LA FINE DELL'UNIVERSITA'
In un'economia che si trasforma velocemente e con spinte centrifughe
sempre più accentuate, anche l'università così come il mondo del lavoro
è sottoposta a notevoli pressioni, probabilmente con una forza mai
sperimentata in passato.
Nel 1990, con la legge Ruberti sono state poste le basi di
un'università "più leggera", adeguata alle esigenze di un'economia che
si globalizza rapidamente. Si propone una razionalizzione
organizzativa, che si manifesta attraverso una gestione decentrata ed
un sistema contrattuale di carattere privatistico che nelle intenzioni
garantisce un patto individuale tra istituzione e singolo. Infatti già
otto anni fa tutti gli elementi portanti del progetto di riforma della
Commissione Martinotti ( autonomia didattica, sistema di crediti…ecc.)
erano presenti nella legge Ruberti.
Una prima motivazione che vede oggi la nostra presenza qui è una
questione di metodo. Come si può pensare che una riforma complessiva del
sistema dell'istruzione sia attuata attraverso le forme del "decreto
delegato" e non sia il nodo centrale della politica parlamentare? Non è
la prima volta che si presentano tali situazioni. Il termine ultimo per
far pervenire critiche e consigli al ministero è il 31 marzo,
l'approvazione della Riforma dell'università avverrà tra luglio e
settembre (cosa consueta in Italia). Una prima richiesta che ci sentiamo
di fare è quella di allargare ora e subito la questione della riforma
dell'istruzione in toto al dibattito parlamentare che sia il più
possibile ampio e che coinvolga in modo più massiccio tutti i soggetti
interessati (studenti- personale non docente - docenti); di fronte ad un
silenzio e a metodi così poco democratici ci chiediamo quale sia il
significato di parole come controllo dal basso di cui parlano gli
estensori della bozza Martinotti con riferimento all'autonomia rispetto
al controllo dall'alto dei passati interventi sull'università. Forse la
democrazia che invece si intende è quella "funzionalistica" che vede in
questo caso il coinvolgimento esclusivo di soggetti istituzionali
decentrati che riferiscono al ministro circa la bontà o meno dei
provvedimenti in una relazione biunivoca tra "esperti", tagliando fuori
la componente studentesca se non quella (anch'essa funzionale) di area
governativa e che sembra quasi creata ad hoc…(UDU-UDS).
La riforma in sé presenta caratteri di organizzazione aziendale che nel
tentativo di semplificare la burocrazia dell'università, e di avvicinare
questa al mutevole mercato del lavoro, applica il principio della
differenziazione competitiva tra ateneo e ateneo, niente affatto
innovativa se si considera l'enorme divario già esistente tra sud e
nord, del Paese . In un'epoca in cui il mercato è visto come la panacèa
di tutti i mali, l'approccio più ovvio sembra quello di improntare
l'istituzione universitaria ad una maggiore "ricettività" in tal senso.
Si tratterebbe in sostanza dell'istituzionalizzazione di uno squilibrio
che ha ragioni e caratteri storici. La contrattualità, poi, introduce
una ulteriore differenziazione tra studenti; suddivisione lasciata
anch'essa alla longa manus dell'autonomia delle Università, il cui unico
elemento unificante sarebbe un rapporto contrattualistico di tipo
privato tra studente ed ateneo.
Lasciando alle deduzioni individuali le riflessioni sulle conseguenze
che una tale "flessibilità" comporta, ci sembra importante sottolineare
il forte elemento di rottura con la concezione dell'università di massa
che prevedeva un contrattualismo implicito basato sulla "mobilità delle
classi", che permetteva un avanzamento sociale, o perlomeno lo
contemplava nei suoi indirizzi generali. Quel tipo di università aveva
però un problema: i costi. A questo punto vengono in mente alcuni dati
che riportati in parole dicono che lo Stato ha sempre speso molto poco
per i servizi e per sostenere il diritto allo studio. Nonostante questo
particolare, lo Stato per esigenze esterne principalmente dovute
all'accelerazione competitiva mondiale, intende progressivamente
delegare una lunga serie di funzioni alle Regioni ed agli Enti locali
tra cui appunto l'università. Se il federalismo può essere una risposta
adeguata alle sfide che il nuovo secolo propone è anche vero che un
mancato risanamento o riequilibratura di situazioni molto differenziate
rende il concetto di autonomia e ancor più di "competizione" un
formidabile incentivo a tutte quelle nicchie di baronato che lungi dal
rendere l'università più moderna andranno ad approfittare degli
ulteriori spazi che si aprono. E in effetti in tutta la riforma non
vengono toccati quelli che per noi rappresentano i problemi della
gestione dell'università da parte della categoria dei docenti: primo fra
tutti il sistema di cooptazione dei ricercatori nei concorsi. In secondo
luogo le penalizzazioni che subiscono già da tempo gli ambiti di ricerca
umanistica nei confronti delle materie scientifiche più orientate al
mercato.
Appare inoltre quasi un paradosso il tentativo di comparare il
sistema formativo italiano proprio per quello che si diceva prima. Come
si conciliano sistemi diversi con una storia diversa, che peraltro si
muovono con finalità non omogenee e che presentano condizioni di
partenza molto diverse? (pensiamo ad esempio al presalario tedesco, od
olandese, ai sistemi di incentivi svedesi ecc…). Con una caratteristica
attitudine italiana si prendono ritagli dall'esterno nel tentativo di
adattarli ad una realtà complessa come quella italiana, che proprio per
questa sua complessità andrebbe interpretata con maggiore originalità,
rifiutando la logica esplicita dell'eccesiva complessità della
situazione italiana che la bozza Martinotti assume come dato di fatto
incontrovertibile e di conseguenza rinuncia esplicitamente ad
un'approccio globale, proprio ora che al contrario esso è
irrinunciabile.
Da questa analisi sommaria della filosofia di fondo della riforma emerge
come la nostra contrarietà non si esprime tanto nella critica ad un
articolo della riforma o ad un qualche comma, che del resto siamo
consapevoli come può essere emendato, o sostituito a seconda delle
circostanze, ma sorge da una consapevolezza di un'ambiguità di fondo che
peraltro non riguarda un riassetto dell'amministrazione pubblica, ma la
forma che assumerà la trasmissione del sapere prossima futura.
Consapevoli dunque di una svolta che deve necessariamente essere
epocale, formulare delle controproposte può sembrare in qualche modo
paradossale. Non che non vi siano alcuni punti che vengono toccati e che
possono meritare più approfondite discussioni (ad esempio la mobilità-
anche se riferita al docente di ruolo più che allo studente-, o la
possibilità di sostenere esami all'estero riconosciuti in Italia) ma nel
complesso si tratta di aspetti che sono indissolubilmente legati a
questioni di carattere più generale e che perlomeno richiedono un
giudizio e una posizione non solo da parte di conferenze permanenti di
Rettori ma devono essere allargate alla società nel suo complesso.
Per quanto ci riguarda è nel collegare i problemi del diritto allo
studio alla questione dei diritti della città nel suo complesso che
vediamo un possibile raccordo con un'università diversa e da cui non
possiamo prescindere. E' nel constatare le esigenze quotidiane degli
studenti fuori-sede, nel riscontrare l'aumento vertiginoso delle tasse
senza un adeguato miglioramento dei servizi, nella carenza di
programmazione politica sugli incentivi e sulle facilitazioni agli
studenti meno abbienti, nella selezione all'ingresso e sempre più
all'uscita del percorso universitario, che percepiamo le maggiori
contraddizioni di un sistema che modella un'autonomia sulle forze vive
dell'università come afferma il documento Martinotti senza chiedersi
chi sono queste forze, dove e come operano.
Se infatti l'ingresso dei privati nelle università non è avvenuto con la
virulenza che gli studenti della Pantera preconizzavano è anche vero
che il "contrattualismo" che prevede la figura di studente full-time e
part-time, oltre al "parcheggio" del C.U.B., pone una selezione seppur
blanda al I livello, e i corsi di specializzazione o i Master ad alto
costo e che richiedono mobilità sono un forte sbarramento al III
livello: la parte finale dell'imbuto, da cui usciranno "le gocce
migliori". Attraverso la selezione dunque (che va sotto il nome di
specializzazione), e lasciando i costi in gestione all'università si è
configurato l'ingresso dei privati nelle università italiane di questo
ultimo scorcio degli anni 90.
Oltretutto il fiorire di una serie di "progetti finalizzati" che
richiedono mobilità e denaro induce sradicamento dell'intelligenza
prodotta in loco a vantaggio di esterni, con un conseguente
depauperamento di potenziali progettualità da mettere in relazione con
la città e con il suo tessuto sociale e culturale, una serie di
"finestre di opportunità" dedicate a chi se le può permettere.
Siamo consapevoli che certe prese di posizione danno luogo ad un
insieme di critiche che vanno dal "vetero-comunismo" all' "incapacità di
recepire le innovazioni" (in ambienti più liberal) eppure le
ripercussioni di un passaggio da un'università "monopolistica" ad una
votata a concorrere con altri sistemi europei e tra di loro non è a
nostro avviso compreso appieno nelle sue implicazioni più profonde. Si
richiede prima di tutto che la questione della formazione venga posta in
posizione assolutamente dominante nell'agenda politica del governo - e
considerato il grado di decentramento - delle Regioni, sollecitiamo a
partire da quest'aula un'assunzione di responsabilità diffondendo i
contenuti della riforma e rendendo possibile una prima concreta verifica
democratica del progetto.
COLLETTIVO POLITICO DI SCIENZE POLITICHE - FIRENZE