Il Manifesto - 05.04.98

WB01343_.gif (599 bytes)


Tutti insieme, ma da soli. Ore 14. 
Il corteo si muove verso lo scontro che non c'è
- ORSOLA CASAGRANDE PIERLUIGI SULLO - TORINO 
Il pomeriggio torinese, pochi minuti prima delle due, ora fissata per il
corteo dei centri sociali, è deserto. Negozi chiusi, pochi tram, cielo
scuro che si aprirà solo più tardi, e il mercato di Porta Palazzo che
smonta se stesso, bancarella dopo bancarella. Si vedono soltanto i soliti
gruppi di magrebini, che a quell'ora di sabato si danno appuntamento da
quelle parti. Là per là non si trova nemmeno, il luogo dell'appuntamento;
si deve arrivare fino al Ponte sulla Dora, dov'è la parte più marginale del
mercato delle pulci, il Balon. E' il luogo appropriato, quello dei
marginali che vendono oggetti molto usati e giudicati ormai inutili.
Ci si raduna in disordine, non si capisce chi sta davanti e chi seguirà,
non ci sono ancora gli striscioni. E' un popolo di ragazzi, molto difficile
distinguere quelli da centro sociale e quelli che si autodefiniscono
"squatter", o studenti o giovani in genere. In fondo, è un esercizio
inutile, quasi subito si vedrà che il corteo è grosso, è fitto, saranno
diecimila, e anche contando quelli che sono venuti da fuori si capisce che
sono numeri inconsueti, per i centri sociali di Torino. Evidentemente, la
sensazione di solitudine che la marcia nel deserto dei grandi viali
trasmette non è del tutto vera: tra i meno che trentenni, evidentemente, la
morte di Edoardo Massari, suicida in carcere, ha smosso qualcosa.
Ma è difficile, dire. In fondo, queste migliaia sono - tutti insieme -
soli. Accompagnati da qualche decina di persone di sinistra che reggono uno
striscioncino bianco con sopra scritto: "Insieme contro l'esclusione"; tra
loro un paio di consiglieri comunali e un assessore di Rifondazione. E'
evidente che quel che avrebbe potuto scattare -il bisogno del dialogo, come
è stato chiamato, o la consapevolezza che, appunto, la loro esclusione è
terribilmente simile a quella di tutti - alla fine non è scattato.
Forse le botte ai giornalisti, chissà, e le minacce ripetute ancora ieri da
radio Black out, "niente giornalisti", così che vedevi i colleghi
passeggiare con aria distratta. Forse hanno pesato anche i diciassette
blindati dei carabinieri che - lì, al ponte sulla Dora -si mostrano
evidentemente pronti, tonnellate di acciaio bene allineate, anche se poi si
vedrà che nessuno, né i manifestanti né la polizia, hanno l'intenzione, o
perfino la voglia, di fare a botte.
Tanto che, quando arriva lo striscione del Leoncavallo, con dietro molte
centinaia, e un reparto di carabinieri si mette in posa, facce mascherate e
moschetti impugnati per la canna, e Marco Revelli mostra il suo tesserino
da consigliere comunale per dire "ma insomma, non è il caso", un ufficiale
della polizia subito lo tranquillizza e ordina ai carabinieri di togliersi
di lì, e di stare calmi. Così come, qualche centinaio di metri più avanti,
a Porta Palazzo, quando la polizia accenna una breve carica in risposta a
un petardo un po' troppo grosso, da una parte e dall'altra ci si sforza di
spegnere la fiammella e i bersagli in divisa azzurra vengono colpiti solo
da insulti e slogan.
Corteo diviso in due
Perciò ci si avvia, corteo nero e un po' triste, che nella prima metà mima
la guerra, tira sassi e rompe qualche vetro, scrive sui muri, e però man
mano, verso la coda, si scioglie grazie anche a una banda di ottoni in un
clima un poco più disteso, come se tra i primi e gli ultimi dei diecimila
corressero decenni, diciamo dal '77 fino ai giorni nostri. Resta, sospesa,
la parola che apre il tutto, "Assassini", una parola che non si articola in
discorso e che, soprattutto, non ottiene risposta da una città - e da una
sinistra - che è distratta, o è altrove, forse in gita dopo aver proposto
un "dialogo". Ha risposto invece all'appello dei centri sociali e delle
case occupate di Torino una parte della città "giovane" che normalmente nei
centri sociali non ci va. Erano studenti delle superiori e universitari ma
c'era anche qualche cittadino straniero che ha aderito soprattutto per
gridare che anche gli stranieri in carcere ci muoiono. Nel silenzio e
nell'indifferenza.
Il percorso del corteo viene modificato più volte. Fin dall'inizio. I
manifestanti avevano chiesto di poter attraversare Porta Palazzo. In un
primo tempo la questura aveva risposto picche. Ma il corteo è partito verso
corso Giulio Cesare e non verso via Cigna. Al mercato, affollato come
sempre, sono stati parecchi quelli che si sono aggregati al lungo corteo.
Le parole d'ordine erano le stesse, dalla testa alla coda della
manifestazione, pur nelle differenze. Ma di queste differenze i centri
sociali hanno sempre parlato e continueranno a parlare. "Libertà per
Soledad e Silvano", gridavano i torinesi ma anche quelli venuti un po' da
tutta Italia. E per tutti il discorso da fare è quello sul carcere.
Le case occupate
Il corteo è aperto dai centri sociali e dalle case occupate torinesi. Poi
ci sono i centri sociali delle Marche, il Leoncavallo, i centri romani, la
Federazione anarchica torinese, la cooperativa "Senza Frontiere", e poi
ancora i veneti, i bresciani, il gruppo arrivato da Genova. Un corteo
composito ma omogeneo. A dimostrazione del fatto che l'appello è stato
raccolto, anche se solo dall'esterno. Ma forse non è un caso. La città,
fatta eccezione per il mercato di Porta Palazzo, è deserta. E' sabato
pomeriggio, ma negozi e bar hanno le saracinesche abbassate. I giornali che
anche ieri minacciavano "il giorno della paura" hanno trovato i consensi
dei negozianti.
E così in una atmosfera quasi surreale il corteo si è mosso fino alla
stazione di Porta Susa e poi verso il nuovo carcere e il nuovo palazzo di
giustizia. Davanti al carcere scoppiano numerosi i petardi e i fumogeni
colorati. Slogan e musica. La banda di fiati continua la sua performance
stile "Underground" di Kusturica. Niente tensioni. La polizia è immobile.
Del resto i centri sociali torinesi l'avevano detto: "Non si accetteranno
provocazioni". La rabbia si libera anche davanti al nuovo palazzo di
giustizia, la "cittadella" costata miliardi e ancora vuota, nonostante sia
finita da tempo. I vetri cominciano ad andare in frantumi. Uno, due, dieci.
Dai microfoni di radio Black out, che ha trasmesso in diretta l'intera
manifestazione, uno dei conduttori fissa questo andare in frantumi dei
vetri, mentre il corteo continua a passare lentamente, ordinato: "La rabbia
si sta sprigionando in una maniera tranquillissima e splendida".  Si gira
tutto intorno al palazzo di giustizia e si ritorna su corso Inghilterra,
che continua ad essere deserto. Qualche indicazione per i centri sociali
che devono ripartire con i treni e poi il corteo si scioglie. La gente se
ne va a gruppetti. In piazza Statuto e davanti alla stazione porta Susa
rimangono solo decine di poliziotti in borghese caschi in mano.  La
sensazione è che la manifestazione di ieri abbia lanciato un messaggio,
anche se a raccoglierlo non c'era chi aveva chiesto di poter avviare un
dialogo. 
WB01343_.gif (599 bytes)