Panorama - 04.07.97

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Nessuno faceva il caffè come lui

QUESTIONE CARCERI.IN MEMORIA DI UN LADRO CON DESTREZZA MORTO DA EX NAPPISTA

La vicenda esemplare di Fiorentino Corti spiega le speranze di riforma di chi vive, oggi, dietro le sbarre.

Scrivo ancora di carcere: perché alcuni segni fanno (cautamente! scetticamente!) sperare che qualcosa di meglio possa avvenire in questo fondo di pozzo. La commissione Giustizia della Camera dei deputati, che è presieduta da Giuliano Pisapia, ha dato impulso alla votazione di progetti ragionevoli che attendevamo da tempo, come la depenalizzazione di reati senza gravità. Oltre alle misure che dovrebbero togliere alla galera il trattamento dei tossicodipendenti, in Senato si discute la possibilità che le cosiddette pene alternative – lavori di utilità sociale e di riscatto personale, arresti domiciliari – non attendano le sentenze definitive e la carcerazione, ma possano essere assegnate dai giudici fin dal primo grado del processo. Specialmente importante è la costituzione, decisa nella commissione Giustizia, di un « permanente per i problemi penitenziari», presieduto da Luigi Olivieri. Il comitato ha annunciato fra i suoi intenti iniziali visite ispettive alle carceri, a cominciare da San Vittore; ha incoraggiato detenuti e personale dei carceri a indirizzargli direttamente i propri appelli e le proprie proposte. Parlamentari di diverso schieramento si sono impegnati a un calendario di visite nei mesi estivi, che sono quelli della vacanza per il mondo di fuori, e di una raddoppiata sofferenza per quello di dentro (ci sono giorni in cui un’aria di mare sbaglia strada e si insinua fino nei passeggi murati dei detenuti).

Alcuni di noi di dentro hanno pensato di rivolgere al ministero della Giustizia e alle Camere penali la proposta di dare un accesso libero e continuo nelle carceri a volontari, avvocati e studenti, che assicurino ai detenuti quella consulenza sui loro diritti nei processi e nella vita carceraria di cui oggi sentono drammaticamente la mancanza. Misura elementarmente civile, preziosa soprattutto per i più indifesi – i poveri, gli stranieri – che non costa di fatto niente, e sollecita lo spirito più nobile di una professione come quella degli avvocati, costretta spesso a un’opacità e, forse, a un addestramento dei più giovani e generosi a un precoce cinismo.

Fra i segni promettenti (con cautela! con scetticismo!) di questa stagione, che ha perduto una persona aperta e partecipe come Michele Coiro, c’è ora anche, col ritorno di Toni Negri, una miglior condizione per liberare dal carcere con un’ampia misura di indulto persone che da molto tempo meritano di appartenere da cittadini responsabili e consapevoli al proprio Paese. All’opposto, allarme sull’inadeguatezza del carcere anche più duro a impedire un’attività criminale è sollevato dai massimi responsabili delle indagini contro la mafia e fra loro da Gian Carlo Caselli. È importante che non avvenga ancora una volta che le peculiari esigenze della persecuzione di polizia e giudiziaria della mafia o della criminalità organizzata non travolgano la sorte di tutti i detenuti.

Vorrei accennare alla vera e diversa speranza che ho nel cuore. Essa riguarda la possibilità che esperti, legislatori, carcerieri, carcerati e la più larga opinione pubblica siano disposti a reinterrogarsi sul perché della galera: sul perché e sul come della reclusione stretta dei corpi umani in gabbia. Questa galera continua a chiudere nello spazio soffocato di una cella, 18 o 20 ore al giorno, persone che non costituiscono una minaccia attiva, che escono in permesso e rientrano, che sono ristrette così solo a impazzire e incattivirsi. Nessuna costituzione, nessun principio morale consiglia né autorizza questo: solo l’inerzia dei muri, delle chiavi, e delle abitudini. Reinterrogarsi su questo vuol dire rendersi conto della cattiveria e della superfluità del carcere in molti casi, del sadismo e della superfluità della chiusura in gabbia stretta in molti altri. Un Parlamento che riguardasse così le cose potrebbe davvero proporsi una svolta nel nostro grado di civiltà.

Mi è toccata una vita che mi ha fatto visitare anche gli scantinati e il sottosuolo dell’edificio sociale, e non solo il pianterreno. Mi sono occupato del carcere, e di altri scantinati, anche quando non vi ero sequestrato. Ho fatto dei buoni incontri, lì. Nell’inverno del 1970, alle Nuove di Torino, ero isolato davvero nel sottosuolo, con un mio compagno «», alcuni scabbiosi, un transessuale sempre chiuso che cantava: « sono Pulcinella, che ti fa ridere», e veniva usato dalle guardie per rapporti sessuali attraverso le sbarre. In quel carcere antico incontrai fra altri un ladro con destrezza, ingegnoso e arguto, ma abbandonato come un fagotto sulla sua branda. Si riscosse per la nostra presenza, diventò un militante politico e un campione per i suoi compagni di destino: con molti di loro poi reagì al tradimento delle promesse di riforma dei carceri e a quello che gli sembrava un opportunismo legalitario mio e dei miei compagni, prendendo la strada di una rivolta armata. Essa costò molto sangue.

Lui non uccise, né fu ucciso. Partecipò all’assalto a un manicomio giudiziario. Tornò in carcere, si batté, fu battuto, poi tornò forse al silenzio e al sonno. Dopo molti anni venne fuori a metà, in affidamento, in semilibertà. Lo rividi al mio processo. Vollero fargli dire che era stato, nel 1970, un mio fornitore d’armi. Disse di no. Quando ci salutammo, si scusò di non essere stato ancora più reciso: mi tolgono i benefici quando vogliono, disse. Il 7 maggio scorso ho letto su una cronaca di Firenze un colonnino intitolato: « nappista muore tra i banchi del mercato». È morto d’infarto sul marciapiede, tra i bancarellai di San Lorenzo che erano abituati a vederlo passare, come un barbone schivo. Nessuno immaginava che avesse il passato che poi è emerso dagli archivi della questura. Era in libertà da cinque anni. Sono sensibile ai giochi del destino, che da ragazzi si attribuiscono ai romanzi russi, e poi ci si accorge che avvengono nella vita. Così, ho saputo che era morto libero, per strada, mentre io ero in galera. Avevo imparato da lui che cos’era un vero galeotto. Si chiamava Fiorentino Corti. Aveva 61 anni, ne aveva trascorsi in carcere 35. Nessuno faceva il caffè come lui.

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