gennaio dell’anno scorso. E’ da qui che bisogna partire per capire se c’è qualcuno che non vuole la pace in Chiapas. Questo è Zedillo, il suo governo e il resto sono soltanto parole ed è successo un fatto molto grave in Europa, l’otto dicembre è stato siglato l’accordo per il libero scambio tra l’Europa e il Messico. Ed entro l’otto febbraio il governo italiano dovrà ratificare questo accordo per cui c’è un esigenza, c’è una giornata mondiale lanciata dall’EZLN per il 12 gennaio, una giornata mondiale che chiede la smilitarizzazione, il ripristino e il vincolo degli accordi di S. Andres - il riconoscimento di questi vincoli prima di parlare di altri accordi - e il rispetto dei diritti umani. Per questa giornata vorremmo arrivare preparati, vorremmo che per esempio a Milano il 18 dicembre, nella serata per Isaac Velasco nascesse un’iniziativa nei movimenti, vorremmo che all’interno delle differenze si creassero delle reazioni a catena in grado di essere efficaci dal punto di vista della comunicazione. Quindi ricordiamo a tutti che per il 12 gennaio abbiamo lanciato questa giornata e che aderiamo a questa giornata mondiale e che per arrivare a questo preparati è necessario essere quantomeno coordinati. Grazie.

LAZZARATO: io leggerò una lettera discussa ed elaborata dagli esiliati a Parigi ed è il gruppo di esiliati che ha l’iniziativa per la petizione per la libertà di Toni Negri e per l’amnistia per i detenuti politici e per gli esiliati.

Amici e compagni, vorremmo essere qui riuniti con voi, daremmo molto per questo, ma non la libertà perché è questo ricatto assurdo che veglia su di noi, il ritorno in patria equivale ad anni di carcere. e’ assurdo dal punto di vista umano, perché ciò significa ignorare gli anni in cui ognuno di noi ha faticosamente cercato di reinventare la propria vita interrotta dalla partenza, significa dimenticare che partecipiamo oggi attivamente alla vita sociale di un’altra nazione. E’ assurdo e cieco dal punto di vista polittico perché in luogo di proporre una via di pacificazione si esige da noi un’ulteriore espiazione che appare, a 20 anni di distanza, sempre più anacronistica. Uno di noi, Toni Negri, ha scelto di affrontare le conseguenze di questo ricatto, per denunciarlo all’opinione pubblica italiana ed internazionale. Il suo gesto ci ha permesso di avviare in Francia, e più in generale a livello internazionale, una riflessione e un dibattito sui problemi ancora aperti dai processi politici degli anni ’80. Da questo dibattito e dall’indignazione che solleva all’estero la situazione delle giustizia italiana, è nata una petizione che ha già raccolto un migliaio di firme provenienti dal mondo intero, di personalità della cultura, della politica, della scienza, della chiesa. Questa petizione chiede la liberazione di Toni e un’amnistia per i reati politici commessi negli anni di piombo; mentre in Francia questo appello ha avuto un’ampia eco, in Italia il dibattito pubblico sembra stemperato e, a parte qualche voce isolata, il silenzio di nuovo calato sul destino di Toni e su quello degli altri detenuti politici e degli esiliati. La proposta dell’amnistia ci sembra legittima e necessaria. Legittima perché dopo 20 anni dai fatti di cui siamo accusati, dopo che molti di noi hanno pagato con anni di carcere e/o esilio e dopo che anche ogni residuo sussulto "terrorista" è completamente finito, uno stato democratico deve saper chiudere un periodo storico tormentato e reintegrare i suoi protagonisti nella società civile. L’amnistia è una soluzione politica adeguata; per molti di noi esiliati è l’unica soluzione praticabile in quanto un indulto parziale non permetterebbe il nostro rientro. Nessuno di noi dopo aver scontato 15 o più anni di esilio dopo essersi costruito difficilmente un’attività, aver creato una famiglia, è disposto a scontare alcuni anni di carcere in Italia o, nel migliore dei casi di arresti domiciliari. Eppure una legge che voglia chiudere con la stagione dell’emergenza non può ignorare la nostra comunità costituita da più di 200 persone di cui 150 nella sola Francia, cioè il gruppo più numeroso di coloro che hanno ancora dei problemi aperti conseguenti ai processi per gli anni di piombo. L’obiezione che viene sempre sollevata da chi è contrario a qualsiasi proposta di soluzione politica degli anni di piombo è il preteso rifiuto dei parenti delle vittime del terrorismo ad un provvedimento di clemenza. Noi rispettiamo il dolore di queste famiglie, il rispetto stesso della loro dignità impone però la denuncia dell’ipocrisia celata in quest’argomento che ignora la liberazione avvenuta grazie alle leggi d’eccezione dei pentiti rei di crimini di sangue: i Fioroni, i Barbone, i Savasta passeggiano liberi dove gli aggrada. Le famiglie delle vittime non sono certo state interpellate da alcun giudice o uomo politico per concedere il loro consenso. Un’amnistia è necessaria perché la lacerazione vissuta dalla società italiana negli anni ’70 può essere ricomposta solo da una ricostruzione storica di quegli anni, ricostruzione che può essere solo il frutto di un ampio dibattito al di fuori dalle aule dei tribunali e dallo spettro della repressione. Bisogna avere il coraggio di parlare di quegli anni senza demonizzarli. La definizione ormai corrente di anni di piombo ci va stretta e copre una storia ben più complessa. Ricordiamo tutti, soprattutto oggi, il 12 dicembre del’69, una data fondatrice nella storia dei conflitti sociali degli anni ’70. Il piombo di piazza Fontana e quello delle altre stragi di stato non era sicuramente nostro e le lotte che sono seguite non possono oggi essere interpretate anche come un’anticipazione della crisi che ha condotto al crollo delle istituzioni politiche italiane. Si continua a parlare solo dei militanti della lotta armata. Ma dove sono gli altri protagonisti di quegli anni? I partiti per esempio, che chiusero gli spazi di mediazione di fronte alle richieste politiche sorgenti da molti strati sociali, richieste che di fronte all’incomprensione diventavano sempre più radicali? sono dissolti oppure hanno cambiato nome. Molti dei notabili più intransigenti nei nostri confronti sono oggi accusati di corruzione o di connivenza con la grande criminalità. Ricordate che tutto ciò non vuol servire a mascherare gli errori commessi da noi stessi, ma serve a sottolineare il vuoto che esiste oggi nella memoria storica italiana. Noi siamo i primi a voler lavorare alla comprensione delle cause che hanno portato un movimento di massa generoso di esperienze collettive ed innovatrici ad essere soffocato nelle prospettive senza avvenire dello scontro armato. La nostra storia comprende tutti quei 10 o più anni che seguirono il ’68, non si limita alla coda degli anni ’70 quella dei cosiddetti anni di piombo; solo l’amnistia può permettere questo confronto lucido e costruttivo. Invece nell’Italia che cambia di quegli anni una sola cosa resta immutata: le leggi d’eccezione. L’emergenza "terrorista" è finita, ma le leggi d’emergenza le sono sopravvissute. Queste leggi escono dal quadro della legalità repubblicana e questa Italia resta un’eccezione nello spazio democratico europeo. Non è un caso che i governi francesi, siano stati essi di sinistra o di destra, hanno rifiutato di concedere all’Italia la nostra estradizione. La legislazione sui pentiti, in particolare, ha condotto a troppe deviazioni ed aberrazioni della giustizia italiana l’ultima delle quali la condanna di Sofri, Bompressi e Pietrostefani. Non ci si sbagli ora sui rimedi da richiedere. Non è con una legge concepita all’italiana su un caso individuale che si ristabilirà la giustizia in Italia; ai guasti delle leggi speciali si risponderebbe con una nuova legge speciale anche discriminando tra condanne impartite nei processi politici, viola ogni principio di uguaglianza. L’abolizione delle leggi di eccezione è una misura politica erga omnes come l’amnistia possiedono sole lo spessore giuridico e politico necessari alla conclusione di un periodo eccezionale che ha visto non solo svilupparsi un ciclo di lotta armata senza precedenti e un ciclo di lotta di massa senza precedenti e l’emergenza di esperienze di lotta armata, ma anche la catastrofe del sistema politico italiano costruito nel dopoguerra e le prime esperienze di un rinnovo. I partiti al potere hanno oggi la forza e la legittimità per portare a termine questi iniziative? ne avranno la volontà? Questa è la domanda che rivolgiamo ai legislatori italiani e che con noi rivolgono al ceto politico italiano i firmatari dell’appello internazionale per l’amnistia e che circola anche fra i parlamentari europei a cui l’appello è stato presentato. In piena evoluzione del processo di costruzione dell’Europa, alla vigilia di una riforma costituzionale in Italia che si presenta come una democrazia stabile, non è concepibile che in Italia vigano ancora delle leggi d’emergenza e che ci siano ancora centinaia di detenuti condannati per i reati politici risalenti a 15-20 anni or sono e di esuli rifugiati in altri paesi della stessa Europa.

Ci rivolgiamo a quest’assemblea per sottolineare l’urgenza di iniziative comuni che mantengano vivo il dibattito sulla ricostruzione storica, sull’ingiustizia, sulla soluzione politica e perché l’appello internazionale per l’amnistia venga ripreso e sviluppato in Italia.

Parigi 12.12.97

RAPPRESENTANTE LOTTA DETENUTI POLITICI BASCHI PER L’AMNISTIA: la compagna che presente, opportunamente invitata, ci racconterà la fase più attuale dello scontro che il paese basco vive anche in questi giorni. Eva è dell’associazione S.... Bureac ed è l’associazione dei familiari e degli amici dei prigionieri e delle prigioniere politiche basche e al tempo stesso partecipa alle attività delle Gestoras pro amnistia che sono dei comitati per l’amnistia che i paesi baschi dall’indulto del ‘77 hanno come elemento centrale amnistia totale per tutti i prigionieri politici e diritto di autodeterminazione per il paese basco. Le due cose insieme contestualmente. Ovviamente ci racconterà in un’analisi più aggiornata, precedentemente un’altra compagna Blanca Calzacorta del Gestoras pro amnistia aveva avuto degli incontri pubblici in diverse città italiane Roma, Milano, Torino, Firenze e via dicendo e questo nel maggio di quest’anno, la compagna Eva ci farà invece un aggiornamento di quanto è successo da maggio in poi e del comunicato in cui ETA dichiara di sospendere la propria attività armata sul fronte delle carceri. Traduzione: innanzitutto un ringraziamento per l’invito a questo convegno e ovviamente vi racconterò gli ultimi avvenimenti avutisi nel paese basco. Sono 20 anni che siamo coinvolti direttamente nella lotta per l’amnistia totale e in questo percorso abbiamo appreso, l’esperienza ce l’ha insegnato, l’importanza di lottare al tempo stesso anche per i più elementari diritti dei prigionieri e delle prigioniere. La politica penitenziaria in tutti questi anni ha avuto diverse fasi, che sono necessariamente state rapportate alle fasi dello scontro e alla situazione che si è creata nel conflitto tra paese basco e stato spagnolo e quindi necessariamente sono quelle che poi conducono, al giorno d’oggi alla dispersione. Obiettivo quindi era farla finita con il collettivo dei prigionieri politici e con questo anche con tutto il movimento di liberazione nazionale basco. Queste possono essere riassunte molto chiaramente, in tre fasi differenziate tra di loro: la prima di queste può essere individuata con il 1977, anno nel quale fu emanata la legge di indulto e appena due anni dopo la morte di Franco l’avvio della fase di transizione del governo spagnolo.

Queste tre fasi sono chiaramente determinate da danni specifici, salti qualitativi dell’attività repressiva dello stato spagnolo nei nostri confronti; vi erano prigionieri e prigioniere politiche e tutt’oggi vi sono prigionieri e prigioniere politiche nel paese basco. Noi come associazione .... nasciamo nel 1991, associazione non governativa formata dai familiari dei prigionieri politici, ovvero le vittime delle rappresaglie politiche dello stato spagnolo e ci curiamo di difenderne le richieste politiche e al tempo stesso di difenderne soprattutto i diritti che vengono costantemente violati dalla stato spagnolo. Due date negli ultimi tempi marcano la situazione attuale nel paese basco: la prima con data 20 novembre di quest’anno è il comunicato con cui ETA dichiara di sospendere tutte le azioni previste sul fronte delle carceri e al tempo stesso fa appello al popolo basco, a tutti i settori sociali dello stesso che lo compongono perché uniscano i propri sforzi per la difesa dei diritti politici e dei diritti umani dei prigionieri e perché appunto quale obiettivo venga marcato il rimpatrio di tutti i prigionieri e le prigioniere al paese basco.

L’atteggiamento e la decisione di ETA riflette esattamente l’analogo atteggiamento dei prigionieri/e basche che sono dispersi/e attualmente nella pratica totalità delle carceri dello stato spagnolo, vittime costantemente della politica delle carceri spagnole, di pestaggi, di torture, di politica di isolamento totale, di vessazioni e umiliazioni continue lì dove stanno lottando in questo momento perché il loro diritto a scontare la sentenza e la condanna presso proprio il luogo di origine sia rispettato dal governo e dalle stesse leggi spagnole che lo dichiarano apertamente; quindi rimpatrio immediato al paese basco perché scontino la propria condanna presso il paese basco. E in questo senso questo appello muove perché l’umanizzazione del conflitto sia la via da percorrere in un conflitto così duro che necessariamente, non deve essere normalizzato, ma deve trovare forme di dialogo e di distensione che in questo momento sono negate dallo stato spagnolo e in particolare dai ministeri preposti alla politica repressiva.

Il secondo fatto di capitale importanza è il terzo rapporto emesso dalla commissione contro la tortura delle nazioni unite il 18 di novembre di quest’anno in cui si chiede che vengano cessate immediatamente quelle forme vessatorie e umilianti nei confronti dei prigionieri baschi e in tal senso, scegliendo in dettaglio, il permanere delle forme di in comunicazione ovvero di isolamento totale della persona che viene arrestata per giorni e giorni - cosa consentita dalle leggi spagnole - e quindi il cessare immediatamente questa forma di arresto preventivo in commissariato. E in tal senso fa appello al governo spagnolo perché cessi immediatamente questa legge restrittiva e permetta che il detenuto possa avere libero accesso alla assistenza e consulenza legale che liberamente sceglie di avere. La politica di dispersione ha inizio nel 1987 su un collettivo che a quel tempo contava 462 componenti, appunto prigionieri/e e attualmente ne conta più di 550. A partire dal 1989 quando si è rotta la tavola negoziale che era stata intrapresa dall’organizzazione ETA con il governo spagnolo vi è stata una recrudescenza della politica di dispersione nei confronti del collettivo dei prigionieri; e questo si è concretizzato con una politica di isolamento e il divieto ..... baschi la propria lingua madre, da 352 aggressioni nelle celle e durante i trasferimenti da carcere a carcere. Questa politica di .... è molto grave per i singoli prigionieri ma lo è altrettanto anche per i familiari degli stessi. Solo in quest’anno, nel ‘97, sono stati tre i prigionieri che sono morti in carcere e questo scende il numero dei morti prigionieri nelle carceri spagnole e francesi a tredici a partire appunto dalla politica di dispersione inaugurata nel 1987. La dispersione influisce duramente anche sulle famiglie che sono tenute a percorrere viaggi di centinaia, se non di migliaia, di chilometri con costi a dir poco impressionanti e con un castigo aggiuntivo nei confronti delle famiglie che devono appunto recarsi a distanze come quelle prima descritte. Abbiamo 77 prigionieri nelle carceri francesi dispersi in differenti carceri dello stato francese, nel gennaio 1996 l’intero collettivo dei prigionieri politici lotta per rivendicare il rimpatrio immediato presso il paese basco per la cessazione immediata delle violazioni dei diritti umani. Innanzitutto quei prigionieri che per le condizioni di salute non compatibili con lo stato carcerario e perché particolarmente gravi in questo momento per mancanza di assistenza medica dentro il carcere per legge dovrebbero essere immediatamente scarcerati; al tempo stesso vi sono 104 prigionieri che avendo scontato i 3/4 della condanna dovrebbero essere immediatamente posti in libertà condizionale. E’ importante ricordare che l’appello perché i prigionieri siano rimpatriati nel paese basco questa richiesta fa riferimento esattamente alle leggi spagnole in materia penitenziaria. In particolare si fa riferimento ad una legge organica penitenziaria generale che sostiene in uno dei suoi articoli che il detenuto debba compiere la pena vicino al proprio luogo di origine per non essere sradicato dal contesto sociale in cui ha operato il delitto. Le lotte dei prigionieri hanno avuto molteplici forme, le iniziative sono state moltissime, quelle che maggiormente ricordiamo sono stati gli scioperi della fame a rotazione tra di essi è di 24 ore, sono stati il chiudersi nella propria cella e non usufruire delle uniche due ore a disposizione per l’aria in rigido isolamento, quindi chiudersi in cella per 24 ore di seguito e con scioperi della fame che sono arrivati anche a 25 giorni di durata. A partire dall’ottobre di quest’anno dinamiche di protesta nelle diverse prigioni che sono caratterizzate con il discorso della disobbedienza totale al regime carcerario interno e questo ha attualmente quale grave risultato l’aggravamento della salute di molti di questi non solo per gli effetti delle molte lotte sostenute, scioperi della fame ed altro, ma anche proprio per lo status di detenzione carcerario che per molti ormai si prolunga da troppi anni. Solo negli ultimi 4 anni le mobilitazioni, le iniziative di lotta a favore dei propri diritti dentro il carcere sono state 56; al fine di risolvere la questione per la quale lottano i prigionieri il collettivo ha designato sette loro delegati quali interlocutori del collettivo dei prigionieri nella fase di contatto e dialogo con quelle istituzioni che vogliono rispondere a questo appello per la cessazione della violazione dei diritti umani. La lotta dei prigionieri, unita all’illegalità della dispersione e alla diffusione della conoscenza sull’autentica realtà nella quale si trovavano all’interno delle carceri dove sono detenuti ha generato una risposta di massa di solidarietà di tutta la società basca che è arrivata addirittura alle istituzioni, alle forze politiche di questo paese. Nella situazione attuale nessuno dubita del fatto che la maggioranza di Euskal Herria, del paese basco, richieda apertamente il rimpatrio immediato dei prigionieri nel paese basco. A partire dal novembre del 1995 vi sono state lotta da parte dei familiari dei prigionieri politici e a rotazione dal dicembre 95 questi scioperi della fame che ci sono stati continuamente a partire da quella data e tuttora continuano, oltre ai familiari che hanno fatto lo sciopero della fame a favore dei propri familiari in carcere, sono stati coinvolti anche più di 100 collettivi appartenenti ai diversi settori sociali, associativi e professionali del paese basco che hanno partecipato direttamente con turni di sciopero della fame a favore del rimpatrio immediato dei prigionieri. In tal senso questa lotta è stata sostenuta dalla maggioranza sindacale, dalla maggioranza dei lavoratori del paese basco ed è stata sostenuta la tempo stesso dalle associazioni pacifiste, dalle associazioni per la difesa dei diritti umani e dal 16 novembre lo stesso episcopato basco con una dichiarazione ha sostenuto il rimpatrio immediato e quest’appello è stato fatto dai quattro arcivescovi delle quattro provincie del paese basco del sud. Un rapporto stilato dal parlamento autonomo basco del 1996 sostiene apertamente che i prigionieri debbano scontare la propria condanna in luoghi vicini al proprio luogo di residenza o di origine. Le iniziative della società basca hanno avuto un effetto estremamente importante nella posizione delle forze politiche basche; ciò è riflesso nell’accordo che il parlamento basco nell’accordo del 1995 ha presentato al ministero dell’interno; questo accordo ottenuto all’interno del parlamento basco richiede al governo spagnolo e quindi al ministero competente dell’interno il rimpatrio nel più breve tempo possibile dei prigionieri nel paese basco. E quindi dopo aver citato tutte le altre innumerevoli iniziative di lotta dei familiari dei prigionieri fra le quali dimenticavo di citare la manifestazione dei 50.000 nel novembre del ‘96 il collettivo dei familiari ha dato vita in sette città europee ad uno sciopero della fame nel quale hanno partecipato 550 tra familiari e amici di prigionieri politici, esponendo la situazione in tutte le prigioni, rompendo il muro del silenzio che nasconde questa realtà e ricevendo importanti dimostrazione di appoggio e di solidarietà. Allo stesso tempo vi è la raccomandazione formale, ufficiale fatta dalla commissione contro la tortura presso il consiglio europeo resa pubblica nel dicembre del 96; quale risultato della visita tenutasi nell’aprile ‘94 dalla commissione per la prevenzione contro la tortura chiede espressamente al governo spagnolo di applicare le proprie leggi e che i prigionieri possano scontare la propria condanna secondo la filosofia della riabilitazione del reo. La medesima posizione hanno adottato l’associazione per la prevenzione della tortura e l’osservatorio internazionale delle prigioni quando, nel 1996, hanno appunto raccomandato allo stato spagnolo di cessare pratiche di aperta violazione nei confronti dei diritti dei prigionieri. E’ in tal senso che ETA emette un comunicato in cui appunto sostiene che il governo debba riconoscere le proprie leggi e quindi applicarle rigorosamente e quindi cessi lo stato di illegalità nei confronti dei prigionieri. La risposta del governo e del partito popolare di fronte a questa situazione, alle dinamiche sociali e a questi atteggiamenti vari espressi dal paese basco sono stati di chiusura completa e di cecità totale in quanto si sostiene che l’accettare la legislazione in materia significherebbe subire le minacce di ETA. E’ per questo, infine, che ci rivolgiamo a voi, come abbiamo fatto e tuttora facciamo sempre negli organismi internazionali di difesa dei diritti umani perché moltiplichiate i vostri sforzi nel fare pressione sul governo spagnolo e perché questa soluzione, quella del dialogo e della distensione possa avvicinare il giorno in cui il nostro popolo possa trovare la soluzione al problema del conflitto che soffre da così tanti anni.

P.S. (Leoncavallo): Compagni, secondo me sarebbe il caso prima di discutere di alcune questioni ed entrarne in merito, sarebbe più il caso di farci alcune domande, perché se non ci diamo alcune risposte diventa difficile poi impostare una discussione seria. Io ne faccio tre, la prima è quella: ma voi pensate veramente che il problema del mantenimento di 180 corpi all’interno delle carceri e l’allontanamento di altri 200-250, sia un problema di pericolosità sociale che questi soggetti .... è una balla! E’, al contrario, ed ha grande effetto deterrente rispetto a ciò che potrebbe muoversi oggi, diciamole queste cose qui, se no non ci capiamo mica del perché alcuni continuano a rimanere in galera e non è un problema semplicemente moralistico, è altro.

Seconda domanda altrettanto fondamentale: ma voi pensate veramente che quando sono state promulgate in Italia una serie di leggi speciali che dovevano avere carattere transitorio qualcuno si sia dimenticato di abrogarle dopo questo periodo di transizione? E un’altra balla! Servono oggi! E addirittura se ne è fatta una cultura rispetto all’emergenza perché quelle leggi sono servite a gestire non solo il conflitto politico, ma anche quello sociale, anche quello sotterraneo, anche quello che non ha rappresentanza a gestire lo stato, le sue articolazioni e gli anni ’80 e gli anni ’90 sono stati un laboratorio politico; è stato un laboratorio politico aver gestito delle tensioni politiche in quel modo. E’ applicato su tutto, compreso sui processi di mafia; è applicato su tutto: pentitismo, dissociazione, ce le ricordiamo queste cose qua. Processi di differenziazione all’interno del carcere, di desolidarizzazione e allo stesso tempo di controllo; capacità di rendere flessibile la norma rispetto agli eventi, al modificarsi degli eventi. Questa è la risposta perché sennò sembra che ci sia da una parte uno stato cattivo che non si capisce per quale motivo fa delle leggi speciali, poi si dimentica anche il fatto che queste dovrebbero essere transitorie e non ci siano risposte; ci sono parecchie motivazioni. Dobbiamo capirci.

Terza domanda, riguarda la collocazione di una bomba, quella in piazza Fontana del ’69 e di tutte le altre che sono seguite. Ma voi pensate veramente che sia possibile che alcuni pezzi dello stato, che alcuni pezzi dei servizi segreti abbiano prodotto una strategia per alcuni definita della tensione - io dico di stabilizzazione, e non di destabilizzazione - senza che questo sia stato pensato da parte di questo stato, cioè che si possa ancora una volta bersi la balla dei servizi segreti deviati e non che i servizi segreti servivano a fare proprio questa cosa qui? cioè un apparato dello stato che ha usato per meccanismi di stabilizzazione interna anche l’uso delle stragi in questo paese; perché se non ci diciamo queste cose qui non capiamo che tipo di risposte bisogna dare, non capiamo l’attualità. Il filo della continuità tra gli anni ’70 ed oggi non sta dentro un movimento che si ripresenta oggi rispolverando ciò che abbiamo detto allora e riproducendosi in quel modo, cioè in questo elemento di continuità. E la continuità della gestione del conflitto, questa continuità del modo e della concezione della gestione del conflitto per cui di fronte all’emergere di problematiche sociali si preferisce affidare la gestione del conflitto agli apparati repressivi dello stato e oggi l’apparato che maggiormente riesce a costruire consenso intorno a sé - fra l’altro l’ha fatto su un evento come quello di Tangentopoli su cui sarebbe meglio riflettere molto di più di ciò che abbiamo fatto - e non riproponendo del giustizialismo di basso stampo come viene fatto anche da molta sinistra e che non serve a nulla perché è una gabbia anche su di noi, parliamoci chiaramente, altro che eliminazione delle ... della prima repubblica per il passaggio ... alla seconda e alla terza, non è questo, è qualcosa di molto più complesso. Però grande è il meccanismo di legittimazione del corpo repressivo per antonomasia dello stato, la magistratura, quello che poi ci mette nelle galere, quello che poi rischia questo tipo di gestione - e questo è un problema anche dell’oggi - di diventare un’enorme spada di Damocle nei confronti della possibilità di far emergere i movimenti oggi e di farli emergere domani. Cioè non è una battaglia rivolta al passato quella che noi stiamo facendo, è una battaglia sulla costruzione del futuro, bisogna avere il coraggio di dire queste cose qui. Perché se non le diciamo non capiamo tutti i motivi esposti... e allora io apprezzo alcune sincerità da parte di alcuni rispetto al blocco che c’è stato sul tentativo di costruire una legge sull’indulto. Però apprezzo un po’ di meno la riproposizione di questo meccanismo nel senso che forse ogni tanto bisogna essere un po’ più concreti; se qualcosa abbiamo imparato anche da questi due giorni di discussione con una serie di soggetti è quello che purtroppo, dico purtroppo perché non è che a noi ci faccia piacere, oggi noi celebriamo i funerali; purtroppo, perché purtroppo fra due anni, coi tempi che ci sono stati dati, il meccanismo dell’indulto non tira più fuori nessuno o tira fuori dei cadaveri o nel 2003, 2005 comunque escono quelli che sono ancora in carcere e non risolve il problema di quelli che stanno .... cioè la capacità di una legge corrisponde anche alla sua applicazione concreta ed a risolvere dei problemi concreti. Mi sembra che, purtroppo, ed aggiungo di nuovo purtroppo, i tempi degli equilibrismi parlamentari non sono consoni alla possibilità di risolvere i problemi concreti. Noi ne prendiamo drammaticamente atto rispetto a questo; per questo diciamo ci tocca fare un passaggio, cioè un passaggio anche sul nostro immaginario perché, diciamo noi, a questo punto pensiamo che vada posto con forza una parola d’ordine come quella dell’amnistia in contrapposizione ad altro. Una battaglia d’amnistia perché è un obiettivo sia da un punto dell’immaginario nostro che non può fermarsi al movimento degli anni 70 quando riguarda anche i movimenti dell’oggi. Amnistia anche sui reati che ci vengono comminati oggi, io ho 15 procedimenti giudiziari in corso per essermi battuto dentro questa città, una città di merda, contro questo tipo di gestione della città; non vorrei fare il prossimo convegno a S. Vittore, per capirsi, perché altrimenti diventa difficile poi ragionare concretamente, e non vorrei che altri rischiassero questo tipo di meccanismo. Questo è il problema di fondo per cui noi rilanciamo una parola d’ordine forte come quella dell’amnistia che sappiamo benissimo che in questo momento, attualmente non è applicabile, ma che riguarda una parte del nostro immaginario e cercare di capire che non dividerci in contrapposizione e che può essere fatta probabilmente di tanti altri passaggi, di tanti altri piccoli passi, perché a nessuno fa schifo se nel frattempo si fa una legge sull’indulto e vengono tirati fuori dal carcere compagni e compagne, a nessuno fa schifo se chi è malato all’interno del carcere lo tiriamo fuori perché è incompatibile la malattia con il carcere, anzi; questi sono passaggi che ci avvicinano al raggiungimento di questo obiettivo. A nessuno fa schifo se riusciamo a portare qualcuno in Italia senza farlo arrestare, anzi. Però forse è necessario ricalibrarla questa battaglia sulla .... e quindi dire che una battaglia di questo tipo legata, e non slegata, a una battaglia più generale sull’abolizione delle leggi dell’emergenza a una battaglia più generale sull’abolizione di una serie di articoli dell’ex codice Rocco fascista che sono quelli che vengono applicati in materia di ordine pubblico e che stritolano i movimenti oggi, che li fanno a pezzi, che ne riducono apertamente gli spazi. Diventa una battaglia comune che sa unire ciò che è stato il passato rispetto ad un orizzonte di costruzione del futuro a partire da oggi. Su questo secondo me va fatta una richiesta concreta di sforzi reciproci cioè del capire come quelli che siamo qui dentro al di là delle proprie specificità, al di là delle proprie diversità possono praticare una battaglia insieme. Io dico ancora due cose poi finisco, perché secondo me parte delle cose che sto dicendo erano già contenute nella mozione conclusiva di ieri e io penso che la mozione conclusiva di ieri e il dibattito che abbiamo fatto ieri riguarda profondamente l’oggi e se non capiamo il nesso tra queste due cose giochiamo ancora una volta sulla separazione e sulle scatolette. E le scatolette non fanno comodo a noi, l’abbiamo visto nel sociale a chi fa comodo dividere tutto a scatolette. E allora questo che cosa significa: che se per noi è un impegno fare una battaglia su queste cose da quell’altra parte non è possibile che la battaglia di altri soggetti, quelli che lavorano anche all’interno delle istituzioni, sia una battaglia ancorata al dibattito di commissione che è un dibattito invisibile all’esterno, che è un dibattito ininfluente se non sa diventare legge, ma che forse anche qua quando si parla - Paolo Cento prima diceva giustamente - forse bisogna anche riscoprire forme nuove con cui aggredire il parlamento e che forse queste forme nuove non possono riguardare solo i movimenti; cioè perché personaggi che non appartengono alla sinistra come Pannella, scusatemi io la faccio questa provocazione, riescono a fare delle provocazioni altissime, anche sulla questione della disobbedienza civile e compagni inseriti all’interno delle istituzioni su alcune questioni fondamentali non riescono ad essere visibili, non riescono anche a produrre cose di questo genere, non riescono a riprodurre contraddizioni anche all’esterno. Forse questa è una riflessione che va fatta: quanto si rischia anche di proprio rispetto anche alla propria immagine, ai propri equilibri nel momento in cui si pensa che veramente una battaglia su alcuni obiettivi è importante? questa è la domanda che noi facciamo che dobbiamo farle perché noi lo paghiamo con la galera forse, o comunque con le denuncie, il fatto di rischiare in proprio, e qui su questo c’è un rischio, c’è un’assunzione di responsabilità perché anche a noi tutti gli altri ci chiedono non semplicemente avevate ragione, bravi torniamo a casa, ma quali sono le risposte concrete a questi problemi concreti. Perché quando noi siamo saliti sul tetto del Leoncavallo abbiamo rischiato in proprio, ma quel posto esiste ancora in questa città, abbiamo dato una risposta concreta, anche se la paghiamo coi processi, l’abbiamo data. Pretendiamo altrettanto, su altre forme, dentro un rapporto che si può instaurare, perché sennò non ci capiamo, è un rapporto sbilanciato in cui c’è chi rischia e finisce in galera e chi fa il dibattito dentro le commissioni. Non va bene questo tipo di relazione, bisogna dirlo con forza, lo riproduciamo anche rispetto al dibattito di ieri questo tipo di dimensione, poi capiamo quali sono le forme, quali sono i limiti, per carità, però rimettiamoci in discussione su tutto, riapriamo veramente un percorso che ci sposti in avanti. Chiudo dicendo un’altra cosa perché è l’altra parte del dibattito che è stato fatto ieri e della mozione conclusiva. Ma voi pensate che noi potessimo discutere di carcere ragionando solo su 180 prigionieri quando nelle carceri ci sono 50.000 detenuti? E’ una follia, è pensare alla propria parrocchietta con gli amici degli amici; il problema è assai più complesso, bisogna avere il coraggio di dire che sulla depenalizzazione dei reati minori e sui processi di decarcerizzazione si fa poco o nulla e ciò che si fa rischia di non produrre gli effetti sperati; che sulla questione dell’abolizione di una legge proibizionista fatta dal partito degli affari Craxi-Vassalli-Iervolino, e quindi a favore del narcotraffico non solo si riducono le libertà fuori, ma si produce che circa un terzo dei detenuti sono dentro per reati connessi all’uso e alla circolazione di sostanze stupefacenti e che quindi il mantenimento di questa legge significa il sovraffollamento delle carceri, anche il sovraffollamento delle carceri e un ulteriore peggioramento delle condizioni di vita, e soprattutto significa che in tantissimi finiscono in .... e questo non è accettabile. Che il problema dell’incompatibilità dei malati di AIDS, o anche altre malattie, e la permanenza nel carcere è un problema serio a cui non si possono dare risposte che vanno in direzione diversa come la costruzione di reparti-confine sanitari, bisogna dirle queste cose qua. Non è la risposta. Bisogna dire che rivendicare il diritto all’affettività all’interno del carcere non è la lotta per le tendine rosa è qualcosa di più, è rivendicare il fatto di essere esseri umani anche all’interno di una struttura che di umano non ha nulla, e questo è importante; che rivendicare, che sostenere battaglie come quelle che stanno facendo i detenuti di Rebibbia è un compito che riguarda anche noi e non può riguardare solo quelli che si vivono il carcere in prima persona e che forse una riflessione composta su queste cose qua e il tentativo di capire anche qua, quali sono obiettivi massimali, cioè il fatto che una società malata non produca più e non si autoassolva rinchiudendo nel carcere ciò che non riesce a risolvere in termini di problematiche sociali, che se questo è l’obiettivo finale è quello che le carceri non devono più esistere, devono essere totalmente abolite, eliminate; sicuramente ci sono dei passaggi intermedi e su questi passaggi intermedi noi vogliamo batterci, ci batteremo comunque, vogliamo capire se possiamo batterci noi e se qualcun altro, anche all’interno delle istituzioni, ha il coraggio di battersi, ma con dignità.

VENDOLA SE NE VA.

B.C. (Centri Sociali Nord-Est): io la farò molto breve, vista l’ora cercando di ragionare assieme alle compagne e ai compagni che sono qui oggi su come in questa seconda parte del convegno riusciamo a concentrarci sul problema molto pratico di che tipo di percorso indichiamo e costruiamo a partire dalla discussione di questi due giorni. Inizierei col dire che dobbiamo fare anche una riflessione su che cosa ci ha dato questo anno e mezzo di battaglia sulla liberazione dei detenuti e sul ritorno degli esuli. Una battaglia che è iniziata, non a caso, proprio con l’indicazione di questo obiettivo di liberare tutti liberando gli anni ’70, al di là della definizione precisa di quale strumento di quale misura era necessario affrontare da questo punto di vista e quindi senza alcun tipo di preclusione rispetto alla questione dell’indulto, anzi in una fase in cui sembrava possibile che questo strumento con tutti i suoi elementi di imparzialità ecc. potesse essere quello che in tempi brevi portava a una consistente riduzione delle pene e quindi alla possibilità per molti di uscire dal carcere o di fare ritorno dall’esilio ecco, abbiamo detto, questa può essere la strada. Nel quadro che è stato tracciato quest’oggi mi sembra chiarissimo, insomma non lascia spazio ad alcun tipo di ambiguità, è un quadro per cui la strada dell’indulto non è come dire chiusa, ma è una strada sui tempi lunghi, è una strada su tempi che sono difficilmente compatibili con la condizione di detenzione di questi oltre 180 compagni e compagne che sono ancora in carcere e che lascia poco spazio a una soluzione del problema degli esuli. L’indulto, ci è stato detto, se andrà bene verrà votato tra due anni, se andrà bene, il che vuol dire che non è detto che tra due anni passi in parlamento o che tra due anni venga approvato. Allora questa strada si chiude, mi sembra che è nei fatti ed è importante che ce lo diciamo oggi, ed è importante che assumiamo registriamo questo fatto, non per trarne soltanto delle conseguenze in negativo, non per trarne le conseguenze del fatto che il percorso per la liberazione dei detenuti e il ritorno degli esuli finisce qui, però è chiaro che con il convegno di questi due giorni una fase si è chiusa, una fase che ha significato anche una scommessa che abbiamo fatto i soggetti, centri sociali romani, milanesi, del nord-est che hanno dato vita alla Rete Sprigionare, una scelta che è stata coraggiosa, una vera e propria scommessa che ha avuto il positivo risultato di rompere anche tutta una serie di tabù, di limiti culturali e politici che la questione della chiusura con gli anni ’70 aveva fino a questo momento, fino a quando abbiamo iniziato il percorso della Rete Sprigionare, avuto. E allora dobbiamo però cominciare ad interrogarci su che cosa facciamo da adesso in poi. Su come proseguiamo su questo percorso, tenendo presente appunto che, come diceva anche Paolo, non c’è contraddizione tra il definire il nuovo obiettivo, quello dell’amnistia, questa parola forte, politicamente qualificata e a cui va attribuita tutta quella valenza anche fortemente politica di una battaglia che è sull’oggi e sul domani, comprendendo il problema della soluzione sul ieri, sull’altro ieri; allora questa battaglia sull’amnistia non è una battaglia - è stato sottolineato in maniera chiarissima dall’intervento del Leoncavallo, che è in contraddizione con il percorso parlamentare dell’indulto. Benissimo se si arriverà all’approvazione di un provvedimento di indulto, noi abbiamo bisogno di qualcos’altro proprio perché non possiamo permetterci in questa paradossale iperautonomia del politico per cui negli interventi anche di questa mattina c’era addirittura più radicalità negli interventi degli esponenti istituzionali che non quella che riusciamo ad esprimere, ha potuto riuscire ad esprimere una manifestazione come quella di sabato mattina che, non neghiamocelo, è stata la fotografia di questa difficoltà che c’è, che registriamo. Il pensare che poteva essere automatico che una composizione studentesca oggi in lotta a Milano assumesse questo terreno, cioè mi sembra che sia chiaro da quanto, da che tipo di composizione, invece, c’era in piazza ieri mattina che non è così automatico, non è sicuramente facile, non basta fare i passaggi logici per spiegare perché c’è questo nesso piazza Fontana, stragi, prigionieri politici degli anni ’70, movimenti dell’oggi. Non basta fare questo discorso che questo discorso una volta fatto non si traduce automaticamente. Esiste un fossato scavato in questi anni tra chi oggi lotta, i soggetti sociali che oggi lottano e quella storia; perché non a caso quella storia è finita, quella storia appartiene a una fase che è completamente chiusa anche dal punto di vista storico. Allora per noi il tema dell’amnistia assume la valenza di un orizzonte in cui collochiamo il percorso che possiamo costruire, sapendo che non è possibile pensare a una rapida e forse neanche a una approvazione neanche sui tempi lunghi di un’amnistia da parte del parlamento, però questo tipo di orizzonte, questo tipo di obiettivo assume per noi, in questa nuova fase di percorso per la liberazione che apriamo le caratteristiche appunto di un orizzonte. Non un’etichetta ideologica alla quale ci attacchiamo, ma un’etichetta ideale; un orizzonte appunto in cui collochiamo la nostra iniziativa. Un’altra delle cose che penso siano evidenti dopo questo anno e mezzo di percorso è che non è possibile costruire dal nulla o da quel poco che siamo un movimento sugli anni ’70 e che questo tipo di prospettiva non ha senso. Dobbiamo pensare, piuttosto, a come far vivere dentro i movimenti, dentro i soggetti sociali che lottano questo tipo di tematica, farla vivere connettendola al presente e al futuro, farla vivere valorizzando al massimo questo tipo di problema che è quello di un’ipoteca sullo sviluppo dei movimenti futuri e sugli sviluppi futuri in questo paese che abbiamo. Una terza cosa è questa: l’intervento degli esuli pone chiaramente questo tipo di battaglia sullo scenario europeo. E’ l’altro punto su cui io credo sia fondamentale oggi puntare, su cui credo sia fondamentale oggi impegnarsi e battersi; la vicenda degli oltre 150 compagni e compagne italiani che vivono, riconosciuti di fatto come rifugiati, in territorio francese o in altri paesi del mondo pone questo tipo di problema su una scala europea. Si sta definendo uno spazio giuridico unico europeo, è lo spazio su cui anche queste battaglie tenendo conto che non tutte le situazioni europee, abbiamo sentito il caso basco sono uguali, anzi sono profondamente diverse, si misurano con situazioni e contesti profondamente diversi, però è la scala europea quella su cui anche una grande battaglia di libertà deve essere gestita, deve muoversi. Infine forme organizzative, io entro anche un po’ nel merito del futuro della Rete Sprigionare, che possiamo e dobbiamo darci; forme appunto, agili, che rispondano a questo tipo di obiettivi. Far vivere dentro i movimenti questo tema partendo anche da subito da casi concreti: ieri in apertura è stata citata la vicenda della reincarcerazione di Salvatore Ricciardi, questo è uno, ma sono tanti io credo i casi singoli, concreti che riguardano ieri, l’altroieri e che riguardano oggi che vanno assunti e sul quale va attivato un meccanismo il più possibile dispiegato di comunicazione e di intervento puntuale, di costruzione di battaglie singole anche quando queste battaglie sono molto spesso battaglie di opinione. Quindi darci sempre di più una forma leggera, agile di un’agenzia che sia in grado di veicolare questo ragionamento di lungo periodo sull’amnistia, questo ragionamento ideale "utopico" sull’amnistia, ma di far vivere anche tante singole battaglie concrete sui singoli casi di compagne e compagni come per esempio la vicenda di Salvatore Ricciardi. Io chiudo invece passando, da mister Hide al dottor Jeckill con un messaggio di adesione ai temi di questo convegno che il sindaco di Venezia mi ha pregato di leggere a nome suo e di Gianfranco Bettin.

MASSIMO CACCIARI e GIANFRANCO BETTIN: Ringrazio per l’invito ad intervenire e ritengo particolarmente importante la presenza delle città di Venezia a questo incontro che si svolge nell’anniversario della strage di piazza Fontana, perché i più recenti risultati dell’indagine su quell’orrendo crimine evidenziano come proprio in Veneto ed in virtù della collocazione della nostra regione nello scacchiere del confronto bipolare avessero la loro base di partenza quei gruppi della destra neofascista che in un torbido intreccio con i servizi segreti italiani e atlantici sono stati tra i protagonisti della cosiddetta strategia della tensione. A quasi 30 anni di distanza dal primo di una lunga serie di attentati che hanno insanguinato le piazze, i treni e le stazioni ferroviarie di questo paese, è ormai stata raggiunta una verità storica che riguarda radice, cause ed obiettivi dello stragismo ed anche inizia a delinearsi il profilo dei suoi responsabili. Grazie all’impegno di associazioni di familiari di alcuni magistrati, di movimenti politici e sociali, di giornalisti e storici è maturato un senso comune diffuso che ha superato la cortina fumogena dei depistaggi, delle connivenze e delle coperture di cui anche all’interno di apparati dello stato hanno potuto godere mandanti ed esecutori materiali. Tuttavia uno stato non ha fase storica se si è aperta con la crisi del sistema politico, che andava sotto il nome di prima repubblica, una sostanziale impunità ha contrassegnato e continua a contrassegnare i responsabili di quei delitti. Proprio questa impunità è stato uno degli elementi, anche se non il principale, che hanno spinto, a partire dai primi anni ’70, molti tra i soggetti protagonisti del lungo ’68 italiano a radicalizzare e ad estremizzare contenuti e forme di lotta in uno scenario caratterizzato da conflitti sociali vasti e diffusi. Del fenomeno della sovversione di sinistra negli anni ’70, nelle sue distinte espressioni che andavano da pratiche di illegalità diffusa fino alla strategia della lotta armata, ormai tutto si sa, soprattutto dal punto di vista della ricostruzione giudiziaria. Migliaia di persone sono state processate e condannate, alcune centinaia di donne e uomini stanno ancora scontando lunghe pene detentive o sono costrette all’esilio in terra straniera, sulla base di una legislazione d’emergenza che non ha oggi alcuna ragione di esistere.

La società italiana si è nel frattempo profondamente trasformata, il sistema politico istituzionale è cambiato, il contesto storico nazionale ed internazionale è completamente mutato. Quel conflitto è chiuso da almeno quindici anni, quella storia, anche per esplicita ammissione di tutti i suoi attori da una parte e dall’altra della barricata, è finita. Chiuderla anche dal punto di vista giudiziario e penale, affrontare tutte le sue conseguenze come assunzione politica e legislativa non significherebbe assolutamente giustificare e rilegittimare a posteriori scelte compiute allora. Inoltre un ulteriore paradosso si è prodotto all’indomani dell’entrata in vigore degli accordi di Shengen: all’interno del medesimo spazio giuridico europeo il governo francese riconosce nei fatti il diritto d’asilo a centinaia di cittadini italiani condannati per episodi legati a quella storia. Si tratta di una contraddizione che sottolinea una volta di più l’assurdità della situazione italiana rispetto a questo problema. Un gioco di assurdi veti incrociati ha congelato il disegno di legge per l’indulto relativo ai reati commessi con finalità di terrorismo ed eversione già approvato in commissione giustizia della camera. E’ tempo che il parlamento rimetta mano a questo provvedimento contestualmente all’approvazione di una serie di misure a tutela e sostegno dei familiari delle vittime del terrorismo che al di là di retoriche affermazioni di principio non sono mai state adottate. Un provvedimento generale senza discriminazioni né differenziazioni che permetta ad una democrazia veramente forte di saper voltar pagina, permettendo che 400 persone possano finalmente tornare alla vita civile.

Massimo Cacciari, Gianfranco Bettin

TONINO PAROLI: non ho molto da dire. Vedere Primo Moroni per me è come ritornare a casa. Anch’io, per chi non mi conosce, ero nel medesimo disegno criminoso denominato Brigate Rosse e mi sono fatto sedici anni di prigione e quindi porto anche la mia testimonianza e i miei punti di vista anche se dopo questo tipo di dibattito la confusione mi è aumentata. E’ evidente che ci sono dei momenti che ci si sente un po’ impotenti perché sembra che non abbiamo più la marcia, parliamo tra di noi, non si capisce bene chi dovrebbe affrontare questa questione, la battaglia in parlamento si è arenata e sembra sempre di dover ritornare a partire da capo. Indubbiamente il problema è che non siamo riusciti a far diventare la prigionia un problema, perché così tout court i 180 prigionieri e i 200 esuli non sono affatto un problema per nessuno, non gliene frega un cazzo a nessuno, né allo stato, né alle masse, né a nessuno. O riusciamo a farlo diventare un problema oppure ce la meneremo in questi pullman di dibattiti, uno che ha bisogno di parlare, l’altro che ha bisogno di ascoltare ed andremo avanti ancora per una ventina d’anni. Perché non siamo ancora riusciti a farlo diventare un problema la questione della prigionia? A mio avviso non riguarda il fatto che abbiamo uno stato istituzionale che è sordo, a mio avviso la questione sta all’interno di noi stessi soprattutto di chi - quei filoni di sinistra o meno che si batte per questo tipo di battaglia - non ha assolutamente, non è in grado o non è stato in grado di convincere le stesse organizzazioni che ne fanno parte. Cosa voglio dire: prendiamo Rifondazione. C’è una scia di parlamentari che si prestano a questo tipo di battaglie, però l’interno di Rifondazione, o quasi tutta Rifondazione, ha ancora un’idea precisa su di noi, ci vuole tenere in galera (se faccio in tempo poi lo spiego). La stessa cosa all’interno dei Verdi, all’interno del PDS, insomma abbiamo un gruppo di opinionisti, ma in realtà a livello istituzionale non c’è assolutamente intenzione di affrontare politicamente la questione degli anni ’70. Ma è molto semplice perché c’è un peccato originale e cioè come siamo stati combattuti; noi siamo stato combattuti totalmente su falsità o su inquadrature o etichette che ci hanno appiccicato che noi non c’entriamo niente. Allora rivangare questo periodo significa rivangare l’ipocrisia e l’aspetto reazionario con cui tutta la sinistra in questi anni si è mossa nei nostri confronti. Cioè quando un compagno come Guido Viale, lui che dovrebbe essere un po’ più sveglio degli altri, pone degli interrogativi che sono ancora a carattere oscuristico, tende a separare il movimento dalla lotta armata, il movimento autonomo dal ’68, poi si pone interrogativi se la strage di piazza Fontana è la causa, se è invece ecc. vuol dire che non c’è assolutamente chiarezza rispetto a cosa siamo stati. Non capire che il nostro fenomeno armato è stato un fenomeno che è sorto nel cuore del conflitto e che all’interno c’erano dei comunisti che si battevano per queste idee, non capire questo significa depistare ulteriormente la realtà, la verità. Io lo so’ che c’era il movimento di massa che non era il movimento autonomo illegale di piazza; il movimento autonomo illegale di piazza non era le Brigate Rosse; le Brigate Rosse non erano Prima Linea; Prima Linea non era Azione Rivoluzionaria; Azione Rivoluzionaria non erano i NAP; e che all’interno dell’organizzazione io non sono diretto da Moretti, Moretti è diverso da..., cioè io lo so’ che non siamo assolutamente impacchettati, però non capire che c’è una correlazione all’interno di una conflittualità che in Italia ha assunto la forma, certo minoritaria si dice, della lotta armata e non del terrorismo, perché nel documento che viene da Parigi, a mio avviso, si cita troppo terrorismo, anni di piombo anche se virgolettate. Questo sono categorie assolutamente impertinenti rispetto alla nostra storia, inventate dai mass-media proprio per combatterci, perché noi siamo dentro per reati comuni, per reati criminosi perché in Italia non ci sono detenuti politici, parliamoci chiaro, assolutamente nessuno lo ha riconosciuto. Siamo dentro per reati comuni con finalità terroristiche, categoria inventata da loro, riempita da immagini di stragi, di mafie, di brutture che ci appiccicavano. In un’altra occasione l’ho detto: badate bene che se avessimo praticato il terrorismo, un’organizzazione come eravamo, avremmo paralizzato l’Italia, non l’abbiamo mai praticato e non l’abbiamo mai praticato anche se riconosco che nella storia è esistito un terrorismo di sinistra, specialmente prima della rivoluzione russa. La memoria storica cos’è? la memoria storica è evidente che è relativa al far sì che sul presente non si commettano errori fatti nel passato, non si ripetano cose già fatte, non c’è dubbio, la memoria storica ha questo compito: se un bambino lo mettiamo in una boscaglia e cresce lì, poveretto, ha ancora il problema della scoperta del fuoco, indubbiamente, e scoperto il fuoco crederà di aver scoperto chissà cosa; ma il fuoco è da anni che è stato scoperto. E quindi la memoria storica è questo: far sì che non si ripetano gli errori, ma non si ripetano neanche i fatti avvenuti non si devono riproporre; quando parlo della mia storia mi rifiuto di fare il maestro, l’insegnante; ... vivo nel conflitto presente che deve aprire un varco verso il futuro e che addirittura il presente produce nuove chiavi di lettura anche per il passato; addirittura è il presente che produce futuro e passato contemporaneamente. Però quando si parla della nostra storia, aver ancora dei dubbi se c’era la dietrologia, se eravamo tutti organizzati o teleguidati, se i servizi segreti lasciavano fare o non lasciavano fare, vuol dire non aver capito un cazzo! Io vorrei chiedere anche ai dietrologi se la lotta armata in quel periodo sorta negli Stati Uniti d’America con delle bande armate infinite era sorta per lottare contro il compromesso storico, in America. Allora non capire che dopo la guerra del Vietnam, come diceva un compagno del Leoncavallo, c’è stato un movimento di massa in tutti i paesi altamente industrializzati e che via via questo scontro, che era una dialettica di scontro, che han portato poi all’inizio della lotta armata da parte dello stato, ha iniziato lo stato con la lotta armata prima di noi, con le stragi, con le ..... dei fascisti, con gli accoltellamenti, con gli arresti. Dopo di che il processo di scontro ha portato a forme di contropotere necessario, che almeno alcuni di noi hanno ritenuto necessario costruire, armato. E questo, contemporaneamente è avvenuto in Italia, in Germania, all’insaputa nostra - non è che ci siamo messi d’accordo - in Giappone, in Francia e negli Stati Uniti d’America. Quindi è il nostro un fenomeno ...... sorto nei paesi altamente industrializzati; se non capiamo questo punto qua, eravamo come base fondamentale una lotta al sistema e anche un rinnovamento rispetto alle tradizioni comuniste. Per esempio nella nostra organizzazione abbiamo teso subito ad eliminare le divisioni sociali del lavoro interno all’organizzazione - parlo delle BR - perché ci battevamo per superare la divisione sociale del lavoro, quindi il compagno sin dall’inizio doveva essere un compagno politico che sapesse agire, che era un superamento della Terza Internazionale per esempio dove c’era un problema di braccio armato e di funzionari politici, quindi noi tentavamo di superare delle contraddizioni. Per finire dico, se non c’è chiarezza fra di noi, parlo in questo caso anche delle organizzazioni parlamentari perché - parliamoci chiaro - per fare una battaglia di libertà, di amnistia e di indulto e di recupero di una memoria storica, in questo caso qua, poiché non siamo in grado di costruire dei rapporti di forza tali da imporre, è necessario che si muovano anche in parlamento, come abbiamo fatto finora, abbiamo accettato questa mediazione senza aver...., dico semplicemente che se questo non avviene con chiarezza anche all’interno delle stesse organizzazioni che si propongono questo qua è assurdo non è pensabile che c’è gente, anche in Rifondazione, che va a parlare degli anni ’70, dei parlamentari che erano d’accordo col teorema Calogero e che davano le liste di prescrizione con i nomi alla polizia - parliamoci chiaro - è evidente che questi non diranno mai che tu sei un comunista, oltretutto .... in cui, specialmente nell’area pidiessina, vi è un processo anticomunista all’interno, perché la cosa pazzesca è che una volta ci tenevano in galera perché dicevano che eravamo anticomunisti, adesso ci tengono in galera perché siamo comunisti; questa è la situazione del ..... della sinistra. Quindi chiudo qua, è necessario dare battaglia e riorganizzare questa rete, renderla più funzionale, escogitare dei nuovi metodi, dei nuovi organismi per far sì che diventi un problema, in caso contrario ce la meneremo in eterno e buonanotte al secchio.

ANUBI: compagni e compagne io vedo che in questi due giorni di dibattiti siano stati piuttosto utili a tutti per tentare di mettere a punto un percorso sull’immediato perché è evidente che molte delle cose che sono state dette investono anche cicli temporali un po’ più vasti di quello che è invece l’urgenza della battaglia politica. Siccome tra l’altro Tonino Paroli ha chiamato in causa la mia organizzazione, Rifondazione Comunista. Io voglio tentare di dire una parola di verità rispetto a quello che è l’impegno nostro attuale su tutto ciò, anche dopo le cose dette dal compagno Vendola. Dalla manifestazione di ieri mattina viene un insegnamento anche per noi ed è .... evidenza per tutti e cioè che oltre al non guardarsi schifiltosamente tra diverse storie, diverse identità e diverse forze che citava Vendola, bisogna anche tentare di avere meno pudori nell’esporre i problemi che ognuno ha nel sostenere questa battaglia. E’ evidente che noi un problema, un limite lo evidenziamo in questo momento, è altrettanto evidente però che una strada sul terreno nazionale, sul terreno della visibilità delle scelte politiche, sul terreno dell’impegno l’abbiamo scelta. Ce l’abbiamo per esempio come giovani comunisti, quando ci siamo riuniti nazionalmente una settimana fa. Ci siamo detti, in conclusione politica della nostra conferenza, che la nostra battaglia non si chiamava indulto, su questo terreno; che non si chiama diciamo il sostenere una bandiera di una via legislativa e di uno strumento, ma che si chiama rottura con la cultura dell’emergenza, estinzione delle leggi d’eccezione, ricostruzione della memoria storica e ricostruzione di continuità del conflitto a fronte della continuità del controllo. Io credo che su questo terreno un’indicazione è stata data. Il limite di partecipazione, di adesione, di convinzione nel sostegno della battaglia si è evidenziato ieri mattina. Vorrei dire, e credo che ce lo siamo anche abbastanza detto in questi due giorni, che il modo differente il limite di adesione e di costruzione partecipata nella battaglia ce l’abbiamo tutti. Ce l’abbiamo non nella continuità delle storie dell’antagonismo diffuso, che qua si rappresentano, ce l’abbiamo nella loro capacità di espansione su questo terreno di battaglia politica. Se ieri i compagni hanno detto, lo ha detto Beppe Caccia, abbiamo avuto un problema di verifica di un’illusione, cioè che fosse automatico coinvolgere un movimento emergente come quello degli studenti dentro questa battaglia, abbiamo però anche avuto la percezione che se non ci fosse stato un meccanismo di coinvolgimento almeno parziale, gli studenti milanesi ci saremmo trovati ben pochi in piazza in una scadenza nazionale che era stata invece costruita, come ricordava Farina all’inizio di questa due giorni, come un’idea di esito su questo terreno della progressione di coinvolgimento di energie, su un campo più vasto di battaglie politiche che andava da Amsterdam a Venezia per altri passaggi. Quindi evidentemente le cose che sono state dette, io credo che siano stati ben focalizzati i limiti in questi due giorni, debbono valere soprattutto come riflessione comune - sono molto d’accordo con Beppe su alcune indicazioni operative - vorrei dire che però dobbiamo portare a conclusione tutti insieme alcune delle riflessioni che abbiamo fatto, esaminando più nel merito i limiti. Si è detto che abbiamo un problema di articolazione di una battaglia culturale che faccia in modo che la rivendicazione della liberazione dei prigionieri politici, dell’estinzione della prigionia politica, del superamento delle leggi d’eccezione, della chiusura della partita dell’emergenza non sia semplicemente un appello genericista ai movimenti dell’oggi perché si coinvolgano nella nostra iniziativa. Però bisogna fare in modo che una battaglia culturale articolata e delle iniziative, abbiano una loro configurazione propria in questo senso; se questo è un limite va compreso, superato, va data una replica differente in termini di dispositivo politico. Io credo che la Rete e i soggetti che vi si vogliono coinvolgere, porto oggi l’impegno ad un coinvolgimento maggiore e più fattivo e presene dentro la Rete, per quanto ci riguarda, da adesso in poi, visto che ci siamo dati un po’ di organizzazione almeno a livello di forze giovanili di Rifondazione; spero bene che questo valga anche come battaglia puntuale all’interno di Rifondazione Comunista, puntuale e politica. Io però credo che noi abbiamo la necessità di vedere il contesto, come è stato detto. Allora se l’anno prossimo, stiamo per entrare nel trentennale, con tutte le celebrazioni annesse e connesse, del 1968 le forze che sono qui dentro, io credo che siano in grado per propri percorsi culturali indipendentemente da questa battaglia, per propri percorsi di produzione culturale comunque già disposti, di affrontare per esempio quel passaggio come un passaggio qualificante per ricostruire tutto quello che è stato detto. Ma noi dobbiamo farla questa battaglia, compagni, dobbiamo darci un percorso nazionalmente, rispetto a quello che residuerà da questa stagione di mobilitazioni studentesche nelle scuole oltre ad ......, rispetto a quello che incomincia a rivelarsi anche dentro le università, dove c’è un terreno anche più fecondo di dibattito in questo senso. Credo che noi dobbiamo incominciare a dare una gamba di questo genere alla battaglia, cioè fare in modo che vada anche oltre la Rete, che si faccia una battaglia di confronto aperto - lo dico anche a Parodi - in cui il problema non sia di chi viene da quella stagione, da quel ciclo di lotte, il portare la propria autolegittimazione e metterla in fila con quella degli altri, perché altrimenti noi creiamo una .... incomprensibile a chiunque venga dall’oltre quel ciclo di lotte, che venga oggi. Io credo che invece dobbiamo confrontarci molto apertamente, anche scontrarci - che i compagni anche si scontrino, credo che ci si scontri anche mettendo fuori la mia storia, la mia identità, la mia appartenenza - ma qua dentro gli scontri ci sarebbero comunque, mi sembra del tutto evidente, retrospettivamente; quindi per favore con un approccio, appunto, di minor pudore anche storico rispetto alle questioni che sono poste in campo. Non è il problema di confrontarci noi, nei prossimi tempi, con le vittime, questo insomma è un carico che si assume una battaglia di congegno istituzionale di bilanciamento, però assumerci il carico veramente di farla una battaglia storica, di dirci - ognuno portando un contributo, ognuno scontrandosi nel proprio contributo con quello degli altri - di dirci come va costruita una strada per ricostruire un percorso di memoria da subito; cominciare a preparare scadenze, cominciare a mettere in rete le produzioni che si vanno preparando su questo terreno. Secondo dopo la battaglia politica in relazione alle mobilitazioni dell’oggi, ai movimenti, ai soggetti; io credo che appunto quell’appello genericista non funzioni, funziona ad un livello simbolico di attrazione, di coinvolgimento ad una scadenza nazionale quale quella di sabato per alcuni, lo abbiamo visto rispetto ad un pezzo per esempio il movimento studentesco di questa città che pure è stato molto forte. Allora noi dobbiamo fare in modo che anche con la battaglia culturale e l’articolazione degli obiettivi per quanto riguarda la battaglia politica strettamente intesa come la liberazione dei prigionieri politici e la verità storica sulle stragi e della verità giudiziaria sulle stragi rientri dentro quelle mobilitazioni e anche qui bisogna fare in modo che dalla Rete a tutte le nostre appartenenze si riesca a disporsi diversamente rispetto a tutti i soggetti, cioè cercare il contatto, il confronto ed entrarci dentro coi percorsi il che sarà problematico in termini scambio di linguaggio, in termini di codici di comunicazione; è problematico, però bisogna farlo perché altrimenti qui alla battaglia non si partecipa. Il che appunto non può, se non partiamo dall’idea che facciamo delle campagne per poi costruire il salto di qualità e un soggettivo movimento di massa che si muova esclusivamente su questo terreno. Io credo che questo non sia nell’orizzonte del possibile e, tra l’altro è anche un po’ balzano e bizzarro, credo almeno per quel po’ di codici comuni e di interpretazione politica della realtà che abbiamo. Noi dobbiamo fare in modo che se pensiamo che ci sia una continuità nel controllo e che questo controllo si è esercitato su quella stagione, ha sedimentato un parterre giuridico, politico e culturale che consente oggi la replica ai movimenti, agli antagonismi diciamo in un filo di continuità siano quei movimenti e quegli antagonismi a abbinare l’espressione conflittuale ai propri bisogni con quella battaglia, ma non che costituiamo un soggetto che fa vivere autonomamente la battaglia. Se questa battaglia non è interpretata dalla rivendicazione dei bisogni di soggettività che sono in campo e che si autovalorizzano nel loro conflitto dell’oggi è evidente che questa battaglia è persa; poi possiamo fare tutti i salti di qualità nella pressione sull’autonomia del politico perché risolva in qualche modo, ma appunto non risolve nel modo .... quindi fra l’altro calano verticalmente le probabilità di risoluzione politica. su questo vengo alla questione che è stata sollevata in questi due giorni, che è decisiva, non è che nessuno si nasconde, del dispositivo politico-giuridico che si chiede. Intanto è un dispositivo politico-giuridico, quindi o noi lo intendiamo in maniera strumentale, ne diamo l’interpretazione strumentale al conseguimento di un obiettivo o altrimenti ricadiamo veramente nella tentazione di agitare una bandiera e una rivendicazione generica. Io credo che senza questo lavoro che si è detto non si è riusciti a fare e che andrà fatto di coinvolgimento di soggettività, di tentare di sintonizzare la battaglia con le rivendicazioni sui bisogni oggi, con i conflitti e gli antagonismi di oggi, anche mutata la condizione leader dell’indulto quella legge sull’indulto non avrebbe risolto il problema e nemmeno avrebbe avuto una crescita di possibilità di riuscita autonoma dentro il parlamento, dentro questo quadro politico. Le cose si spiegano insieme ma anche il ritardo si spiega così, anche il fatto che si sia inceppato perché quel quadro politico ce l’abbiamo presente tutti, in quel quadro politico alcuni di noi vivono anche dentro la presenza istituzionale altri no, ma c’è, è obiettivo ed è quello che si esercita diciamo in termini di governo, sia il governo politico del paese sia in termini di governo diciamo come connessione di poteri nella perpetuazione di un controllo e quindi nella perpetuazione e le ragione che sostengono e sostanziano la continuità dell’emergenza come è stato detto. Allora se questo quadro politico c’è io credo che anche la battaglia sull’amnistia non vive autonomamente. Io sono per assumere come obiettivo politico, noi tutti insieme, la sostanza della battaglia, cioè la rottura di questo quadro sul terreno degli strumenti di una continuità del controllo, la discontinuità con le leggi d’eccezione, il superamento delle leggi d’eccezione e il perseguimento, la pratica dell’obiettivo la liberazione dei prigionieri politici ed il ritorno degli esuli. Su questo i compagni hanno impostato molto bene, io ho molto apprezzato non solo diciamo per un’idea di gentleman agreement con noi l’intervento di Paolo, ma proprio per la sostanza delle cose dette, per il tipo di approccio di metodo di Paolo del Leoncavallo. Credo che se allora però, crediamo a quell’impostazione lì, e le cose non sono incompatibili perché si capisce che uno non chiede all’autonomia del politico la risoluzione dell’intero problema e quindi quella cosa continua a vivere il suo iter, allora se c’è una verifica e un tempo di verifica sul percorso dell’indulto se nel frattempo dalla Rete e dai soggetti coinvolti nella Rete si alza un’altra bandiera che dice quello strumento è depotenziato rispetto all’obiettivo, poniamo quest’altro che è quello dell’amnistia misurandolo sull’obiettivo e sulla necessità di perseguire quell’obiettivo io ci sto nel termine proprio dell’approccio politico con quello ..... e credo che arricchisca la battaglia e credo che costituisca una pressione politica importante; allora va bene però che questo significhi non il delegare, diciamo, questo tipo di impostazione ad un suo iter che la stravolge, cioè quello di dire va bene, adesso da questo momento in poi facciamo tutti gruppo di pressione perché in parlamento entri la legge per l’amnistia. Sì, questo è un esito strumentale, una volta verificato appunto che quella legge sull’indulto si depotenzia nei tempi, nell’iter, si neutralizza e rischia di diventare impossibile come strumento praticabile. Che sia invece, in qualche modo, qualcosa che avvicina una coscienza più diffusa alla sostanza della battaglia che vogliamo portare avanti e che mobiliti in un modo differente di approccio a questa battaglia che veramente metta insieme, metta in "rete" delle soggettività e delle soggettività comunicanti rispetto alle lotte sui bisogni altrimenti noi non riusciamo, facciamo semplicemente un ricambio di bandiera, come quella bandiera lì si depotenzia dentro questo quadro politico tanto più l’amnistia compagni. O il soggetto che propone questa pressione è un soggetto che si sostanzia dentro i territori, dentro le conflittualità di questo momento o altrimenti - io ribadisco l’impegno a starci dentro tentando anche noi una connessione - questo tipo di battaglia diventa appunto il ricambio di uno slogan e di una idea di pressione sull’autonomia di un quadro politico, non interferisce con quella dinamica e subirà quella dinamica. E io credo che già lo scorporo del problema degli esuli diventerà una divaricazione ancora più insostenibile sul piano politico, rischiamo appunto che gli fanno una volata, un salto in avanti senza un salto invece di qualità sul piano della costruzione della battaglia che ci viene incontro, diciamo, in negativo rispetto alle nostre intenzioni. Credo che questo fosse semplicemente il contributo che intendevamo dare oggi e siamo piuttosto disponibili a verificare che questa ricerca, già dalle prossime settimane, i dispositivi, le scadenze, i modi per riuscire ad articolare dei percorsi immediati di riarticolazione e di nuova presentazione del problema politico su un terreno di movimento.

F.N.: ci sono ancora 5 interventi, tra gli interventi ci sarebbe anche una cassetta video di Oreste; faccio una proposta e cioè che li tagliamo tutti, facciamo parlare un compagno, Mair, che viene da Ginevra ed è venuto apposta per parlare, c’è una breve replica di Mauro e poi leggiamo una specie di mozione finale che abbiamo prodotto, che è un po’ una sintesi del dibattito tra ieri e oggi non vuole dare nessuna indicazione di massima, ma un po’ vuole racchiudere quello che abbiamo detto, perché non c’entriamo coi tempi, neanche con la necessità di ritorno nelle rispettive città, il treno parte tra poco, quindi questa è la proposta: che parli Mair, con un breve saluto all’assemblea di questo compagno curdo poi finiamo con Mauro e Primo.

MAIR: ciao a tutti e a tutte, cercherò di essere breve. Innanzitutto mi presento, faccio parte del Fronte di Liberazione Nazionale del Kurdisan che è un’organizzazione di massa del PKK, vengo da Ginevra però ero .... in Italia. Parlando del carcere o dei prigionieri politici, la realtà in Kurdistan è tutta un’altra. Le organizzazioni curde in Turchia sono nate alla fine degli anni ’60, quindi dagli anni ’70 ad oggi i prigionieri politici in Turchia subiscono varie politiche dai governi militaristi turchi. Quando si parla del carcere in Turchia vorrei fare subito riferimento alla tortura; il carcere in Turchia vuol dire tortura, almeno nei primi mesi di custodia sono sempre legati alla tortura fisica perché i prigionieri politici e la gente arrestata si arrenda politicamente o si arrenda ideologicamente, cioè che faccia delle dichiarazioni al pubblico di pentimento. Questo è applicato al 100% degli arrestati, è proprio una politica per far fuori ideologicamente i prigionieri politici arrestati. C’è una grande resistenza nelle carceri in Kurdistan, non vorrei dare dettagli, però sono stati momenti storici che hanno dato anche una svolta nella lotta della liberazione del popolo curdo fuori dal carcere. sono stati i prigionieri che hanno spinto il popolo curdo e la nostra organizzazione a ricominciare la lotta per esempio, a partire dal 1982, centinaia e centinaia di curdi che erano imprigionati, quasi tutti i compagni che erano imprigionati hanno iniziato uno sciopero della fame che è finito anche con dei martiri già nell’82 e subito dopo questo ha dato un fuoco, un .... della lotta fuoridal Kurdistan e che continua fino adesso. Però voglio dire che in Turchia per la situazione dei prigionieri politici finora la questione più importante è quella della tortura. La gente viene torturata fisicamente, la Turchia lo fa malgrado si dichiari un paese democratico, malgrado si dichiari paese che vuole entrare nell’unione europea; tutti i paesi, ormai da anni, hanno aumentato i rapporti economici con la Turchia, ad esempio la Francia che aveva un miliardo di franchi di investimenti nell’88-89 oggi ha fatto investimenti in Turchia per 12 miliardi di franchi ed è diventato il primo paese investitore. Tutto quello che si dice fuori, richieste alla Turchia per il rispetto dei diritti umani, il rispetto dei prigionieri lo diceva un altro compagno, sono balle. La realtà che noi vediamo nei rapporti internazionali fra i paesi militaristi o quelli che si dicono democratici è .......e dall’altra parte ieri l’unione europea non ha accettato la Turchia come candidata, però non credo per niente che questo sia per i diritti umani, perché la Turchia in questo momento non conviene all’Europa come paese, ma andrà all’unione europea. In Turchia c’è una guerra, c’è un’inflazione del 100%, ci sono più di 10 milioni di disoccupati e quindi questo mette in difficoltà perché l’unione europea dovrebbe pagare migliaia e migliaia di lire perché la Turchia abbia uno standard vicino all’Europa. E’ per questo motivo soprattutto. Se la Turchia continua a violare i diritti umani, soprattutto in carcere, noi diciamo che la Turchia non deve essere accettata a livello europeo, deve essere rifiutata finché non diventi un vero paese democratico. E’ anche discutibile se conviene alla Turchia o meno essere membro dell’unione europea, ma questo è un altro dibattito, però per dare un’immagine della situazione attuale: in Turchia ci sono 12.000 prigionieri politici, quasi tutti curdi, ci sono anche quelli che appartengono alla sinistra turca, però il 90% sono curdi. Noi come PKK abbiamo 10.000 prigionieri politici di cui quasi 2.000 donne che sono in Turchia solo per essere mano di un’organizzazione illegale, fuori legge, ti danno 12 anni di prigione. Uno che ha aiutato un’organizzazione, o ha fatto dormire a casa sua una persona rischia anche 11 anni. Per esempio quattro deputati curdi che sono stati condannati nel ’94 per falsa testimonianza - era un processo politico, il mondo intero lo sa - sono stati condannati a 11 anni per aver aiutati il PKK. Se qualcuno ha fatto un’azione illegale rischia 36 anni, io non so dirvi quante persone sono condannate all’ergastolo in Turchia, sono migliaia. Il problema è però legato ad una questione: in Turchia ci sono tanti problemi, la violazione dei diritti umani, le leggi antidemocratiche e la questione curda. Noi pensiamo che se non si risolve la questione curda pacificamente e democraticamente, se non ci sarà una pacificazione del Kurdistan questi problemi continueranno ad esistere. Nel ‘91 c’è stata un’amnistia parziale e all’epoca sono rimaste solo 500 persone in carcere, però oggi sono 12.000 e se non cambia la situazione, le leggi, se non c’è un dialogo sulla questione curda, che è una questione grave per tutta la Turchia, continueranno ad essere arrestati e condannati e i numeri aumenteranno però un’amnistia solo per i prigionieri politici non risolverebbe; è una questione globale e la questione curda è ancora più complicata, deve essere risolta nel suo complesso, non solo in Turchia; se, per esempio, non si risolve anche in Irak la guerra continuerà, ma anche questo è un altro dibattito. Per finire il messaggio che noi vogliamo dare è chiedere ai compagni di essere più vigili, più vicini; non c’è molta informazione su questa situazione, quindi chiediamo ai compagni dei centri sociali e delle forze democratiche di essere più vigili e di essere più solidali. Per questo dico che si è creata il 6 dicembre a Roma un’associazione per la liberazione e per la solidarietà con il popolo curdo e anche qui a Milano esiste un comitato di quest’associazione e invito i compagni che sono interessati a partecipare a quest’associazione. Grazie.

MAURO PALMA: Sarò telegrafico, ma ci sono tre o quattro punti su cui è meglio ritornarci sopra innanzitutto perché sono assolutamente convinto che è un ben che a questi dibattiti non ci siano mai tutte le forze politiche perché così ognuno può indicare che sono altre forze politiche che non permettono di fare l’indulto per quanto riguardava la forza politica di appartenenza, senno’ era tutto molto chiaro. Allora io non credo che le cose stiano così, io credo che in realtà tutti gli esponenti politici di quelle forze istituzionali che parlano abbiano un compito e una battaglia da fare all’interno delle proprie organizzazioni ben più ampia di quella che noi possiamo anche mettere in campo ovviamente. Io voglio sottolineare due o tre cose e non per spirito polemico: come voi sapete noi abbiamo scritto tutte le proposte di legge, al di là di come sono firmate, le abbiamo formulate oculatamente con il computer in modo che ognuno scegliesse. Non avevamo nessun motivo ad esempio per fare in modo che la proposta che riguarda gli esuli fosse firmata soltanto da Cento; è perché tutti gli altri non l’hanno voluta firmare. E’ perché Rifondazione, sono contento che Anubi oggi dica che c’è un’altra posizione, perché Rifondazione ha ritirato la firma da quella proposta perché anzi posso dire, testimoniando direttamente, che i primi a cui l’abbiamo data .... al Senato era firmata Manconi, non volevamo che alla Camera fosse firmata da un altro verde l’avevamo data a Rifondazione. Rifondazione ha detto che per gli esuli non firmava. Allora, che vengano altre posizioni benissimo, servono queste occasioni per farle venir fuori, però c’è un pochino di gioco che non mi sta troppo bene quando mi sento sempre attorniato da molti interventi - io farei, andrei ecc. - e poi dopo c’è sempre qualche altro esterno che non l’ha permesso senno’ le cose sarebbero andate bene. Seconda questione che volevo dire: smettiamola comunque - in questo scusami se correggo una cosa tua - con l’idea che tra poco tempo l’indulto, altrimenti non sarebbe più un problema. Questa è una balla che noi la agitiamo come dire politicamente - pure io la agito perché la rafforzo .... - cari compagni tutti sono 95 ergastoli. In questo paese la liberazione condizionale - e qui diciamo i 95 ergastoli si possono risolvere con la liberazione condizionale - negli ultimi 10 anni i nostri tribunali di sorveglianza l’hanno data solo a 27 persone, in dieci anni. Col cazzo che è un problema risolto rispetto alle 95 persone se non passa una legge specifica. Quindi una legge specifica ci deve essere, un percorso per costruirlo - non entro adesso sulla questione indulto, amnistia; voglio dire io pongo dei parametri: che sia generale, che sia indiscriminata, che risolva tutti i problemi e che sia consistente, poi troviamo la formulazione nominalistica - ci deve essere. Terza cosa e sono molto d’accordo con Paolo quando diceva c’è una continuità di gestione del conflitto. Qui la battaglia per l’abolizione delle leggi d’emergenza, che non sono quelle soltanto antiterrorismo, perché i compagni della mia età si ricordano che già nel ’74 sono cominciate le leggi speciali con la legge Bartolomei, nel ’75 con la legge Reale; quindi non sono soltanto il ’79-80 e la legge Cossiga. C’è una continuità anche di appoggio della sinistra al problema della gestione del conflitto, non si tratterà di questo tipo di conflitto ma di altri conflitti, con lo strumento del carcere. Questo è un nodo che nelle culture, anche della sinistra, noi dobbiamo riuscire a rompere perché altrimenti il nostro discorso può risolvere il problema specifico, ma guardate la compagna ha letto le indicazione del C.P.T. Centro di Prevenzione della Tortura relativa alla Spagna, guardate che il CPT ha mandato anche un’analoga nota al nostro sistema carcerario. Guardate che il nostro sistema carcerario è quel sistema dove nel 1990 c’erano 30.000 detenuti, 18.000 agenti di custodia e 500 educatori, nel 1996 ci sono 50.000 detenuti, 44.000 agenti di custodia e 500 educatori, tali e quali. Il numero dovrebbe descrivere l’evoluzione del problema. Allora e chiudo il problema di costruzione di verità, secondo me, passa anche attraverso la costruzione di verità in casa nostra, nelle nostre organizzazioni di sinistra, nei nostri ambienti anche di dibattito, perché sennò è sempre una costruzione di una verità altrui, passa attraverso - io sono uno che tende ad affermare le differenze sulle questioni passate tra movimento, autonomia e organizzazioni armate, non mi stanno bene le ricostruzioni ma non è questo ora in cui tutti questi contorni sfumano perché questi contorni, compagni, sono stati oggetto di lacerazioni, lacerazioni tra di noi, lacerazioni e contrasti in galera cioè non possiamo ... e comunque diciamo la verità passa attraverso la ricostruzione di queste differenze, quelle là e quelle all’interno delle organizzazioni di ognuno che si vive oggi, le organizzazioni politiche, non perché queste costituiscano un modo per non dialogare, ma perché costituiscono un modo per poter trovare un percorso credibile sennò faremo sempre convegni in cui per fortuna non viene Folena perché così possiamo dire che è il PDS, se era venuto Folena state sicuri che erano i popolari, cioè voglio dire, la possibilità di andare avanti sempre rispetto a chi non è presente è un gioco che va avanti all’infinito.

PRIMO MORONI: io leggerei questa sintesi. Era stato fatto un documento ieri alla fine dell’assemblea, poi l’associazione Walter Rossi aveva portato un documento di 11 pagine relativo a una serie di tematiche di cui si è parlato anche oggi, per esempio questa questione del rapporto tra verità e libertà sono due storie la verità e la libertà; io ricordo sempre che circa un anno e mezzo fa quando vidi in televisione, in prima serata, un dibattito sulla questione dell’indulto e che era già in commissione giustizia anche se non ancora perfezionato e in trasmissione c’era sia Salvi del PDS, c’era La Russa e altri tra cui un popolare e quello che faceva privilegiare l’indulto in rapporto all’amnistia era il comune sentire che i rappresentanti di Rifondazione, del PDS, del partito Popolare e di Alleanza Nazionale che l’indulto era semplicemente una riduzione in ristabilimento dell’equità delle pene da cui lo stato quindi usciva con la propria dignità ribadendo la condanna etica, morale e politica anzi l’orrore delle figure sociali a cui sarebbe stato applicato l’indulto, c’era questo limite .... e quindi è ovvio che un percorso fuori da questo schema che ha a che vedere con molto di quanto detto oggi, cioè il rapporto tra verità storica, libertà dei corpi e modifica delle varie legislazioni è uno dei nodi che deve andare, altrimenti rimane solo ingegneria giuridica, poi trovi gli aggiustamenti in qualche commissione ovvero se si va fino al percorso conclusivo della bicamerale a quel punto per la maggioranza semplice è possibile che l’attuale legge sull’indulto torni in parlamento o meno ecc. Nessuno dia di suo pugno altre interpretazioni, ha fatto bene a ricordare su questa questione più generale che alla metà degli anni ’70, sul problema della legislazione d’emergenza - io cito sempre un delizioso articolo che è del lontano 1975 scritto da Romano Canosa su Critica del Diritto in cui si parlava delle varie legislazioni d’emergenza sparse per l’Europa - se sull’Italia potevi dire c’è stata un’emergenza di violenza, di lotta armata, di formazioni che hanno messo in discussione i confini o la gestione della democrazia non si capiva perché democrazie come quella francese e quella inglese attuavano provvedimenti consimili pur non essendo in presenza di fenomeni .... anche qui che erano già essi diversi che muovevano l’azione dello stato, che non fossero la stretta relazione di insorgenza di forme di violenza clandestine o diffuse e applicazione stessa.

Quindi questo documento dei compagni di Walter, che io lascerò a una compagna per le fotocopie, tocca questi nodi e ha a che fare con il rapporto esistente con una battaglia che vuole un provvedimento per la liberazione dei prigionieri politici e che salvi la dignità dei prigionieri politici ma nel contempo non sia una falsificazione storica. Abbiamo provato a sintetizzarlo.Quello di ieri se volete lo rileggo anche perché quello di ieri è molto più ..... di quanto non sia quello di oggi.

Constatando che lo stato attuale della giustizia in Italia è regolato da continue dinamiche emergenziali create con il fine specifico di comprimere sempre più spazi di libertà e di partecipazione e che nell’attuale situazione politica non vi è alcun cenno di modifiche sostanziali, che riteniamo necessarie, è nostra intenzione impegnarci per alcune fondamentali battaglie di libertà.

Inoltre riteniamo che Salvatore Ricciardi e Luca Ghezzi siano due casi emblematici del regime speciale sempre in vigore, sui quali convogliare un impegno immediato nel tentativo di coniugare specificità e concretezza a questioni più generali. In questo senso chiediamo alle varie realtà e soggettività politiche qui presenti, istituzionali e non, la disponibilità e l’impegno nella costituzione di organismi di collegamento con il sociale, di controllo dal basso dell’operato delle istituzioni, di osservatorio sulla realtà della repressione diffusa.

La sintesi del documento presentato dall’associazione dei compagni di Walter Rossi:

l’anomalia italiana rispetto ad altre comunità internazionali è anche rappresentata da due aspetti o emergenze che non trovano riscontro in altri paesi se non quelli che hanno lotte per l’indipendenza e che riguardano il problema delle stragi e degli assassini impuniti e la permanenza dei detenuti politici all’interno delle carceri. Questi due temi sono strettamente intrecciati tra loro, non possono essere disgiunti. Il nostro è stato un paese a democrazia bloccata sotto il ricatto costante e pervicace di uno scontro tra sfere di influenza politico internazionali che ha impedito una naturale evoluzione delle forme di democrazia e delle sue dinamiche dell’alternanza. E’ una conquista politica e storica, ma soprattutto una battaglia culturale quella che deve essere condotta per consentire una nuova lettura delle vicende italiane. La storia che i nostri figli studieranno sui libri di testo deve essere riscritta e ciò non può prescindere anche dalla verità giudiziaria che dovrà essere raggiunta. Nulla è rimasto irrisolto a livello politico e giudiziario delle vicende che hanno interessato le Brigate Rosse e gli altri movimenti armati che hanno agito in Italia in questo ventennio. Gli autori sono stati condannati e stanno scontando da almeno 15 anni la loro detenzione e molti altri dovranno ancora subirla. Per le stragi invece nessun colpevole salvo due eccezioni e anche su quelle avremmo dei dubbi. Lo stato ha certamente creato la commissione parlamentare sulle stragi; pure se tale organismo rappresenta ai massimi livelli la volontà istituzionale di far luce sugli anni che hanno insanguinato il paese Italia, va constatato che dopo molto tempo dalla sua costituzione l’impunità regna sovrana. Il rapporto tra verità e libertà diventa così uno dei passaggi strategici la cui mancata soluzione impedirebbe qualsiasi sforzo innovatore o addirittura genetico del passaggio di una seconda repubblica. Nulla di nuovo, di epurato, di diverso può nascere senza l’eliminazione, lo sradicamento di ciò che di perverso ed eversivo ha contraddistinto la nostra recente storia nazionale. Una grande mobilitazione capillare e locale che coinvolga tutte le sedi possibili per operare ad un obbligo di verità che non può essere soddisfatto burocraticamente o frammentariamente. Un governo di sinistra deve porsi questi obiettivi, deve dimostrare che una diversa cultura attraversi il nuovo corso deve esprimersi in questa consapevolezza e sensibilità. Vogliamo che vengano promossi dalle istituzioni, dai partiti, dai mass-media, da ogni organismo o struttura esistente nel sociale e sul territorio una sessione dedicata alla verità sulle stragi, alle trame eversive che le soprintendevano e agli strumenti utilizzati da settori dello stato per bloccare lo sviluppo della democrazia in Italia. Su questi temi occorre creare un coordinamento nazionale di tutte le strutture, forze, organizzazioni, movimenti partitici e non, che sulla base delle conoscenze raggiunte promuovano un dibattito in tutte le sedi possibili. Il coordinamento dovrà essere o diventare organo interlocutore della commissione stragi la quale, nel rispetto del segreto istruttorio delle vicende processuali ancora pendenti dovrà fornire ogni elemento utile e necessario per la conoscenza delle trame eversive che hanno insanguinato il nostro paese. E’ necessario approfondire, anche sulla base delle nuove conoscenze acquisite il nesso e l’inscindibilità tra il problema della verità e quello della libertà. Appare, inoltre, in tutta evidenza che il pesante apparato giudiziario che trae legittimità dalla pervicace falsificazione storico-politica è del tutto funzionale e quasi indispensabile arma di ricatto e condizionamento dell’agire quotidiano, sociale e politico dei nuovi movimenti che con grande difficoltà ed intelligenza si pongono nuovi compiti e nuovi obiettivi tesi ad assumere solidarmente sia la memoria storica, che i nuovi orizzonti del conflitto consentendo al suo esito di questo percorso di individuare lo strumento efficace o più efficace per la soluzione della detenzione politica in Italia. L’esperienza passata ha dimostrato che senza l’assunzione dei nessi esistenti tra memoria storica e verità politica e libertà dei corpi, qualsiasi percorso avente forme di indulto o amnistia diventa impraticabile.

F.N.: io volevo aggiungere un’ultima cosa. Mi sembra che ci fosse una difficoltà oggettiva a sintetizzare quello che è uscito da questo convegno nel senso che c’era una necessità di tirare fuori delle linee, aprire un dibattito che, per certi versi in questa giornata abbiamo chiuso, e non l’abbiamo chiuso noi. L’ha chiuso l’indisponibilità ad affrontare questa storia; l’ha chiuso la nostra debolezza ad invertire questa tendenza. Quindi come mantenerlo aperto, questo è il problema che dobbiamo porci. Come risolverlo sostanzialmente. Quella specie di mozione, così come l’abbiamo presentata all’inizio, è chiaro che non è nessuna sintesi, ma qui mi sembra che nessuno potrebbe sperticarsi nel trovare una sintesi nel dibattito che c’è stato oggi, non tanto perché ognuno ha assunto - come diceva Mauro Palma prima - delle posizioni politiche particolari, indicando in altri le responsabilità della non soluzione di questo problema, ma anche perché, in realtà, qui dentro non c’è nessuna capacità di affrontare e risolvere questa questione in termini concreti e immediati, ma neanche nel medio periodo. Quindi noi lasciamo aperta questa questione, pensiamo che ognuno di noi debba sforzarsi dentro questo meccanismo per trovare ulteriori soluzioni. Ma questa è la realtà compagni, la realtà di una situazione generale che non siamo riusciti a modificare. Non prendiamocela con nessuno, prendiamocela con noi stessi nel senso che questo è quello che siamo riusciti a costruire nella nostra debolezza e frammentarietà e nell’incapacità reale di capire che è un deficit di cultura politica la nostra, è un deficit di capacità reale di ragionare sul presente che ha portato non la Rete, ma ha portato l’insieme della situazione ad affrontare la cosa in questa maniera. Credo che questo sia tutto, cerchiamo di capire come andare avanti e come riposizionare la necessità di verità e libertà all’interno di questo dibattito, ma all’interno soprattutto di una nostra crescita, di una nostra capacità di saper incidere lì dove veramente bisogna incidere.

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