La Repubblica - 05.04.98

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PER RESTARE SCONOSCIUTI
di MICHELE SERRA
IL MURATORE immigrato Agostino Biundo e la sua
famiglia non ce l'hanno fatta. Dovevano vivere per un mese,
a pagamento, dietro la vetrina di un supermercato svizzero,
come un consiglio per gli acquisti vivente. Ma dopo tre
giorni sono scappati. Troppi occhi addosso. E troppo
tenace, nelle loro fibre come in quelle di chiunque, la
molecola del pudore, il sentimento dell'"io sono mio". Penso
che carne e ossa ostentate da alcuni squatter ai giornalisti
volessero alludere alla vita in carne e ossa, alla sua
indicibilità dentro il linguaggio medio dei media. Penso che
alludessero, dunque, anche a Biundo e ai suoi poveri
co-performers in fuga, che niente sanno degli squatter ma
tutto hanno dovuto imparare sulla cecità implacabile dello
sguardo pubblico. 
CAPISCO la premura non sempre ipocrita, non sempre
interessata degli intellettuali e dei politici che "vogliono
capire". Capisco i problemi di polizia. Ma credo che ciò che
brucia (in tutti i sensi) a Torino e altrove, è soprattutto la
grande tela della comunicazione che tutti ci avvolge e
rappresenta, e non sa rassegnarsi a lasciare indefinite zone
anche minuscole, perché ogni piccola smagliatura può
significare l'inizio di una lacerazione. In che cosa confidiamo,
del resto, più o meno tutti, per "capire il mondo", se non
principalmente nella rete dell'informazione e della
comunicazione, che ci fa sentire connessi gli uni agli altri e
allevia l'agonia di ogni spirito di comunità con l'illusione di
una contattabilità universale? Come possiamo sopportare di
essere in contatto diretto con Melbourne e con Chicago e
trovare spezzati proprio i fili che ci collegano ai nostri
quartieri urbani? Che cosa ci fa così paura negli squatter
(pochi e sparuti gruppi, niente a che vedere, come
pericolosità patente e latente, rispetto agli ultrà del calcio),
se non lo sgomento di scoprire che qualcuno, quando si fa
l'appello generale, non corrisponde ad alcuno dei nomi in
elenco?
Questo, non altro vogliono gli squatter: restare sconosciuti.
Oppure - se volete - essere riconosciuti soltanto come
coloro che non riusciremo mai a conoscere. "Della politica
me ne frego. Se tutti diventassero anarchici - ha detto una
ragazza a uno dei pochi cronisti che è riuscito a raccogliere
parole e non lividi - noi diventeremmo subito antianarchici".
Più chiaro di così. Si procede per negazioni, per fughe, per
attacchi che tendono a distruggere qualunque embrione di
una possibile identificazione. Infantilmente, se volete, ma con
una determinazione implacabile. L'ansia di classificazione dei
media risulta, a loro, altrettanto odiosa quanto una
schedatura di polizia. 
Quasi vent'anni fa ero a una conferenza stampa dove si
presentavano i risultati di una ricerca della Provincia di
Milano sulle bande giovanili. Era una ricerca seria,
politicamente correttissima. Ma vennero i punk, si
tagliuzzarono con le lamette e sanguinarono sulle carte che li
catalogavano con tanta accuratezza e comprensione. Non
c'era ancora l'Aids, ma il sangue incuteva ugualmente un
oscuro panico. Aveva un'evidenza dolorosa, animale, molto
poco intellettuale, e se nessuno dei presenti poté rallegrarsi
del gesto (e delle conseguenti spese di tintoria), tutti ne
cogliemmo la drammatica eloquenza. 
La performance degli squatter che trasformano una
conferenza stampa in un bancone di macelleria è
perfettamente conseguente a quella ormai antica irruzione.
La politica, terreno oramai supersfruttato, arato e riarato
fino a inaridirsi, largamente svuotato di senso, è stato (da
tempo) sostituito, in certe latitudini dell'insofferenza
giovanile, da una specie di espressionismo greve,
artistizzante, che serve meglio a manifestare rifiuto,
cortocircuito, e autoesclusione come disperata (ma a volte,
per fortuna, ironica) appropriazione dell'esclusione sociale. 
Ci riguarda? In quanto cittadini, ci riguarda esattamente
quanto le altre innumerevoli manifestazioni di malessere e di
violenza. Ma in quanto comunicatori, compratori e venditori
di linguaggio, ci riguarda come una potente - ancorché
estrema - patologia di qualcosa che è anche nostro,
dannatamente anche nostro. Così come ci affascina (e
magari ci irrita) lo scrittore, il regista o il cantante famoso
che taglia i ponti con i media e sceglie di essere solo ciò che
egli stesso rappresenta di sé, allo stesso modo dovrebbe
farci riflettere il punk che non vuole farsi fotografare o lo
squatter che odia i giornalisti. 
Non è affatto vero, dunque, che "non vogliono parlare".
Non vogliono parlare attraverso di noi. Hanno urgenza di
parlare in proprio. E solo dopo, forse accetteranno di
parlare con gli altri.
Chi non abbia mai avvertito, l eggendo i giornali e/o
guardando la televisione, il fastidio o il presagio di una
sterilizzazione dei linguaggi, di un appiattimento feroce e
devastante delle opinioni, di una stretta mortificante degli stili
di vita, dei sentimenti trasformati in riflessi condizionati, può
tranquillamente liquidare la furiosa diserzione degli squatter
come un trascurabile e odioso incidente sociale. Chi
sospetta, invece, che le maglie della rete dell'informazione
possano anche strozzarci tutti, o più blandamente
avvilupparci come merluzzi; e chi constata che nessun
potere, oggi, è più ramificato e onnipresente di quello della
comunicazione, non può non farsi almeno qualche domanda
su questa strana rivolta degli indefinibili.
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