Sette - 17.07.97
In nome della legge - Fatti e misfatti della Gozzini
Chi ha paura del detenuto part-time
E' vero, ci sono quelli che approfittano dei permessi per rapinare o fuggire. I parenti delle vittime quasi sempre si sentono doppiamente colpiti. Eppure la semilibertà, a conti fatti, funziona. Perché...
di Davide Perilio
Aveva il passamontagna. Nero, di lana pesante, due tagli per gli occhi e un buco più largo per respirare. Ma quando i poliziottì l'hanno bloccato, dopo l'inseguimento e gli spari per strada, la maschera è scivolata via di colpo. E sotto è spuntata una faccia conosciuta. La faccia di uno che non doveva essere li. Mario Selis, 38 anni, sardo di Oristano, condannato a 30 anni per duplice omicidio e sequestro di persona, detenuto alle Vallette di Torino. E rapinatore. Aveva appena svaligiato un supermercato. Come? In semilibertà. Come può fare uno che esce dal carcere ogni mattina alle otto per andare a lavorare e ci torna alle dieci di sera, prima che il cancello si chiuda. La stessa routine di un altro detenuto, molto più famoso, tornato nei guai appena tre settimane prima: Lorenzo Bozano, l'ex «biondino della spider rossa» condannato per l'omicidio della tredicenne Milena Sutter (1971), da 18 anní ergastolano a Porto Azzurro, da 5 in semiìíbertà. Anche lui usciva ogni gíorno di galera, per andare a lavorare nel suo allevamento di polli. Anche lui ci è tornato dì corsa, quando un'altra ragazzina lo ha accusato dì averla fermata in un parco di Livorno per molestarla.
Due casi in venti giorni. Clamorosi. Pesanti. Di quelli che riaprono polemiche e ferite. Soprattutto se si sommano all'annuncio che anche Ali Agcà, l'uomo che voleva uccidere il Papa, a ottobre potrebbe tornare semilibero. E se si legano al ricordo di altri episodi, passati e mai sbiaditi. La fuga di Maied Al Molqui, capo del commando che nell'85 sequestrò l'Achille Lauro, scappato da Rebibbia un anno fa durante un permesso. La tragedia di Alceo Bartalucci, ìl pentito della mafía del Brenta, due anni appena di carcere e tre fughe durante la protezione, l'ultima delle quali finita con una sparatoria e la morte di un carabiniere. Oppure,ancora, la tragicommedia andata in scena nel 1995 a Volterra, dove tre attori detenuti della «Compagnia della fortezza» approfittarono di una tournée teatrale (e dei relativi permessi) per rapinare banche. Fatti diversi, certo. Ma che messi uno dietro l'altro fanno impressione. Perché a tenerli insieme c'è un filo doppio: erano tutti criminali (accertati, riconosciuti, gìudìcati), ed erano tutti liberí. Magari solo per qualche ora, ma liberi. Niente sbarre, pochi controlli. «E molte tentazioni», aggiunge don Giovanni Vavassori, 75 anni, da 27 cappellano di Porto Azzurro. Il carcere di Bozano. «Che qui si è sempre comportato bene. Ottimo detenuto. Irreprensibile». Eppure, quando è uscito... «Guardi, su quell'episodio ho molti dubbi. Ma il problema è proprio questo: dentro, stanno bene. Fuori, magari, fanno l'incontro sbagliato». E ci ricascano.
Spesso? Difficile dirlo. Anzi, impossibile: di dati ufficiali sulla recidività dei detenuti semiliberi o in permesso non ne esistono. Al ministero dì Grazia e Giustizia circolano solo altre cifre. li totale dei semiliberi, per esempio 1.769, pari al 3,5 per cento deí 50.176 detenuti italiani (con un picco del 10 per cento a Napoli Secondigliano, il carcere con più ospiti in semilibertà: 158). Un piccolo esercito. Che qualche paura la fa. Non tanto per le defezioni, che pure ci sono (nel 1995, ultimo anno di dati disponibili, tra ammessi al lavoro esterno, semiliberi e in permesso sono evasi in 196), ma per un motivo più sottile: è gente che potreste incontrare per strada anche voi. Proprio come la ragazzina dì Livorno ha incontrato Bozano.
«Vero. Ma il caso Bozano è una patologia, un difetto all'interno di un sistema», sottolinea Aldo Fabozzi, direttore del carcere di Opera (Milano), uno di quelli con più semiliberi (92, il 9 per cento degli ospiti) e attuale resìdenza anche di Marco Redaelli. «E nessun sisterna è perfetto. Quando si parla di benefici ai detenuti bisogna tenere presenti due cose: maì generalizzare, perché ogni storia è un caso a sé, e mai pensare di essere infallibili». Pausa. «Noi li seguiamo, facciamo i colloqui, li osserviamo. Ma alla fine decidere se il tale tende ancora al crimine o no resta un temo al lotto. Il rischio c'è. Sempre».
Eppure, a leggerle sulla carta, la celebre «Gozzini» (anno 1986) e le altre norme sui benefici di garanzie ne danno. Tanto per cominciare, sono piene di filtri. Per arrivare alla semilibertà, per esempio, c'è una lunga trafila dì «se». «Se» la condanna è passata ìn giudicato, «se» si è scontata metà della pena (20 anni per gli ergastolani), «se» i rapporti di psicologi, educatori e cappellani vari sono positivi, «se» il detenuto ha trovato lavoro e «se» i colloqui con i magistrati sono andati bene, allora sí può fare domanda al giudice di sorveglianza. «Che però dovrebbe avere capacità divinatorie», osserva ironico Antonio Maci, presidente del Tribunale di sorveglìanza di Milano. «La nostra è una posizione delicata. Un magistrato, di solito, giudica su fatti accadutì: decide se un crimine c'è stato o no, e se l'imputato l'ha comrnesso o meno. Noi, invece, dobbiamo giudicare una persona. E dìre se è cambiata. Come si fa a essere sicuri al cento per cento?». Risposta ímplicita: impossibile.
E allora? Tutto da rifare? «Ma che, scherza? La Gozzini è una buona legge. La tolga, e avrà delle carceri ingovernabili: sovraffollate e zeppe di gente che non ha più nulla da perdere. Adesso,almeno, chi è dentro spera nei permessi e si comporta bene. No, guardi, il vero problema è un altro». Quale? Maci sospira, sí guarda intorno, indica le píle di faldoni verdi accatastate dappertutto nell'ufficio. Poi dice una parola sola: «Uomini». E spiega che a Milano i giudici di sorveglianza sono soltanto 9, che devono esaminare tremila detenuti (i «definitivi» di mezza Lombardia), che solo nel'96 le dornande di semilibertà sono state più di 400. Conclusione: «Oggi fissiamo processi per l'aprile del 1998. Sa cosa vuoi dire? Che c'è gente che magari avrebbe già il diritto ai beneflcì e che ínvece deve restare dentro ancora un anno». E «dentro» il problema non cambia. Basta guardare i numeri. Porto Azzurro: 400 detenuti, un solo educatore. Vallette: 1.475 detenuti, 8 operatori. Opera: 1.094 ospiti, 5 educatori e 6 psicologi... «Per fare tutto», spiega Fabozzi: «Colloqui, relazioni, trafile burocratiche». Il tempo per seguire i carcerati è troppo poco. E il rischio di sbagliare è alto.
In più, non c'è psicologo che possa curare la vera ferita che si riapre quando un colpevole torna in libertà: il dolore dei parentí delle vittime. Che non a caso è uno dei tormentoni di un'estate in cui si riparla di grazia e di indulti per gli ex terroristi. Molti di loro sono già fuori. Altri fanno avanti e indietro dal carcere (Mario Moretti, vecchio leader Br, entra ed esce da Opera e lavora proprio con Redaelli). Ma per tutti, quando si tratta di decidere se concedere i benefici, la questione è sempre quella: e le famiglie delle vittime? «Quelle, in genere, reclamano condanne eque e certezza della pena», dice Maci. «Hanno ragione: le chiedeva anche Beccaria. Ma la situazione della giustizia, adesso, è più dífficile...». E soluzioni non se ne vedono. Almeno a breve. «Ora si inizia a parlare di automatismi all'americana», spiega Fabozzi. «Per le pene minori, i benefici scattano automaticamente. Chi ci ricasca li perde per sempre. Funzionerebbe? Chissà. Ma almeno smorzerebbe le polemiche. Però, mi creda: il vero nodo è la rieducazione. Recuperare le persone. E per quello servono mezzi, strutture, investimenti.
Lavoro, soprattutto».
Lavoro? Anche Bozano lavorava. Al Moiqui lavorava. Gli attori di Volterra lavoravano... «Ma nessuno di loro faceva un mestiere vero», osserva Alberto Garocchio, fondatore della Spes, l'azienda che occupa Redaelli, Moretti e altri 300 detenuti: «Il lavoro in carcere deve essere vero. Fatto in un'azienda che sta sul mercato e che insegna qualcosa. E invece i detenuti che lavorano così sono troppo pochi: 1.500, forse duemila, non di più». Altro che rieducazione, insomma. «Ma no, la filosofia di fondo resta valida», aggiunge Maci: «Lo è anche se riesci a ricuperarne uno su mille».
E qui il cerchio si chiude. Perché, caso per caso, ci sarà sempre un margine di dubbio. E per ogni giudice che parla di riabilitazione spunterà qualcuno, fuori, a opporsi, in nome di un passato che non può essere cambiato. Come insegna la storia di Doretta Graneris, la ragazza che nel novembre 1975, assieme al fidanzate Guido Badini, uccise per soldi padre, madre, nonni e fratellino dodicenne. Dal'93 è fuori: lavora per il gruppo Abele di don Luigi Ciotti. Ma chi prova a chiedere di lei in giro per Vercelli, la città del delitto, trova ancora un muro fatto di «dovrebbe sparire» e «non voglio vederla». Lo stesso clima che ha circondato a lungo Paolo Pan, ex amante della «dama bionda» Franca Ballerini e autore di uno dei delitti più famosi del dopoguerra: quello di Fulvio Magliacani, marito della Ballerini, assassinato nel 1972. Pan fu arrestato, processato, condannato all'ergastolo. E graziato nel '95, dopo una carriera da detenuto modello. Ora fa lo scenografo per Cinecittà. «Ed è cambiato molto», giura il suo avvocato, Antonio Foti. «La sofferenza educa. E poi, vent'anni di carcere mi sembrano un prezzo equo, no?». Per la verità Gilberto Magliacani, quando seppe che l'assassino del fratello era fuori, la prese male: «Ha amrnazzato ed è libero. In mezzo a noi. Con gli stessi diritti di tutti noi. Non lo perdonerò mai». «Ma il problema non è il perdono», ribatte Foti: «La questione è: lo rifarebbe'? E' ancora pericoloso? Che rischio si corre a liberarlo? E a queste domande deve rispondere lo Stato, non i parenti delle vittime»,
Giusto. Ma provateci voi a spiegarlo al signor Vito Laricchiuta da Buscate (Milano). Era un giorno d'estate dell'82 quando suo figlio Tomas, 8 anni, fu ucciso da Pasquale Pastore, un bulletto che voleva rubargli il portafoglio. Pastore adesso non è né in permesso né semilibero. E' libero. Ed è tornato a casa. Dove'? Buscate, ovviamente. A due passi dai Laricchiuta e da una tomba. Quella del piccolo Tomas.