Il Manifesto - 15.10.97

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Caro diario

Non parlerei della procura di Milano se tu, Dario, al tuo modo travolgente, non avessi fatto venir giù il loggione

ADRIANO SOFRI -

C ARO DARIO, le regole di questa clausura mi mettono sempre in ritardo. Dunque l'andamento - come al solito - travolgente dei tuoi movimenti ha accumulato nella mia cella una quantità di pensieri, che cerco di smaltire in parte. Comincio dal dirvi grazie (mi rivolgo sempre ad ambedue, Franca e te).

Che siate generosi, si sa. Ma che arrivaste a buttare fino i primi momenti della vostra gioia di qua dai nostri muri (e di quelli, tanto più brutali, delle galere turche o algerine) è un segno di vera prodigalità. Non ero stato tanto sorpreso - un po' sì, come te - dal premio che ti è toccato. Grazie a Dio ho girato un po' per il mondo, e soprattutto ho frequentato molto la Norvegia, e lì non c'è nessuno che possa reagire alla notizia del tuo Nobel simulando di non sapere chi sei. Mi è anche difficile ammettere che si possa, qui da noi, dolersi del Nobel a te, perché si desiderava che andasse ad altri. Io per esempio ammiro la poesia di Luzi e ho simpatia per lui. Sono stato molto contento che la campagna contro le mine sia stata premiata, all'indomani della grave posizione tenuta a Oslo anche dal governo degli Usa. Doppiamente contento, perché c'è un versante italiano peculiare della campagna. Noi siamo gran produttori e trafficanti di questi giocattoli, e abbiamo fatto tesoro della nostra eredità umanistica per battezzarli con questa parola atroce: "antiuomo". Altri paesi hanno trovato degli eufemismi, per un residuo di vergogna: noi ce ne freghiamo perfino della estrema ipocrisia del lessico. In compenso la partecipazione italiana alla campagna, da parte di associazioni come l'Emergency del dottor Gino Strada, di comunicatori come Costanzo, di politici come Occhetto, e dello stesso governo, è stata importante. Insomma mi sono rallegrato per questo premio (mondanità compresa: ce ne fossero di Audrey Hepburn e di Lady Diana), benché sperassi molto che venisse premiato l'intellettuale cinese Wej Jingsheng, imprigionato da anni, e, dalla sua prigionia, lucido e impavido denunciatore dei despoti del suo paese. Quando leggerete le sue lettere - le conosco grazie a mio fratello Gianni - ne sarete commossi e ammirati, e avrete voglia di fare qualcosa. Questa specie di scarso patriottismo, diciamo così (te lo posso dire dopo che hai dovuto raccogliere dalla polvere l'elmo di Scipio), dell'accoglienza fatta al tuo Nobel mi ha fatto ripensare - non so se altri l'abbiano già detto - che tu sei il vero contraltare delle sciocchezze separatiste lombarde. A parte il lombardo scritto, Porta o Gadda o Testori, il lombardo ascoltato mi arrivò, tanto tempo fa, dalle tue canzoni e poi dai tuoi spettacoli, compresa la stessa parola "padano", come nel tuo (genovese però) Johan Padân, in commedie che usavano dialetti e grammelot per farsi capire da tutti e far divertire tutti. Ora che hai il Nobel, dovrai provarci tu a riacchiap

pare dalla coda questa pazzia padanista, se non è già troppo tardi.

E poi c'è il mio affare, naturalmente. Non dirò niente sui meriti del pool contro la corruzione politica. Non c'entra. Ecco invece un sommario promemoria sugli inizi del mio caso. La Procura milanese aveva seguito per moltissimi anni la tesi che l'omicidio Calabresi fosse stato compiuto da persone in qualche modo legate a Lotta Continua, al suo servizio d'ordine, "frange militariste", eccetera. Ogni tanto si avventurò fino a indicare nomi e cognomi, cedendo a vociferazioni e illazioni incontrollate, per amor di tesi. Quando lo fece, commise un doppio arbitrio, accusando persone del tutto estranee (e presto dimostrate tali) e facendole finire sui giornali prima di avvisarle: così nel 1981 nel caso di Marco F., indicato in fotografia come l'assassino. Non credo che, al momento dell'attentato, e ancora per molti anni, quei magistrati, pur così affezionati alla loro tesi, potessero prendere sul serio l'idea che un omicidio fosse stato deciso dal "vertice" di Lotta Continua, da una delibera presa a voto di maggioranza nel suo Esecutivo, e altre follie del genere (oggi sancite dalle sentenze). Quell'idea era allora inconciliabile col senso comune, che poi il tempo avrebbe deformato. Ne ho una conferma indiretta nel fatto che, nel corso degli anni, da qualcuno di questi magistrati mi venne inviata per interposta persona la richiesta di aiutarli alle loro indagini con quello che sapessi: richiesta del tutto fuori luogo. Era abitudine di qualcuno di quei magistrati - per esempio del sostituto Armando Spataro, che è ripetutamente intervenuto, in aula e fuori, per sostenere l'accusa contro di noi, e che ho appena reinvitato a discutere con me le prove che ritiene raggiunte a nostro carico - di chiedere, spesso fuori verbale, agli indagati della "lotta armata" se avessero sentito qualcosa circa Lotta continua e l'omicidio Calabresi. Poiché l'appetito viene mangiando, da un qualche momento a quegli interrogati furono fatti anche il mio nome e quello di altri fra i più noti dirigenti dell'antica Lotta continua. Dunque quando nell'estate 1988 scoppia, come un'impresa militare, la nostra cattura e incriminazione, non si tratta affatto dell'improvvisa e imprevedibile rivelazione di un pentito che venne da nulla, bensì dell'inveramento di un'idea a lungo perseguita ed elaborata. Fino a che punto, lo mostra un episodio documentato negli atti del processo, e ancora oggetto di uno strascico giudiziario derivato: un anno prima, nel luglio 1987, Marco Boato mi telefonò da Trento per farmi gli auguri di compleanno, e per dirmi, a metà tr

a l'ilarità e lo sdegno, la seguente storia. Un imputato veneto di reati di banda armata, interrogato anche lui fuori verbale sull'omicidio Calabresi da un giudice istruttore a Milano, ne aveva ricavato la notizia che lo stesso Boato e io, Sofri, saremmo stati arrestati quella notte come responsabili dell'omicidio. (A parte me, pensare Boato corresponsabile di un omicidio è una pazzia grottesca). Mi disse Boato: "Che cosa pensi di fare?". "Di cenare e andarmene a dormire", risposi. Dormimmo bene e non se ne parlò più: fino all'estate successiva. Questo prova fin dove arrivasse il peccato di gola di qualche investigatore milanese, ufficialmente un anno prima che Leonardo Marino andasse a riversare il suo pentimento in una caserma dell'Arma; o, se si preferisce, nel tempo stesso in cui la coppia Marino-Bistolfi inaugurava i suoi colloqui con avvocati e notabili politici sul tema. Siamo nell'estate 1988. Pubblico ministero è Ferdinando Pomarici. Del quale non importa se fosse di sinistra o di destra, e quanto: era il Pm che aveva deriso gli scettici garantendo di aver "scarnificato mattonella per mattonella" il "covo" Br di via Monte Nevoso, salvo lasciarvi un arsenale di armi e carte in una intercapedine protetta da "quattro chiodini". Pomarici aveva l'aria di volersi sbrigare: la prima e unica volta che mi interrogarono, lui e il Giudice istruttore Lombardi, mi disse: "Guardi, tanto è tutto prescritto, abbiamo amici in comune, lei confessa e spiega anche il contesto storico e politico, nessuno lo farebbe meglio di lei". E' durato nove anni, il nostro maledetto processo. Lui avrebbe risolto tutto in un'oretta. Poche persone hanno detto tante bugie, dimostrate tali, di cui nessuno ha mai chiesto conto. Per un anno e mezzo Pomarici dichiarò di non aver mai saputo dei rapporti prolungati e occultati fra Marino e i carabinieri: poi un giorno, quasi con fastidio, disse di averlo sempre saputo. Quando Marino passava nottate con l'allora colonnello (oggi generale, con un incarico altissimo nei servizi d'informazione) Bonaventura, Pomarici stava conducendo con lui un'indagine su un episodio milanese: inoltre aveva lavorato con lui nel corso degli anni nell'inchiesta Calabresi. Eppure, lui Pm del caso, ebbe l'ardire di sostenere di non aver avuto il minimo sentore del fatto che quel colonnello Bonaventura, che passava i giorni con lui a Milano, passasse le notti con Marino a Sarzana a proposito dell'omicidio Calabresi. A sua volta, Pomarici ritardò inspiegabilmente il momento di investire dell'inchiesta il Gi Lombardi,

che ne era da anni il titolare. Come sia stata condotta quell'istruttoria, nascondendo alla difesa ogni circostanza dell'accusa, rattoppando costantemente, fino alla manipolazione, gli svarioni, le contraddizioni e le smentite di Marino, non si può ridire qui. Voglio solo ricordare una questione recente circa il Gi Antonio Lombardi.

Nel 1993 un ufficiale del Ros dei carabinieri di Trapani consegnò agli atti dell'indagine trapanese sull'assassinio di Mauro Rostagno un rapporto su carta intestata e con tanto di firma. L'ufficiale riferiva di essersi incontrato a Milano col Gi Lombardi, che gli aveva detto che Rostagno era stato assassinato in connessione col processo Calabresi, per impedirgli di denunciare, come era intenzionato a fare, i suoi compagni di un tempo. Queste e altre infamie simili - non solo infami, ma ridicolizzate da ogni genere di prova, a cominciare dalla voce stessa di Mauro che parlava del nostro arresto e di me nella sua televisione - giacquero, coperte dal segreto, fra le carte dell'inchiesta trapanese, finché potei leggerle nel luglio del 1996, e denunciare quel documento calunnioso e scandaloso. Il Gi Lombardi smentì con veemenza, a mezzo agenzia, di aver mai detto quelle cose: non mi risulta che abbia denunciato l'ufficiale, autore di un così smaccato falso. Io denunciai ambedue, e aspetto ancora di ricevere la minima notizia sull'itinerario della mia denuncia. Non c'è male, no?

Ogni volta che cose particolarmente insopportabili sono successe nel corso dei nostri processi - alla rinfusa: la descrizione della via di fuga dall'attentato madornalmente sbagliata da Marino, e lodata per iscritto per la sua "esattezza" da Pomarici e poi da Lombardi; la accidentale (accidentale sul serio, Dario) rivelazione dei rapporti occultati fra Marino e i carabinieri; la distruzione sistematica dei corpi di reato, dopo il nostro arresto e incriminazione; la stesura di una sentenza "suicida" per rovesciare un verdetto di assoluzione; il pregiudizio dimostrato di un presidente di corte di assise d'appello, e così via - ogni volta, non una voce della procura milanese si è alzata a criticare, o anche solo a manifestare dubbio o rammarico. Al contrario, molte voci, a partire dalla più autorevole, quella di Borrelli, si sono alzate a sostenere l'accusa contro di noi, durante e dopo i processi, a criticare la sentenza di annullamento pronunciata dalle Sezioni unite della Cassazione (cosa che D'Ambrosio ha appena rifatto, sui giornali, addebitandole di essere entrata "nel merito"), a criticare la sentenza di assoluzione del secondo processo di appello, e così via. Ripeterò, non avendo mai avuto il minimo cenno di ricevuta, un esempio clamoroso, che non poteva non interessare i pareri altrimenti così pronti dei magistrati della procura. I due giudici togati del nostro primo processo si chiamano Manlio Minale, che presiedeva la Corte di Appello (come ti è stato appena ricordato) e Galileo Proietto, giudice a latere. Ebbene, Minale era al suo ultimo processo da giudice, essendo già stato designato, prima dell'apertura stessa del dibattimento, procuratore aggiunto, dunque collega, subalterno di Borrelli, e superiore in grado di Pomarici, dei magistrati di quella procura che con tanto impegno e spirito di "squadra", aveva sostenuto l'accusa in istruttoria, e l'avrebbe sostenuta in dibattimento. Tu hai notato forse come in tutti questi anni io abbia cercato di tenere un equilibrio, di non farmi risucchiare dentro schieramenti costituiti, di non prendere posizione su questioni generali (comprese le più spinose, come l'uso e l'abuso dei "pentiti") attraverso il filtro esclusivo della mia personale vicissitudine. Questo valeva dunque anche per un tema come la separazione delle carriere fra magistrati dell'accusa e del giudizio, sul quale conservo un preoccupato dubbio. Esemplificando i paradossi cui può portare la carriera unica, si è spesso evocata la possibilità che un magistrato finisca col giudicar

e gli stessi imputati di cui è stato lui, da Pm, a costruire l'accusa. Bene: nel mio caso si è compiuto il paradosso opposto, col giudice chiamato a sconfessare l'operato, particolarmente esposto e discusso, dei suoi colleghi in pectore. Per completezza di paradosso, aggiungo che anche il giudice a latere, ed estensore della motivazione della sentenza, Proietto, è passato alla procura. Ho invano aspettato che qualcuno, Borrelli, D'Ambrosio, Spataro, un altro a piacere, dicessero una parola sulla singolarità del caso. Tanto più che si trattava di un processo, non dirò importante (tutti i processi, avendo in palio il diritto e il destino delle persone, dovrebbero essere importanti) ma costellato di delicati colpi di scena, come la ricordata accidentale scoperta della convivenza notturna taciuta e negata fra Marino e i carabinieri, venuta fuori per l'ingenuità di un curato di paese, e trattata con ineffabili riguardi dalla procura (Pomarici che dichiarava di aver telefonato a Borrelli per avvertirlo della venuta dei carabinieri a testimoniare) e dal Presidente, che pure era stato il primo menato per il naso dall'originaria versione sul pentimento spontaneo e repentino. E visto che ci siamo, e che D'Ambrosio ti ha invitato a portare elementi nuovi per la revisione del nostro processo, se ne hai (chissà perché tu, a volte l'ironia di certe battute mi sfugge; siamo noi a cercare di farlo, com'è noto) terrei a chiedergli se abbia mai pensato, nei ventidue anni che ci separano dalla sentenza del 1975 sul "malore attivo" di Pinelli, alla revisione, o alla riapertura, di quel processo. E' ancora oggi contento, o rassegnato, Gerardo D'Ambrosio, a quel Pinelli che si piroetta oltre la ringhiera per il malore attivo, o si chiede ogni tanto come sia andata davvero? Non sto barattando il processo Pinelli con quello Calabresi (non l'ho mai fatto, l'hanno fatto i miei nemici, pretendendo di fare della nostra condanna la condizione per la "riabilitazione" del commissario), né facendo una battuta politica o un commento morale: la mia è un'osservazione, per così dire, strettamente tecnica o giudiziaria. Calabresi fu ucciso, ma ci sono parecchie persone che si trovavano nella stanza da cui un interrogato fermato illegalmente e innocente uscì a capofitto dalla finestra, e nessuna di quelle persone, che allora mentirono tutte - come il dottor D'Ambrosio appurò - ha più aperto bocca.

Io sono in galera - ma non commiserarmi troppo: ne abbiamo viste di peggio - secondo i procuratori e alcuni giudici, perché Lotta continua aveva una specie di struttura illegale che "non può non essere stata", come dice Marino, l'autrice dell'omicidio Calabresi, di cui io "non posso non essere stato" a conoscenza. Oppure: sono in galera perché il 13 maggio del 1972 alla fine di un mio comizio Pietrostefani e io avvicinammo Marino per comunicargli un mandato a uccidere, però Pietrostefani non c'era; perché alla fine del comizio andai con Brogi e Marini in un bar e di lì uscii in strada per dare a Marino un mandato a uccidere, ma Brogi e Marino erano uno a Genova e l'altro a casa, e nessuno andò al bar, e la gente si sparpagliò perché pioveva forte, ma Marino si è dimenticato che piovesse; ricevuto il mandato a uccidere, Marino mi salutò e tornò a Torino, però invece si fermò a Pisa e anzi la sera tardi venne con tanti altri a casa mia. E così via. Sono in galera per questo, e così i miei amici. Sono in galera anche perché dopo che Pomarici, Lombardi e una quantità di altri hanno tuonato che io, potente e amico di potenti (caro Dario, amico mio), non sarei mai stato toccato, mentre il solo povero Marino avrebbe pagato per tutti. Con un piccolo cambio di ausiliare - aver pagato, essere pagato - è andata proprio così, e Marino, intervistato, ci concede benignamente la grazia. Carnevali, mondi a testa in giù: ma che aspettiamo a battergli le mani. Non ho alzato la voce verso quel disgraziato di Marino, in questi anni, né avrei parlato all'ingrosso della procura di Milano se tu, nel tuo modo travolgente, non avessi fatto venire giù il loggione. E' vero, l'ultima sentenza milanese si imperniò sul fatto che il pentimento (no: la crisi "mistica") di Marino sono autentici perché da ragazzo era passato dai Salesiani. Bestemmia che mi dispiace tanto più, perché ho simpatia e stima per molti Salesiani. Non mi auguro affatto che tu - né altri - modifichi la tua stima per la magistratura milanese per solidarietà con me. Mi dispiacerebbe perfino. Vorrei che, tenendosi al mio processo, di ogni cosa detta a carico o a difesa, si verificasse, per quanto è possibile (molto!) la fondatezza e la lealtà.

Il 17 maggio 1972 Luigi Calabresi fu assassinato. Gli attentatori arrivarono e e fuggirono a bordo di una 125 blu rubata. Tutti i testimoni in grado di distinguere riferirono che alla guida c'era una donna. Nell'auto abbandonata, furono ritrovati sul cruscotto, al posto di guida, degli occhiali neri da donna che i proprietari dell'auto non avevano mai visto. Quando venne sospettato il neofascista Nardi, fu arrestata una giovane donna tedesca, Gudrun Kiess, accusata di essere stata la guidatrice dell'auto. La Kiess restò in carcere a lungo, benché non avesse mai preso la patente. Nel luglio del 1988 gli inquirenti dichiararono che la donna al volante dell'auto dell'attentato era Leonardo Marino.

Anch'io non ho mai preso la patente. Sono qui che cammino avanti e indietro e mi fanno male i piedi. La lampadina è un micidiale doppio tubo al neon e non riesce a somigliare alla luna. Grazie, ciao.

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