Perché un intervento politico nell'ambito universitario?
Riteniamo che questa sia una domanda
fondamentale per lo svilupparsi di un dibattito all'interno delle
singole situazioni, tra quei collettivi che da oltre un anno e
mezzo hanno iniziato il percorso di un coordinamento universitario
antagonista nazionale e nel più ampio contesto del dibattito
dell'autonomia di classe. Da questa domanda partiamo per sviluppare
alcune considerazioni e offrire spunti di una discussione e un
confronto che attualmente sono carenti.
USCIRE DALL'UNIVERSITA'?
Si sente spesso, da parte di collettivi o singoli compagni interni (politicamente) all'ambito universitario, l'affermazione di una più o meno generica esigenza di "uscire dall'università" : o per unirsi alle lotte di altri soggetti sociali o, più spesso e con una posizione diversa dalla precedente, come scelta di abbandono dell'intervento politico nell'università per costruire nuovi terreni di intervento in ambiti ritenuti più centrali nella lotta di classe. Così, materialmente, si assiste molte volte all'abbandono di interventi consolidati per gettarsi in nuove situazioni. Sulla base di quali analisi e considerazioni maturano questi passaggi? Per quale motivo dall'università bisogna uscire, dove per uscita non si intende un momento di socializzazione e ricomposizione soggettiva delle lotte ma scelta di abbandono?
Nel processo di fabbrichizzazione della società, scuola e università sono perfettamente interne al contesto produttivo, ed anzi in esso assumono sempre più una funzione strategica. Esse sono i luoghi della formazione della capacità umana (in quanto merce), formazione di forza-lavoro come mezzo della valorizzazione capitalistica e produzione di cultura (in quanto merce) come oggetto.
Lo studente non è unicamente una potenziale forza-lavoro in attesa di entrare sul mercato e non è anche un lavoratore solo quando svolge un lavoro (sempre più spesso precario) direttamente salariato. Lo studente è già di per sé un lavoratore (non direttamente salariato) in quanto contribuisce alla produzione della sua formazione e di cultura, coproduttore dunque di forme di materialità intangibili che acquistano sempre maggiore importanza.
Tali affermazioni potranno suonare
come eretiche per chi identifica il lavoratore esclusivamente
con il produttore di merci materialmente tangibili. A questo proposito
può essere utile ripartire dall'ultraventennale dibattito
sul processo di terziarizzazione, che va analizzato non nel senso
di cetomedizzazione (lettura da cui, tra l'altro, prendono corpo
teorie molto in voga oggi, vedi quelle di Bonomi sull'imprenditore
"sociale" come nuovo soggetto del mutamento) ma come
proletarizzazione si strati sempre più ampi. Il processo
di terziarizzazione non è inteso esclusivamente come legato
all'aumento quantitativo dei lavoratori nella produzione di servizi
e alla loro funzione in rapporto all'accumulazione capitalistica,
ma include l'università in quanto produce una sempre più
ampia proletarizzazione del lavoro cosiddetto intellettuale. Ma
anche nel lavoro tradizionalmente considerato più semplice
e parcellizzato, il progresso e l'innovazione tecnologica non
si sono sempre basati su una imprescindibile e costante mercificazione
e sussunzione dell'intelligenza operaia?
PRECARIZZAZIONE DELLE CONDIZIONI DI LAVORO E FLESSIBILIZZAZIONE
La precarizzazione delle condizioni di lavoro (di cui il recente patto sull'occupazione costituisce un ulteriore passaggio) va intesa come il progressivo mutamento delle forme del lavoro tradizionalmente considerato garantito. Tale processo è una parte (e non va dunque identificato) con il più generale processo di flessibilizzazione che riguarda non solo le tradizionali forme del lavoro dipendente ma il più ampio contesto della forza-lavoro.
Per quanto riguarda l'università, va inquadrata in tal senso l'autonomia finanziaria, amministrativa e didattica degli atenei (che va analizzata anche dal punto di vista della regionalizzazione). Tale processo di selezione e differenziazione si sostanzia poi nelle singole situazioni attraverso misure specifiche, che confluiscono in una direzione di indirizzo globale funzionale allo sviluppo economico.
Il processo di ristrutturazione capitalistica tende a territorializzare e compartimentare le possibili lotte, creando separatezze tra i diversi ambiti. Tali separatezze vengono purtroppo spesso riprodotte anche dal punto di vista antagonista, adeguandosi all'uso di determinate categorie in un senso mistificante e atomizzante: lavoro garantito, lavoro precario, non-lavoro (cosa si intenda con tale termine, poi, è tutto da capire), studenti, immigrati... Ciò è ancora più evidente nelle posizioni di chi vede l'urgenza di un intervento e una centralità del lavoratore precario, visto da alcuni come il nuovo soggetto sociale rivoluzionario: in tali ipotesi (oltre a una non chiarezza sulla categoria del lavoratore precario) si confonde una lettura tecnica e quantitativa della composizione di classe con una lettura (che dovrebbe essere invece quella che ci interessa) politica: il soggetto sociale che si pone alla testa delle lotte non è quello che è numericamente maggioritario, ma quello che esprime conflitto in rapporto ad una determinata posizione nel processo di valorizzazione e accumulazione capitalistico, con reali possibilità di creare in esso delle rotture.
I diversi ambiti di intervento
dovrebbero invece convergere nelle creazione di una lettura del
processo di flessibilizzazione individuando le potenzialità
tendenzialmente conflittuali e ricompositive dal punto di vista
di classe.
OGGI LA REPRESSIONE PIU' PERICOLOSA E' IL CONSENSO
Quotidianamente è verificabile ovunque un grosso livello di accettazione da parte della classe. Se negli anni '60 e '70 essa esprimeva autonomamente forme di rifiuto a livello direttamente politico oppure spontaneo (ma comunque in una politicità intrinseca), oggi la situazione è profondamente diversa. Si può tranquillamente affermare che attualmente la repressione più pericolosa si esprime non solo con le forme tradizionali (denunce e carcere), ma in maniera più sottile e notevolmente più subdola attraverso il consenso e l'accettazione.
Ciò è più
facilmente e immediatamente verificabile nelle forme di sfruttamento
e auto-sfruttamento legate al lavoro (formalmente, cosa che non
tutti dicono) autonomo, all'auto-imprenditorialità, ai
lavori dell'industria culturale e soprattutto nel terzo settore,
che contiene molti elementi paradigmatici di tale discorso. Dietro
alla mistificazione ideologica dell'essere socialmente utili,
si impongono livelli di sfruttamento che, nel migliore dei casi,
non sono diversi da quelli tradizionalmente conosciuti. Tali lavori
sono effettivamente socialmente utili, ovvero utili alla società
intesa come insieme dei rapporti capitalistici di produzione e
riproduzione. Il lavoro è sempre utile per il capitale!
Così come lo è il cosiddetto no-profit: se il lavoro
è l'attività che produce capitale, come può
un lavoro non produrre profitto?
LA SOGGETTIVITA'
Se la classe esprime un alto livello di consenso, non dobbiamo pensare che tale discorso non riguardi le stesse soggettività antagoniste per il solo fatto di essere (o definirsi) tali. E' spesso verificabile come compagni che militano in centri sociali e collettivi vari esprimano poi negli ambiti in cui si trovano quotidianamente a passare gran parte del loro tempo (siamo essi il posto di lavoro comunemente inteso, la scuola o l'università) gli stessi livelli di accettazione che sono riscontrabili nel resto della classe. L'autonomia deve dunque esprimersi nell'alterità dei comportamenti, nella rottura di tali livelli di accettazione, nel rifiuto di concedere ciò che viene richiesto dal capitale. Si entra dunque nel discorso sulla soggettività, nodo centrale di un agire che si ponga la questione della ricomposizione politica, che non va intesa come organizzazione formalizzata del poco esistente, ma come costruzione di un soggetto politico autonomo che oggi non c'è.
La prima questione che si pone
è quella del radicamento, categoria che (come del resto
avviene per molte altre) spesso si cita senza realmente dibattere
di cosa per essa si intenda: anche in questo esistono diversi
punti di vista che però non si confrontano. Noi pensiamo
che un intervento in un particolare ambito debba essere costruito
con costanza e pazienza, ben sapendo che il discorso che si inizia
sarà di lunghissima durata. I frutti non arrivano mai subito,
ma paradossalmente il momento più importante per un collettivo
(in qualsiasi ambito esso intervenga) è quello in cui le
lotte non ci sono. E' questa la fase in cui si costruisce il radicamento,
in cui ci si prepara per quando le lotte ci saranno ( e per fare
in modo che ci siano), e per costruire in esse egemonia politica.
Senza questa fase le lotte possono arrivare ma o non supereranno
il loro carattere spontaneo o saranno egemonizzate da altri. E'
necessario stare dentro alle lotte e ai movimenti: per fare questo
bisogna confrontarsi continuamente e criticamente con la realtà.
DENTRO E CONTRO
La realtà non è come noi la vorremmo: per cambiarla dobbiamo però avere la capacità di starvi dentro ed esserne contro. Purtroppo qualche volta non siamo in grado di essere realmente contro, molto spesso soprattutto non riusciamo a stare dentro, ghettizzandoci in posizioni puramente ideologiche che non hanno nessuna probabilità di spostare gli equilibri dei rapporti esistenti.
Se la classe non esprime conflitto oppure non lo esprime nella direzione che vorremmo, è assurdo recriminare sulla mancanza di coscienza: è la soggettività politica ad essere inadeguata!
Dobbiamo acquisire la capacità di analisi critica: rispetto all'esistente ma anche rispetto a noi stessi, i nostri limiti e le nostre carenze. L'incapacità di confrontarsi di cui si parlava prima a proposito del discorso sul radicamento, è riscontrabile spesso, e riproduce al nostro interno quelle forme di atomizzazione e di localismo che si vorrebbero invece abbattere: le differenze diventano ostacoli invece che arricchimento.
E' necessario acquisire la capacità di ragionare ed agire su livelli differenti: il dibattito che si porta avanti all'interno dell'avanguardia riguarda la progettualità, la capacità di ragionare in tendenza, un ambito dunque strategico; non può essere riportato nelle stesse forme in una mobilitazione di base, che rappresenta un contesto tattico. Unire i vari livelli, dall'alto al basso per tornare in alto, è il compito dell'avanguardia politica. Questo documento, ad esempio, se può avere un significato in un dibattito tra i vari collettivi, non avrebbe alcun senso se riportato agli studenti che si mobilitano su una questione specifica. Il collettivo deve riuscire a contestualizzare la specificità dell'intervento tattico nel proprio discorso progettuale e strategico, confrontando e verificando allo stesso tempo il proprio dibattito progettuale con la realtà specifica: mantenendo dunque un'interazione costante ed imprescindibile tra i due livelli.
Torna ancora una volta il discorso sul radicamento: un livello di discussione tendenziale non sposterà nulla se non si costruiscono effettive forme di radicamento; dall'altra parte un radicamento senza un dibattito progettuale non può portare da nessuna parte, se non a lavorare per altri.
Lotte ed eventuali processi di ricomposizione si possono dare indipendentemente da noi e derivano dalla contraddizione (irrisolvibile per i padroni) capitalisti-lavoratori. La classe esprime autonomamente una soggettività politica. Il rifiuto del lavoro è il passaggio attraverso cui la classe, negandosi come forza-lavoro, nega se stessa come parte del capitale (la parte che da il capitale). Ciò in tendenza può conseguentemente distruggere lo stesso rapporto capitalistico, ma in questo passaggio entra in ballo il discorso sul soggetto politico e sulla sua capacità di lettura e analisi e intervento miranti ad organizzare ed incompatibilizzare un conflitto che la classe esprime comunque ma che se non passa ad un livello politico di progettata uscita dal capitalismo può essere recuperato e sussunto diventando elemento dinamico di innovazione del capitalismo stesso.
Siamo dunque tornati al discorso
del rapporto con la realtà, la capacità di saperla
leggere, dotandosi di strumenti per farlo. Spesso si parla di
conricerca, ma anche tale parola viene più evocata che
realmente discussa e praticata. La conricerca non è una
semplice inchiesta sociologica, non si basa su nessuna raccolta
quantitativa di dati. Essa mira ad una analisi qualitativa critica
e problematizzante dell'esistente: leggere dove si esprimono incompatibilità
e rifiuto con l'obiettivo di organizzarli. La conricerca è
un continuo confronto critico con la realtà di classe,
ma per cambiarla. Sul livello più alto, il suo scopo è
la costruzione della soggettività politica autonoma.
COSTRUIRE PERCORSI DI CONTROFORMAZIONE
Lo urliamo spesso, lo scriviamo sulla maggior parte dei nostri volantini: ha ragione Alquati ad affermare ("Cultura, Formazione e Ricerca") che lo slogan "la cultura non è merce" è falso. In realtà la cultura è merce: la sussunzione e la mercificazione del sapere (necessari anche nei lavori ritenuti più semplici e parcellizzati) è stato il primo ed imprescindibile passo compiuto dal capitale per la propria autovalorizzazione. Noi dunque produciamo la merce cultura e ci formiamo per il padrone.
E' inutile illudersi di poter costruire nicchie al riparo dalle logiche di mercato in cui cultura e rapporti sociali non siano mercificati: tali tentativi portano a rinchiudersi in ghetti che nulla hanno di realmente alternativo al sistema, finendo anzi per esserne altamente funzionali. Nelle logiche di mercato che tutto mercificano ci siamo pienamente: l'unico modo per uscirne è distruggerle. Non cerchiamo dunque inesistenti isole felici dove la cultura non sia merce: lottiamo invece per la costruzione di una cultura contro il suo essere merce e per la sua demercificazione; ciò significa la distruzione del sistema capitalistico. Lo stesso discorso vale per la società: essa, anche nei centri sociali, è merce, e non potrebbe essere altrimenti: ma il vero problema è se questa socialità merce è interamente funzionale al sistema o se in essa riusciamo a costruire forme di socialità antagonista.
Come forza-lavoro che ci formiamo per il padrone noi stessi siamo merce, ma merce speciale: abbiamo la possibilità di cercare l'ambiguità e l'ambivalenza (derivante dalla solita irrisolvibile contraddizione di questo sistema) esistente nella realtà dei processi di autovalorizzazione come soggetti autonomi e contro il capitale: ancora una volta dentro e contro.
Oltre a formarci per il padrone, dobbiamo costruire dei percorsi di controformazione, intesi come formazione contro la valorizzazione e l'accumulazione del capitale. E' questo il nodo centrale del dibattito su scuola e università. Questi sono i luoghi strategici per il capitale: dobbiamo essere in grado di ribaltarli assumendoli da un punto di vista antagonista come luoghi strategici contro il capitale.
Questa è la grande scommessa
che dobbiamo giocare per la costruzione dell'autonomia di classe!
Collettivo antagonista Universitario
- Torino