La fisionomia del Sistema Scolastico Italiano non ha giustificazioni a se stanti, ma è strettamente legata al modo di produzione capitalistico così come esso come esso si esprime nelle sue diverse fasi di sviluppo. Ciò che dunque ci proponiamo di dimostrare in questo documento è il nesso che collega le trasformazioni del sistema formativo nel suo complesso alle profonde trasformazioni del sistema produttivo italiano e a quelle, conseguenti, che attengono alla riorganizzazione della divisione sociale del lavoro, mantenendo un costante riferimento ai diversi ruoli assunti dallo stato dal compimento della sua unità fino al suo ingresso nell'Europa di Maastricht.
L'organizzazione della scuola di Stato nasce, nell'Italia dell'Unità, gerarchica, rigida ed autoritaria (V. legge Casati 1859). Accentuata è la sua impostazione dualistica, divisa cioè in due ordini incomunicabili tra loro: il classico destinato a formare i ceti sociali superiori che sarebbero divenuti l'anima e il corpo della organizzazione complessiva dello Stato; il tecnico che avrebbe fornito la "formazione professionale" destinata ai settori sociali subalterni e finalizzata alla loro riproduzione.
Risulta chiara fin dall'inizio la funzione ideologica e formativa della scuola, la quale non deve privilegiare la formazione della persona in quanto tale, ma della persona in quanto futuro lavoratore. In tale contesto, essa ha non tanto il fine di "qualificare" fornendo allo/a studente le informazioni tecniche adeguate allo svolgimento dei lavori, bensì a "formare instillando valori borghesi nei bambini e nei giovani proletari-lavoratori obbedienti, pazienti, amanti del lavoro e dell'ordine costituito" (Lopes-Visin: "La scuola eccellente", p.10). In questa prospettiva va inquadrata la legge Coppino che, nel 1877, innalza l'obbligo di frequenza delle elementari a tre anni. Ma le contraddizioni non tardano a manifestarsi: infatti durante l'età giolittiana, fase in cui si assiste al decollo industriale italiano (in netto ritardo rispetto agli altri paesi europei) e al realizzarsi dei grandi Trust dell'industria siderurgica, meccanica ed elettrica, le classi sociali subalterne tendono ad usare l'istruzione come canale di mobilità sociale ascendente rompendo in continuazione l'equilibrio formazione-mercato del lavoro. E' sempre in questa fase che Giolitti, posto di fronte alla forza delle lotte sociali e del frequente uso dello sciopero generale come arma di contestazione, comincia a tratteggiare il nuovo ruolo di mediazione sociale dello Stato (tendenza peraltro già intrapresa dagli altri paesi liberali avanzati), consapevole di un ormai necessario confronto politico tra la borghesia produttrice, il P.S.I. e i sindacati. E' dunque così che si assiste ad importanti innovazioni: estensione dell'obbligo scolastico al 12° anno di età, incentivi per la scolarizzazione di massa nelle campagne, avocazione allo stato delle scuole elementari, istituzione del "Patronato Scolastico" quale ente di diritto pubblico.
Con l'avvento del fascismo appare ovvia l'inversione di tendenza circa le soluzioni da adottare per risolvere le contraddizioni cui abbiamo accennato: con la riforma Gentile viene ulteriormente accentuato il carattere dualista della scuola, aumentando il numero delle cosiddette scuole di scarico, cioè senza sbocco, "che chiudono alle classi subalterne ogni possibile canale di promozione e mobilità sociale ascendente" (Lopes-Visin Cit. p.11). Inoltre la citata riforma istituzionalizza la divisione del monopolio dell'istruzione e dell'educazione tra Stato Italiano e Chiesa Cattolica: è così che la scuola riprende con forza il ruolo di strumento di controllo sociale ideologico-politico, sottoposta, essa stessa, al controllo dello Stato affinchè il rapporto formazione-mercato del lavoro non possa tornare in situazione di grave squilibrio, ed accentuandone, di conseguenza, il carattere selettivo e classista. Il modello di organizzazione a cui si ispira la scuola fascista è quello militaresco della caserma.
Nell'immediato dopoguerra il compito della "ricostruzione" viene affidato ai liberisti e all'iniziativa privata. La Costituzione, entrata in vigore il 1° gennaio 1948, sancisce, accanto al principio lavorista come principio fondamentale su cui si fonda la Repubblica Democratica Italiana, il diritto per tutti/e all'istruzione, diritto che però già poggia su principi di meritocrazia in base ai quali solo coloro che possono essere qualificati "capaci e meritevoli", "anche se privi di mezzi, hanno il diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi" (Art. 34 Costituzione, comma 3°).
Il coniugarsi del principio del lavoro "produttivo", come componente fondamentale della struttura della società riconosciuto dagli Art. 1, 2, 3 della Costituzione, con quello del diritto allo studio per tutti/e (Art. 34 Costituzione: la sciola è aperta a tutti) pone le basi per la successiva evoluzione dell'istituzione scolastica ed universitaria: durante gli anni '50 vi sarà infatti una forte ripresa dell'economia italiana, diventando le industrie già affermate sul piano nazionale, competitive su quello internazionale. Si assiste, in questi anni, ad un forte aumento della produttività, accompagnato da un'aspra politica di contenimento dei salari e da un mancato incremento occupazionale. Tutto ciò va, poi, integrato nel quadro del nuovo ambito europeo, che va delineandosi in quegli anni: infatti nel '58 entra in vigore il Mercato Comune Europeo (MEC), che prevedeva l'abbassamento delle tariffe doganali, da attuarsi progressivamente fino alla libera circolazione delle merci, l'adozione di una tariffa comune verso i paesi esterni, la libera circolazione della forza-lavoro e dei capitali. All'interno di quest'ambito l'Italia aveva il compito di esportare, oltre a prodotti industriali, anche e soprattutto capitali e forza-lavoro.
In questa fase, caratterizzata dal rilancio dell'economia italiana (il cosiddetto "boom") si assiste ad una forte ripresa dell'iniziativa operaia (tra gli anni '60-'63) contro il regime dei bassi salari e di alta produttività, che arriva ad ottenere anche qualche aumento salariale. Nel contempo i figli e le figlie dell'"operaio massa" si iscrivono sempre più numerosi/e nelle scuole e nelle università, vedendo in queste l'unico canale possibile di promozione sociale, e cercando di sfuggire, con una qualificazione soprattutto tecnica, alle crescenti difficoltà occupazionali.
Nel 1962 viene istituita la Scuola Media Unica, che attacca per la prima volta il dualismo classista che caratterizza l'intero ciclo formativo italiano: non si dimentichi che prima della riforma in questione la scuola media era vista come avviamento al lavoro o ad uno studio tecnico per i membri delle classi subalterne, come inizio dell'iter che arriva fino all'università per gli altri. Questo passaggio è il risultato, da una parte, della tendenza di una maggiore richiesta di possibilità di istruzione da parte delle classi subalterne, dall'altra delle esigenze dello sviluppo economico e dei processi produttivi e sociali, che impongono di adattare la scuola media inferiore alla funzione socializzatrice in forme nuove delle masse lavoratrici.
Così anche la avvenuta liberalizzazione degli accessi all'università, con legge del 1969, non è altro che la conseguenza di una tendenza già precedentemente in atto: quella che vede l'emergere della scolarizzazione di massa.
D'altra parte, durante gli anni '60, al capitale nostrano si poneva il problema di garantirsi il controllo di un'estesa massa proletaria giovanile che altrimenti non avrebbe trovato altra collocazione, a causa del forte squilibrio tra forza lavoro disoccupata e mercato del lavoro incapace di offrire occupazione. E' in quegli anni che scuole ed università vengono teorizzate come "aree di parcheggio": dunque in quegli anni esse non si assumevano solo il tradizionale compito di controllo sociale ideologico-politico, bensì anche quello di contenitori della crescente disoccupazione giovanile.
Ma, nel momento stesso in cui scuola ed università diventano di massa, esse vengono fortemente dequalificate poiché la cultura, una volta disponibile a tutti/e, non si configura più come campo di dominio e strumento di potere di una ristretta élite.
Se nelle mansioni dell'operaio massa, cioè della figura sociale centrale del conflitto capitale-lavoro che si dispiega in quegli anni, sono già in sé fortemente limitate, ridotta è la possibilità di comprensione dell'organizzazione della forza-lavoro di fabbrica nel suo complesso, le cose non migliorano con la modificazione - indotta nella produzione - da processi di automazione che si verificano negli anni '70. Di più, una manodopera sempre più dequalificata si trova a fare i conti con una situazione nuova, tale da pregiudicare garanzie legate a quella "rigidità operaia" che le innovazioni citate mettono in discussione. E' proprio grazie a questo processo tecnologico e all'ingente spostamento dei capitali finanziari italiani, tendenti ad investire maggiormente in quei paesi dove la forza lavoro ha un costo quasi nullo, che vengono poste le basi per una inversione di tendenza rispetto alle politiche economico-sociali fino ad allora adottate.
Ed infatti durante gli anni '70 si assiste ai primi cenni di un attacco progressivo, esercitato dallo Stato, nei riguardi dei settori sociali subalterni, che mira a scomporre il soggetto proletario, attraverso la privazione delle garanzie sociali e della gratuità dei servizi, nonché attraverso l'innalzamento del costo della vita e l'attacco ai salari, scala mobile e pensioni, ed infine, ma non da ultimo, attraverso una nuova organizzazione del lavoro, non più ispirata ai ritmi e agli spazi della fabbrica Taylorista-fordista (sulla quale poggiava l'esistenza del welfare), bensì a principi quali quelli della flessibilità e della precarietà. E lo stesso attacco subisce il soggetto studentesco proletario a partire dai mal riusciti tentativi di superamento della liberalizzazione degli accessi alle facoltà universitarie portati avanti dall'allora Ministro Malfatti, sino a quelli, sicuramente più riusciti, del relativamente recente Ministro Ruberti, che attraverso il riconoscimento del principio dell'autonomia finanziaria e didattica ha aperto la strada alle attuali riforme del Ministro Berlinguer.
Oggi il sistema formativo si pone ancora nell'ottica di produrre soggettività normata e subordinata al rapporto salariale. Ciò si traduce, nell'era della precarizzazione, in una educazione alla disponibilità a vendere la propria forza lavoro a tempo determinato e per poche lire, al di là di ogni tutela sociale e nella previsione di lunghi periodi di disoccupazione magari "alleviati" da miseri assegni statali e da qualche corso di formazione.
Comunque, avviandoci alla conclusione, possiamo affermare che le linee di tendenza della riforma scolastica ed universitaria sono solo appena abbozzate: infatti tutto dipende dal ruolo che all'Italia verrà assegnato nell'ambito dell'Europa di Maastricht nei prossimi mesi. Né ancora molto è possibile dire riguardo al nesso formazione/mercato del lavoro, proprio in virtù del fatto che il secondo non è ancora giunto a definirsi complessivamente. In questo senso va evidenziato un fatto: il patto per il lavoro, con la reintroduzione delle gabbie salariali nelle aree di crisi e le agevolazioni alle imprese che investono nel mezzogiorno, e il pacchetto Treu non possono essere considerati ancora come riarticolazione totale del mercato del lavoro stesso. Se in questi provvedimenti sono ravvisabili alcune delle linee direttrici della regolamentazione dei rapporti di lavoro, la loro portata devastante va riferita soprattutto al carattere di sfondamento di ogni garanzia che li contraddistingue. Né va sottovalutato un altro aspetto: le politiche della precarietà in atto, portate avanti non a caso dal centro sinistra, si definiscono all'interno di un sistema di concertazione tra parti sociali, di accordo tra Confindustria e sindacati. Il capitale italiano, diviso tra piccola e media imprenditoria da un lato e grandi concertazioni monopolistiche dall'altro, ha trovato un momento di equilibrio che vede nell'attuale compagine governativa la sua rappresentazione politica. L'opzione preferenziale per il governo amico che fa ingoiare la pillola a tutti con il loro consenso, non può fare dimenticare le diverse filosofie sui tempi di smantellamento dello stato sociale e di soppressione di ogni tutela verso chi lavora, espresse dalle singole frazioni del capitale (si pensi alla radicalità con cui da anni è stato posto il discorso liberista dalle imprese del nord-est).
Ciò che conta è che comunque il livello attuale di mediazione all'interno del padronato fa attestare l'attacco ai settori subalterni su una linea di gradualità, una linea che si confronta realisticamente con la tradizione di un paese che ha avuto una sua particolare variante (assistenziale) del welfare state.
Di conseguenza dubbi sussistono riguardo al fatto che, ad esempio, all'interno del mercato del lavoro italiano, il cosiddetto lavoro "in affitto" possa assumere un ruolo prevalente visto che l'annullamento di certe garanzie non può avvenire dall'oggi al domani (si tenga presente che - in tal senso - paesi come l'Inghilterra, ove la forma del lavoro in affitto è più diffusa, hanno visto il massimo della recrudescenza liberista per tutti gli anni ottanta).
Quali i modi in cui il padronato spremerà la manodopera nei prossimi anni lo possiamo intuire, ma non definire precisamente. Quali accorgimenti metterà in campo il governo per affrontare una disoccupazione strutturale e lenirne gli effetti, ai fini di impedire "disordini sociali" non controllabili lo vedremo... Nel frattempo non possiamo non notare il notevole aumento dei concorsi per posti di polizia !
Riguardo allo specifico della formazione siamo in grado, già da oggi, di darle un ruolo ed una configurazione? Essa può ancora assumere esclusivamente il ruolo di "parcheggio" e di controllo sociale ideologico-politico? Oppure possono rilevarsi differenze circa le funzioni svolte dai suoi particolari settori? (vedi ad esempio quelle svolte dall'università e quelle svolte dai corsi di formazione). Ed ancora: è possibile che, in un futuro prossimo, l'università possa venire meno ed essere sostituita da altro, e cioè da saperi sempre più tecnici e settoriali? Quest'ultima affermazione sembrerebbe essere confermata dalle tendenze assunte dallo stesso "numero chiuso": tale provvedimento è un segnale forte, di rottura con quella liberalizzazione degli accessi alle facoltà che è stato un cardine dell'Università di massa. Ma la sua instaurazione in tutti gli atenei si è scontrata con le sentanze di incostituzionalità pronunciate da quel TAR che non è certo un luogo del contropotere proletario all'interno del sistema... Anche su questo passaggio probabilmente la controparte è divisa tra chi lo ritiene centrale nella ristrutturazione dell'università e chi no. Di certo il nemico lo ritiene indispensabile per quei diplomi di laurea tesi a conferire allo/a studente un'elevata conoscenza tecnica, almeno in relazione ad una microparticella di sapere.
E ancora dubbi si hanno a riguardo l'autonomia finanziaria, la quale permette, si dice, un più efficace collegamento tra università e realtà produttive del territorio circostante: infatti, se è vero che dai settori imprenditoriali ed industriali viene attualmente richiesto un numero assai limitato di "specialisti", in cosa può consistere realmente un tale collegamento? Nelle "magnifiche sorti e progressive" della ristrutturazione del sapere voluta dal capitale non crediamo: dietro le favole sull'autonomia finanziaria si cela l'approfondirsi della disparità tra atenei, tra facoltà, tra dipartimenti di facoltà... Per non parlare della grossa burla sulla privatizzazione! Altro che "mano invisibile" del mercato che, nel suo libero dispiegarsi, dirotta capitali verso le facoltà più meritevoli! Si, certo, gli atenei più fedeli ai dettami della Confindustria riceveranno briciolette qua e là, ma il punto è un altro: una mano molto visibile e molto pesante (quella dello Stato) dispenserà doni alle scuole e alle università da cui le imprese prenderanno i loro quadri, quelle private, appunto.
A conferma dell'attuale confusione circa il ruolo da conferire alla formazione in questa fase di transizione capitalista, stanno diverse affermazioni di politici e sindacalisti: non da ultima la più recente affermazione di Bruno Trentin (in occasione dell'assemblea annuale del centro riforma dello stato), che vedrebbe la formazione come parte integrante della retribuzione, cosa peraltro possibile grazie ad una "interpretazione attualizzante" della Costituzione il cui perno ruota ancora una volta attorno alla centralità del principio del lavoro produttivo, e dunque quello del rapporto salariale.
Queste ed altre perplessità
non ci consentono ancora di tracciare un'analisi definitiva sulla
formazione e i suoi nessi col mercato del lavoro. Troviamo, quindi,
necessario rilanciare il dibattito su questi nodi tenendo pur
sempre conto che ci troviamo di fronte ad uno scenario in continua
ridefinizione.
CONTRIBUTO DELLE COMPAGNE
E DEI COMPAGNI DEL "COLLETTIVO POLITICO ANTAGONISTA
UNIVERSITARIO" ALLA DISCUSSIONE NAZIONALE
DEGLI STUDENTI MEDI ED UNIVERSITARI AUTORGANIZZATI SUL TEMA :
"FORMAZIONE E MERCATO DEL LAVORO"
Roma, lì 21-12 1997