Indice
PRESENTAZIONE
SCHEDE TECNICHE
Bassanini (1 & 2): leggi n°59 15 marzo 1997 (Bassanini 1) e n° 127 15 maggio 1997 (Bassanini 2)
Riforma Berlinguer
Bozza Martinotti: "autonomia didattica e innovazione dei corsi di studio a livello universitario e post-universitario" (3 ottobre 1997)
Patto per il lavoro (settembre 1996) e legge n°196 del 24 giugno 1997 (attuazione del Patto per il lavoro)
NOTE SULLA RISTRUTTURAZIONE DEL SISTEMA PRODUTTIVO
1. La mitologia del "post-fordismo"
2. La ristrutturazione capitalistica nella fase attuale
2.1 Globalizzazione della produzione
2.2 Decentramento produttivo e "impresa a rete"
2.3 Effetti di disciplinamento e contradditorietà dei processi di globalizzazione e decentramento produttivo
2.4 La flessibilità del lavoro
appendice: astrattizzazione e proletarizzazione del "lavoro intellettuale"
Formazione e Mercato del Lavoro - Note per un'Analisi della Ristrutturazione dei Processi Formativi
1. Introduzione
2. Il sistema scolastico e universitario italiano: cenni storici
3. Le cause della attuale crisi delle istituzioni formative
4. La ristrutturazione dei processi formativi
5. Conclusioni

PRESENTAZIONE

Il Collettivo Universitario Comunista "Vecchia Talpa" nasce da una riflessione di alcune compagne e compagni circa le potenzialità antagonistiche della soggettività studentesca fuori e dentro l'università.

Risulta evidente la necessità di stimolare il conflitto, la cui diffusione e massificazione diventa momento imprescindibile per una lotta contro il pensiero unico, lo sfruttamento, l'espropriazione dei corpi e delle menti da parte del capitale.

Risulta però altrettanto evidente la necessità di una crescita politica collettiva, di uno sviluppo di contenuti e di una socializzazione degli stessi al fine di sedimentare il conflitto.

E' necessario, quindi, un approccio che tenga ben presente il nesso teoria-prassi, intendendo così la teoria strettamente connessa ai bisogni materiali, alle lotte quotidiane, alle trasformazioni del reale, perché di esse è necessariamente il prodotto e con esse necessariamente si evolve.

Se si elude tale nesso si rischia inevitabilmente di cadere o nell'intellettualismo o nell'azione fine a se stessa. Da qui lo sforzo di ricostruire un quadro teorico generale che parta dall'analisi del processo di ristrutturazione capitalistica e dal ruolo della formazione all'interno di tale processo. Tale analisi è volta, poi ad evidenziare le possibili contraddizioni e ad individuare nuovi spazi di lotta.

In questo contesto si inquadra la scelta di organizzare questo ciclo di seminari.

Il primo seminario sarà dedicato all'analisi della categoria di "post-fordismo". Si cercherà di dare una lettura critica e demistificante rispetto ad alcuni autori che vedono nel post-fordismo una netta rottura rispetto ai precedenti modelli produttivi. Esso metterebbe al centro il cosiddetto "lavoro immateriale" dotato di capacità creative e innovative. Quest'ultimo sarebbe "precostituito da una forza lavoro sociale e autonoma1, capace di organizzare il proprio lavoro. Tale forza lavoro non sarebbe predeterminata da nessuna "organizzazione scientifica " del lavoro diventando "soggetto socialmente e politicamente egemone".

Riteniamo, piuttosto, che la categoria di post-fordismo semplifichi il nuovo processo di ristrutturazione non tenendo conto, non solo delle differenze tra modelli produttivi tra paesi a capitalismo avanzato e non, ma anche delle stesse differenze all'interno della singola impresa.

Nel primo seminario si analizzeranno dunque i processi di globalizzazione e decentramento produttivo sotto due diversi aspetti: l'attacco alle condizioni lavorative (precarietà e flessibilità del lavoro) della classe operaia, il disciplinamento, la gerarchizzazione della stessa e il loro effetto nei termini della frammentazione della classe.

Il secondo seminario, sulla formazione , nasce dall'esigenza di aprire un dibattito "nuovo" rispetto alla maggior parte delle analisi che sono state effettuate negli ultimi anni. Una parte di esse tende a considerare i processi di ristrutturazione del sistema formativo solo in relazione ad un problema di abbattimento di costi, di attacco al salario sociale puntando a rivendicare il "diritto allo studio". Altri vedono nell'Università il luogo principale atto a "sfornare" quell'intellettualità di massa autonomamente cooperante rispetto al capitale.

Noi cercheremo di effettuare una lettura di classe dei processi formativi tenendo conto tanto dell'aspetto del profitto che di quello del comando, elementi che il "rapporto di capitale" inevitabilmente implica, per cui analizzeremo il problema della razionalizzazione dei costi e del disciplinamento della forza lavoro. Passeremo in rassegna, quindi, gli attuali provvedimenti relativi alla formazione (Bozza Martinotti, Riforma Berlinguer, Accordi e Patto per il lavoro, e parzialmente Legge Bassanini) sotto l'aspetto sia della cosiddetta "riproduzione materiale", ossia di competenze trasmesse, che della "riproduzione formale", in termini di educazione all'etica del lavoro, di gerarchizzazione e disciplinamento.

Ovviamente i seminari e i documenti presentati non pretendono di essere esaustivi ma sono soltanto un contributo ad un dibattito di cui ormai si sente l'urgenza. Sono da considerare una piattaforma di ipotesi su cui basare il lavoro politico in Università.

In prospettiva pensiamo sia imprescindibile un lavoro di inchiesta, a partire da tale base, volto ad analizzare la composizione e la soggettività studentesca. Un lavoro che faccia emergere i bisogni degli studenti in relazione alle forme e ai contenuti della didattica, alla necessità di spazi di socializzazione e studio, alle contraddizioni legate al rapporto con il mercato del lavoro e con la città (servizi, alloggi, ecc...). Un lavoro volto, inoltre, ad analizzare i comportamenti politici degli studenti e a far emergere contraddizioni sulle quali aprire nuovi spazi di lotta e antagonismo.

Recuperiamo, dunque, il nesso tra teoria e prassi, tra tattica e strategia.

Costruiamo progettualità politica.

Diventiamo "classe pericolosa" che si oppone al continuo tentativo di plasmare i nostri corpi e le nostre menti e di ridurle a mera forza lavoro.

Collettivo Universitario Comunista "Vecchia Talpa"

SCHEDE TECNICHE

BASSANINI (1&2)

Leggi n°59 15 marzo 1997 (Bassanini 1) e n°127 15 maggio 1997 (Bassanini 2)

In un quadro di generale decentramento dei compiti e delle funzioni dallo stato alle Regioni e da queste ai Comuni e agli altri enti territoriali, alla luce dei principi di efficienza, economicità e di differenziazione nell'allocazione delle risorse e dei compiti in base alle caratteristiche "territoriali e strutturale degli enti riceventi", la legge Bassanini 1 si fa promotrice anche della razionalizzazione nel settore della ricerca e della formazione.

Esemplificativo di questa tendenza è l'articolo 11 dedicato al riordino degli "enti pubblici e nazionali in settori diversi dall'assistenza e dalla previdenza" e degli "enti privati controllati direttamente o indirettamente dallo stato che operano, anche all'estero, nella promozione e nel sostegno pubblico al sistema produttivo nazionale", riordino accompagnato dal potenziamento degli strumenti di monitoraggio e di valutazione del rapporto fra costi e rendimenti delle attività delle pubbliche amministrazioni e dalla ridefinizione degli interventi nel settore della ricerca scientifica e tecnologica (tutti interventi condotti in base al criterio dell'integrazione della disciplina del lavoro pubblico con quella del lavoro privato e della semplificazione e accellerazione delle procedure di contrattazione collettiva). All'articolo 18 vengono precisati i paramentri di questa cosiddetta razionalizzazione:

E' da notare come il riordino degli enti e la ridefinizione delle procedure dovrebbero essere condotti in base soprattutto alla promozione della mobilità del personale (anche degli stessi ricercatori tra enti diversi, università, scuole e imprese) evidenziando ulteriormente il livello di compenetrazione tra formazione, ricerca e controllo dei percorsi e dei risultati in base alle esigenze delle imprese. Un progetto già reso evidente dalla progettazione di organismi e procedure per la valutazione dell' "impatto dell'innovazione tecnologica sulla vita economica e sociale" affiancati da organismi consultivi che assicurano una rappresentanza anche al "mondo della produzione e dei servizi".

Ribadendo le linee guida della legge (decentramento di compiti e funzioni, mobilità e precarizzazione del personale, parificazione del lavoro pubblico al lavoro privato) si passa poi ad evocare la "riorganizzazione dell'intero sistema formativo" sottolineando la centralità dell'autonomia organizzativa degli istituti scolastici, sancendo, per l'ennesima volta, la disparità degli enti formativi in base alle esigenze e alle strategie sul territorio dell'impresa.

Se dunque, il quadro che emerge dalla lettura della Bassanini 1 è quello di un progressivo decentramento di funzioni dallo stato agli enti locali e di un successivo coordinamento fra questi ultimi in base alle spinte del mercato territoriale, dalla Bassanini 2 ci viene un parziale chiarimento su come si intenda "razionalizzare" un panorama così frammentato. Nella legge infatti si promuove la costituzione di un Consiglio universitario nazionale (CUN) che formuli proposte sulla programmazione universitaria, sui criteri per l'utilizzazione del fondo per il finanziamento dell'università, sull'approvazione dei regolamenti didattici d'ateneo, sui settori scientifici e disciplinari, sul reclutamento dei professori e dei ricercatori. Il CUN viene formato da tre membri per ogni area omogenea di settori scientifico-disciplinari, 8 studenti eletti dal consigli nazionale degli studenti, 4 membri eletti in rappresentanza del personale tecnico e amministrativo delle università, 3 membri eletti dalla Conferenza permanente dei rettori delle università italiane (CRUI) e la mancata elezione di una delle rappresentanze non inficia la costituzione dell'organo. E' del tutto ipotizzabile quindi un organo senza alcuna rappresentanza, nemmeno formale, degli studenti (rappresentanza del resto molto discutibile vista la differenziazione di condizioni e possibilità di studio che caratterizzerà le diverse aree territoriali e i diversi atenei) dove vecchie logiche baronali si sposeranno alla perfezione con la subalternità reale alla disponibilità o meno delle imprese a finanziare questo o quel progetto di ricerca.

RIFORMA BERLINGUER

Uno dei provvedimenti chiave relativi all'attuale ristrutturazione del sistema formativo è il riordino dei cicli scolastici, meglio conosciuto come Riforma Berlinguer.

Secondo tale provvedimento la scuola di base comprenderà l'ultimo anno delle materne, che diventerà obbligatorio e sei anni di ciclo primario, suddiviso in tre bienni. Questo ciclo di studi dovrebbe, nei primi due bienni, provvedere all'alfabetizzazione culturale e nell'ultimo consolidare le competenze e le conoscenze acquisite.

E' previsto, poi il cosiddetto ciclo secondario. Tale ciclo consta di un periodo di orientamento con il quale si concluderebbe la scuola dell'obbligo (dai 12 ai 15 anni) che prevede un anno di orientamento generale e un biennio di orientamento mirato. Nell'anno di orientamento accanto ad alcune materie fondamentali si prevedono corsi ed esperienze in collaborazione con "agenzie esterne". Nei due anni successivi inizia l'orientamento mirato. Durante tale periodo lo studente può già scegliere tra diversi indirizzi con la possibilità di passare da uno all'altro. Il biennio è organizzato in moduli, di durata probabilmente quadrimestrale. Viene introdotto il sistema del "debito scolastico" con il quale lo studente può compensare eventuali carenze. Nel passaggio da un modulo all'altro e/o da un indirizzo all'altro sono previsti dei tutor o non meglio precisate "figure di sistema" che avrebbero il compito di guidare lo studente. Già in questo periodo (cioè al tredicesimo anno di età) lo studente ha la possibilità di scegliere il cosiddetto sistema della formazione professionale indirizzandosi, appunto verso una maggiore professionalizzazione, rimanendo collegato comunque alla scuola attraverso i "rientri" nel sistema scolastico. Senza scendere a fondo nell'analisi, che rimandiamo ai nostri documenti, ci sembra che questa scelta relativa alla professionalizzazione sia abbastanza inopportuna perchè relativa ad un periodo in cui forse lo studente ha ancora il diritto ad acquisire una "cultura di base" e ci chiediamo se questa riforma "illuminata" e "progressista" non sia invece un passo indietro che un pò ricorda la tradizionale suddivisione tra scuola di avviamento professionale e scuola media di trent'anni fa.

E' da sottolineare, inoltre, il fatto che in questo primo periodo d'orientamento l'ingresso del privato all'interno della scuola è già molto forte, in quanto l'orientamento mirato si realizzerebbe grazie a convenzioni con "agenzie esterne".

Il triennio finale della scuola secondaria (15-18 anni), con il quale si conclude la scuola dell'obbligo, servirebbe ad avvicinare lo studente al mondo del lavoro o a quello dell'università. Sono previsti, in tal caso stages che servirebbero da collegamento con le realtà produttive territoriali. A termine del ciclo secondario si dovrebbe ottenere il diploma che garantisce l'ingresso nell'Università, nel sistema dell'istruzione post-secondaria o in quello della formazione tecnico-professionale superiore. Il sistema formativo viene suddiviso, in tal modo, in tre tronconi.

L'istruzione post-secondaria sarebbe un sisterma alternativo all'università in quanto più professionalizzante e che risponderebbe ad una domanda di lavoro legata ad esigenze regionali. Secondo il progetto di riforma questo sistema è già previsto in molti paesi europei tranne l'Italia (eccezion fatta per Accademia di Belle Arti e ISEF).Con il terzo sistema il carattere professionalizzante viene accentuato ulteriormente.

Tutto il testo del progetto, che a dire il vero è assai vago e fumoso, è caratterizzato da continui richiami alla necessità di una formazione continua, di una continua riqualificazione e di una riconversione delle proprie competenze in virtù della flessibilità che l'attuale mercato del lavoro impone.

BOZZA MARTINOTTI

"AUTONOMIA DIDATTICA E INNOVAZIONIE DEI CORSI DI STUDIO A LIVELLO UNIVERSITARIO E POST-UNIVERSITARIO"(3 Ottobre 1997)

Principi Organizzativi Generali

Il testo di riforma afferma che, al "rapporto quasi-fiscale" della "passiva iscrizione all'università" si dovrebbe sostituire una forma più elastica, contrattuale, "un accordo bilaterale con prestazioni collettive".

Spacciando per consensualità il rapporto di contrattualità, si cerca di nascondere come questo significhi di fatto maggiori forme di disciplina e controllo, introducendo doveri e obblighi ulteriori (e legalmente codificati) all'interno dell'università.

Senza troppi giri di parole, l'obiettivo da raggiungere diviene quello della "differenziazione competitiva tra i diversi atenei". L'autonomia (didattica e finanziaria) comporta una divisione tra atenei "competitivi", ricchi di fondi e infrastrutture, fortemente legati al mercato e ad accesso fortemente selettivo, e atenei dequalificati, immensi parcheggi di disoccupati. Un sistema di valutazione nazionale dovrebbe giudicare inoltre quali risorse affidare agli atenei, dequalificando ulteriormente atenei meno "competitivi", che oltre ad avere minori entrate dal privato, avranno minore accesso al finanziamento statale.

Viene codificata la cosiddetta "formazione permanente", fornendo percorsi formativi defferenziati e "lifelong". Precario diviene qualsiasi titolo di studio, si dovrà tornare costantemente (per essere competitivi) nella formazione.

Inoltre è qui definito uno dei doveri del principio di contrattualità, quello di laurearsi nei tempi stabiliti e rispettando con la "massima regolarità" il percorso di studi.

E' prevista la figura dello "studente a tempo parziale", lavoratore e dequalificato.

Questa innovazione offre agli atenei la possibilità di avviare nuove attività formative senza "procedure di approvazione preventiva". Sarà così immediato "l'adeguamento dell'offerta formativa alle richieste del mondo del lavoro".

Non esiste nessun accenno ad una eventuale formazione "critica", l'unica consentita è quella al lavoro, sottomessa interamente alle esigenze del mercato (sia nella qualità che nei tempi).

Totale flessibilità e mobilità del personale docente e non sia all'interno che tra gli atenei.

I titoli di studio non avranno lo stesso valore. Saranno valutati in base ad un sistema di certificazione a posteriori basato su tre criteri (valore culturale, rispondenza a esigenze economiche e sociali e adeguatezza delle risorse messe a disposizione dagli atenei). Maggiore spendibilità avrà quindi una laurea che trascura ogni aspetto critico o conflittuale, che si adegua totalmente agli interessi del mercato e che proviene da un ateneo di "serie A". Il disciplinamento diviene di fatto uno dei più importanti obiettivi della riforma.

I crediti formativi, nella riforma sostituiranno il voto. Sono valori numerici (tra 1 e 60) associati ai corsi. Devono riflettere la quantità di lavoro e possono essere spesi in diversi livelli e ordini di studi. Ciò consente la riutilizzabilità degli "investimenti formativi".

Di fatto, come la Bozza afferma esplicitamente, è un sistema per garantire la massima flessibilità e per certificare le "competenze professionali", come stabilito dal Patto per il Lavoro del settembre 1996.

Rispetto al problema dell'istruzione permanente il "capitale di istruzione" accumulato dal singolo durante il processo formativo è, come recita il documento "un bene rapidamente deperibile con l'usura... compito di un sistema di istruzione universitaria sarà quello di arricchire periodicamente questo capitale".

Si prevede un rafforzamento delle funzioni di indirizzo, coordinamento e verifica da parte del governo. Si potrà indirizzare il sistema formativo verso gli obiettivi ritenuti primari.

Struttura dell'ordinamento didattico

Le strutture didattiche si articolano su tre livelli:

L'anno iniziale potrà essere comune per aree, facoltà, diplomi e lauree.

Potranno inoltre essere previsti:

E' un livello intermedio attestante l'avvenuta acquisizione di almeno 120 crediti. Il Cub può essere comune a una pluralità di lauree e diplomi universitari. Non è finalizzato ad una specifica professionalità.

Con impegno corrispondente ad almeno 60 crediti, costituito da stages o masters, a carattere professionalizzante.

La durata di ogni Diploma universitario è compresa tra 2 e 3 anni, di ogni Laurea tra i 4 e 6 anni, di ogni scuola di specializzazione è di almeno 2 anni. Ciò comporta un innalzamento dei tempi necessari, aggravato dall'esigenza di dover tornare sistematicamente negli ambiti formativi (formazione permanente).

Autonomia didattica e mercato del lavoro

La riforma prescrive che "l'offerta di istruzione superiore deve essere definita attraverso una interazione delle università con istituzioni e soggetti economici locali e nazionali"...."l'offerta formativa a livello locale dovrà tendere ad adeguarsi alle caratteristiche del mercato del lavoro e della economia del territorio, allo scopo di consentire la creazione di veri rapporti di contrattualità tra soggetti e istituzioni"..."si dia vita a forme consortili tra gli istituti di formazione superiore, nella tendenza a innalzare la qualità dell'offerta e a favorire la sua distribuzione omogenea sul territorio, inteso come aggregazione di grandi aree, non sempre rispondenti alle attuali Regioni"..."il coordinamento territoriale potrebbe essere assicurato da un comitato di rettori presenti sull'area al quale andrebbero affiancati rappresentanti degli organismi economici"..."l'offerta consorziata comporterà l'accentuazione di specializzazioni di sede".

L'autonomia finanziaria e didattica significherà così il completo asservimento (delle strutture, della ricerca e della didattica, del personale docente e non, degli studenti) alle esigenze del privato, che sarà presente in ogni momento, formativo e gestionale, all'interno dell'università.

PATTO PER IL LAVORO (settembre 1996)

E legge n° 196 del 24 Giugno 1997 (attuazione del Patto per il lavoro)

La legge n°196, che leggittima una condizione di precarietà del lavoro già di fatto esistente (lavoro interinale, lavoro a tempo determinato, part-time, flessibilità degli orari di lavoro), prevede anche il riordino del sistema di formazione professionale. Si tratta di una serie di "indicazioni" che hanno l'evidente scopo di finalizzare il sistema formativo alla creazione di una forza-lavoro precaria e flessibile adeguata alle nuove forme assunte dallo sfruttamento capitalistico.

Dal "patto" emergono:

DOCUMENTI ANALITICI

NOTE SULLA RISTRUTTURAZIONE
DEL SISTEMA PRODUTTIVO

Riguardo alle trasformazioni che nell'ultimo ventennio hanno investito il modo di produzione capitalistico è stata prodotta, in questi anni, una vastissima letteratura, che per lo più ha posto al centro dell'analisi l'esaurirsi del modello fordista-taylorista e ha postulato l'avvento di un nuovo paradigma produttivo: il "post-fordismo".

Alcuni autori, in particolare, ritengono che tale mutamento di paradigma non sia riconducibile al classico "salto tecnologico", ossia a quel rivoluzionamento dei modelli di organizzazione del lavoro e della produzione, a quell'aumento della composizione organica del capitale che è trasversale all'intera storia del capitalismo. La trasformazione, secondo costoro, andrebbe infatti ad intaccare gli stessi fondamenti del modo capitalistico di produrre, determinando un vero e proprio "mutamento qualitativo" nell'organizzazione sociale e produttiva, e aprendo, in questo modo, prospettive apocalittiche e nuovi orizzonti rivoluzionari; o, più semplicemente, conducendo alla fine del mondo così come lo abbiamo conosciuto: alla fine delle classi, della dialettica, del conflitto, delle ideologie, della storia, etc.

Resta il fatto che buona parte di questo mare di inchiostro, rispetto ai processi di ristrutturazione in atto, ha finito per assumere un carattere più che altro apologetico. Scambiando infatti il ridimensionamento del lavoro di fabbrica nei paesi a capitalismo avanzato, con la fine del lavoro salariato/alienato/imposto tout court, molti autori, anche "di sinistra", non hanno trovato di meglio che cimentarsi nell'esaltazione della nuova epoca "post-industriale" e "post-moderna" e del lavoro creativo, comunicativo, appagante, autoimprenditoriale, autodeterminato, etc. che la caratterizzerebbe.

Di fronte a questo panorama a dir poco desolante, vogliamo qui provare a fornire, seppure in modo estremamente sommario e non certo esaustivo, una lettura alternativa dei processi di ristrutturazione che hanno investito e investono il sistema produttivo: una lettura di classe, che rimetta al centro la materialità del rapporto capitale/lavoro e dell'antagonismo proletario.

Partendo dal presupposto di un'intima connessione tra i processi formativi e i meccanismi di produzione/riproduzione del capitale, questo lavoro di sintesi servirà, in seguito, come base per ulteriori elaborazioni più specificamente inerenti il problema della formazione.

1. Mitologia del "post-fordismo"

In primo luogo, si tratta di operare una lettura critica e demistificante dell'abusata categoria del "post-fordismo". Essa, infatti, riducendo la complessità del sistema produttivo-riproduttivo ad un modello univoco e totalizzante, a nostro avviso non risulta in nessun modo utile per la comprensione delle modalità con cui si va ristrutturando il ciclo complessivo della valorizzazione capitalistica, e con questo dei nuovi soggetti e delle nuove forme del conflitto.

Non serve andare oltre i confini dei paesi a capitalismo avanzato per osservare come, all'interno del medesimo ciclo produttivo e/o della medesima impresa (laddove quest'ultima non si identifica più con la singola unità produttiva), i modelli di organizzazione del lavoro, i livelli tecnologici e di composizione organica del capitale, il grado di sfruttamento e il tipo di forza-lavoro impiegato, non sono riconducibili ad un unico paradigma. Si va, infatti, dalla fabbrica high tech a produzione snella, flessibile e integrata, al modello fordista, a produzione standardizzata e a catena, a quello "manifatturiero" a lavorazione semi-artigianale, fino al vero e proprio lavoro servile, passando attraverso tutte le relative posizioni intermedie. All'interno della grande fabbrica stessa, d'altra parte, si assiste sempre più palesemente non già all'imporsi di un modello "puro", bensì alla fusione di elementi tanto dell'organizzazione toyotista, quanto di quella fordista-taylorista 2.

Ora, è importante osservare come questa divisione del lavoro all'interno dell'impresa, sia trasversale rispetto alla tradizionale distribuzione geografica dello sviluppo e del sottosviluppo, anche se ovviamente i modelli più "avanzati" continuano ad essere localizzati all'interno dei paesi a capitalismo maturo (Stati Uniti, Giappone, Europa occidentale). Possiamo affermare, allora, che oggi «il capitale è in grado di "mettere a valore la complessità", di "valorizzare le differenze" complementarizzandole sinergicamente nel suo ciclo accumulativo, dispiegato su scala planetaria» 3. Nessun meccanico livellamento, nel medio termine, dei modelli di organizzazione della produzione sui punti più alti dello sviluppo! Questa vecchia tesi, di derivazione "operaista", oggi non può che risultare fuorviante rispetto ad una realtà produttiva e sociale che si fa sempre più complessa e sempre meno riconducibile ad un modello omogeneo.

Concludiamo questo paragrafo, anticipando che alcune osservazioni volte a svelare il carattere puramente ideologico di buona parte della corrente letteratura sul "post-fordismo", verranno sviluppate in seguito. Tali osservazioni, in particolare, si riferiscono ai fenomeni di ricentralizzazione della produzione che già si stanno manifestando in alcuni paesi a capitalismo avanzato; al diffondersi del cosiddetto lavoro "autonomo"; e, soprattutto, ai processi di "astrattizzazione" e proletarizzazione che investono oggi anche ampi strati di forza-lavoro mentale.

2. La ristrutturazione capitalistica nella fase attuale

I processi ristrutturativi che il capitale ha avviato intorno alla metà degli anni '70, sono oggi pienamente dispiegati. La tendenza pare ormai attualizzata, anche se questi processi non si possono considerare conclusi, e potranno ancora subire deviazioni più o meno forti, anche in base alle resistenze che incontreranno e ai conflitti che potranno suscitare e che già oggi suscitano - seppure spesso nelle forme di una microconflittualità a carattere settoriale e locale.

All'interno di questi processi, si possono distinguere due diversi aspetti. Da una parte quello della riduzione dei costi, ossia dell'attacco al salario/reddito e alle condizioni lavorative dei proletari; dall'altra parte, quello del controllo politico di questo attacco, della riproduzione del comando capitalistico, e quindi del disciplinamento della forza-lavoro. Un terzo elemento, trasversale ai processi di ristrutturazione, è costituito infine dalla crescente socializzazione e "astrattizzazione" del lavoro, e dalla "svalorizzazione" della forza-lavoro che ne consegue.

Qui di seguito cercheremo di individuare e di descrivere, anche se in modo piuttosto sommario, quelli che riteniamo essere i principali elementi costituitivi dell'attuale fase di ristrutturazione; con l'ovvia avvertenza che la distinzione e la separazione di tali elementi può avere senso solo sul piano dell'analisi, essendo essi, nella realtà, fittamente intrecciati.

2.1. Globalizzazione della produzione

Uno dei principali aspetti della ristrutturazione capitalistica è costituita dai processi di globalizzazione dei mercati e del sistema produttivo, ovvero dalla crescente libertà di circolazione per capitali, merci e informazioni. Questa, d'altra parte, non è altro che l'effetto di una serie di politiche governative e intergovernative - spesso elaborate ed imposte a livello di organismi sovranazionali (Fmi, Banca Mondiale, Wto etc.) - che includono, ad esempio, trattati monetari e commerciali, la creazione di aree di libero scambio come l'Unione Monetaria Europea o il Nafta etc., e che vanno a scardinare la vecchia suddivisione delle aree di investimento e di sbocco delle merci, che si era costituita nel quadro dei rapporti internazionali stabilito a Yalta.

In buona sostanza la libera circolazione dei capitali e delle merci induce una nuova divisione internazionale del lavoro, ossia una redistribuzione geografica su scala globale della produzione, in base a criteri di costi comparati. Così, consistenti segmenti di produzione vengono trasferiti là dove sono garantiti livelli salariali più bassi e sono disponibili enormi masse di forza-lavoro flessibile e malleabile; più in generale là dove i rapporti di forza tra le classi sono più favorevoli alla valorizzazione del capitale (e ciò dipende da una molteplicità di fattori, quali i livelli occupazionali, le tradizioni di organizzazione e di lotta, il grado di frammentazione del mercato del lavoro etc.).

Le basi tecniche dei processi di globalizzazione sono costituite dalle nuove tecnologie tele-informatiche e da sistemi di trasporto sempre più rapidi ed efficienti, che determinano un incremento nella velocità dei flussi di merci e informazioni tra unità produttiva e unità produttiva, consentendo una organizzazione coerente della produzione, nonostante la dispersione geografica dei suoi diversi segmenti.

Naturalmente l'investimento di capitali in una data area geografica, deve tenere conto anche di fattori quali le caratteristiche qualitative della forza-lavoro - ad esempio relative alla sua formazione - e la presenza di infrastrutture adeguate al tipo di produzione che si vuole installare (tenuto conto che tanto i costi della formazione, quanto quelli delle infrastrutture si distribuiscono, in buona parte, sul capitale sociale complessivo, attraverso la mediazione dello Stato e del sistema fiscale). Ne consegue che, mentre i nuovi settori hi-tech ad alta composizione organica di capitale rimangono per lo più collocati all'interno del grande triangolo delle aree a capitalismo avanzato (Europa occidentale, Stati Uniti e Giappone), sono per la maggior parte produzioni high labour intensive, caratterizzate da una organizzazione del lavoro di tipo fordista o pre-fordista, ad essere delocalizzate nei paesi dell'Est o del Sud del mondo.

Così, mentre nei paesi a capitalismo avanzato si assiste alla vera e propria deindustrializzazione di intere regioni, alla relativa restrizione degli ambiti della produzione fordista, alla forte riduzione del peso numerico dell'operaio-massa, nei paesi del Sud del mondo vengono a svilupparsi, con una configurazione a macchia di leopardo, aree ad alto sviluppo industriale, dove l'operaio-massa si ripresenta in forma ancor più massificata (come, ad esempio, in Messico, Brasile, Corea del Sud, Taiwan, Cina etc.).

Se prendiamo ora in considerazione la grande impresa transnazionale, in relazione ai processi di globalizzazione descritti, è necessario fare alcune precisazioni. In primo luogo, si deve notare che l'intero ciclo della produzione, anche sul piano strettamente giuridico, rimane qui sotto il controllo della medesima proprietà, ciò che costituisce sicuramente un elemento di continuità con il modello fordista. In secondo luogo, va osservato che esistono comunque limiti ai processi di globalizzazione: l'impresa transnazionale, nella quasi totalità dei casi, mantiene solide radici sul territorio nazionale, in particolare per quanto riguarda la proprietà, gli stili di management e le attività di ricerca 4.

2.2. Decentramento produttivo e "impresa a rete"

I processi di decentramento produttivo (o globalizzazione locale) consistono sostanzialmente nell'esternalizzazione di funzioni produttive originariamente interne alla grande fabbrica centralizzata, cioè nell'appalto di tali funzioni ad unità produttive esterne e di piccole dimensioni (medie e piccole imprese, cooperative, lavoratori "autonomi").

A differenza di quanto avviene per i processi di globalizzazione propriamente detti, qui l'impresa-madre non detiene la proprietà delle nuove unità produttive. Di fatto, però, si viene a creare un rapporto di stretta dipendenza e subordinazione delle seconde alle prime. Come vedremo, inoltre, se padroni e padroncini della piccola e media impresa partecipano, seppure in posizione subalterna, alla distribuzione del plusvalore sociale, il lavoro "autonomo" prodotto dai processi di esternalizzazione, può essere qui considerato - prescindendo dalla mistificazione insita nella definizione giuridica - lavoro salariato a tutti gli effetti 5. In secondo luogo, è da notare che la costituzione della cosiddetta "impresa rete", risultante dei processi di decentramento, rimane interamente localizzata all'interno dei paesi a capitalismo avanzato.

Anche qui, come per i processi di globalizzazione, la base tecnica della ristrutturazione risiede nelle nuove tecnologie tele-informatiche e nei nuovi sistemi di trasporto. Essi, d'altronde, assumono in questo contesto un ruolo peculiare, in quanto la connessione tra le diverse unità produttive che costituiscono l'impresa "a rete", si articola sul principio del just in time. La rapidità e l'efficienza dei flussi di informazioni e merci diviene fondamentale, nella misura in cui il just in time prevede, da una parte, l'eliminazione delle scorte di magazzino e l'abbattimento dei relativi costi (ivi inclusa l'espulsione di quote forza-lavoro dal ciclo produttivo); e, dall'altra parte, la necessità, per ogni singola unità, di consegnare ai punti di smercio o all'unità contigua nel ciclo produttivo, una certa quantità di prodotto o di componenti del prodotto a scadenze temporali determinate.

Ma il just in time, in molti casi, può rappresentare, più che il fondamento di un nuovo modo di produrre, semplicemente una evoluzione del modello fordista. Come nota Franco Barchiesi, nel caso della General Motors, «se l'accorpamento di più funzioni e mansioni in un singolo operaio può, in certo modo, contraddire i precetti tayloristi di scomposizione delle operazioni in unità semplici e specialistiche [...], il sistema resta del tutto compatibile con l'impianto fordista di trasferimento di materiali e sequenzialità di operazioni. L'impiego di computer e sistemi elettronici di monitoraggio può semmai consentire un'intensificazione dei ritmi» 6.

2.3. Effetti di disciplinamento e contraddittorietà dei processi di globalizzazione e decentramento produttivo

Si tratta ora di analizzare gli effetti dei processi sopra descritti in termini di disciplinamento e precarizzazione della forza-lavoro e di metterne in evidenza, quando possibile, i limiti e le contraddizioni interne.

1. Per quanto riguarda la globalizzazione della produzione, è da notare come, nei paesi del Sud del mondo, il contraltare di questi processi sia costituito dalle politiche omicide del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale: quelle "politiche di sottosviluppo" che, attraverso la distruzione delle strutture sociali ed economiche tradizionali (si pensi alle comunità indigene del Chiapas), lo sradicamento e deportazione di intere popolazioni, l'abbattimento della già misera componente sociale della spesa pubblica attraverso i famigerati "piani di aggiustamento strutturale", non fanno altro che estendere ed intensificare il ricatto salariale, gettando sul mercato capitalistico del lavoro enormi masse di manodopera estremamente ricattabile e a bassissimo costo 7. Si va così ad incrementare quell'enorme "esercito di riserva" di disoccupati e sottoccupati, che attualmente costituisce circa il 30% della popolazione mondiale: un enorme bacino di forza-lavoro al quale il capitale può attingere senza alcuna limitazione, e che costituisce il più potente fattore di ricatto nei confronti della forza-lavoro occupata a livello globale.

Ed è proprio questo il punto. La globalizzazione, la libera circolazione dei capitali e delle merci, è essenzialmente globalizzazione della competizione inter-proletaria sul mercato internazionale del lavoro; una intensificazione del ricatto occupazionale, i cui effetti consistono in una generalizzata compressione dei salari - nella loro forma diretta come in quella indiretta (spesa sociale) - e in generale delle condizioni di lavoro (orario, ritmi, sicurezza etc.). Gli stessi lavoratori dei "paesi di nuova industrializzazione", dati i bassi costi di trasferimento degli impianti, sono costantemente sottoposti alla minaccia della delocalizzazione e del licenziamento.

Si badi bene, inoltre, che la compressione dei salari il livellamento delle retribuzioni. La gerarchizzazione salariale - che trova la propria legittimazione in primo luogo nelle differenze di sesso, età, razza, qualifica tecnica, etc. - costituisce, per il capitale, un imprescindibile strumento di controllo e divisione della classe. Si assiste, quindi, ad una forte diversificazione dei salari e delle condizioni lavorative nelle diverse aree geografiche, che induce a sua volta trasferimenti di capitale da una regione del globo all'altra.

Una diversificazione salariale su base geografica è riscontrabile anche all'interno degli stessi paesi a capitalismo avanzato, e viene accentuata da politiche governative mirate, come ad esempio, in Italia, l'introduzione dei "patti territoriali" e dei "contratti d'area", e la riproposizione di salari differenziati per le regioni meridionali ("gabbie salariali"). La gerarchia delle condizioni di investimento, infine, riguarda anche il salario indiretto, e quindi, in generale, quello che viene definito "costo del lavoro". Di qui la tendenza a decentrare e "federalizzare" lo stesso sistema fiscale.

2. Per quanto riguarda il decentramento produttivo, esso implica la destrutturazione delle grandi concentrazioni operaie caratteristiche dell'epoca fordista, e determinando lo smembramento dei meccanismi di solidarietà caratteristici della grande fabbrica e riducendo (teoricamente) ad un minimo l'impatto delle lotte operaie. Se così, ad esempio, i lavoratori di una piccola impresa dell'indotto entrano in sciopero, non sarà difficile, per l'impresa-madre, affidare la commessa ad un'altra impresa appaltatrice. E' evidente che il ricatto implicito nel sistema flessibile del subappalto - del tutto simile a quello della delocalizzazione in altre aree del globo - agisce qui sulla forza-lavoro come potente fattore di flessibilità (verso il basso) di salari e condizioni lavorative. Così come il ricatto dell'esternalizzazione agisce sui lavoratori dell'impresa-madre.

Inoltre, non bisogna dimenticare che i lavoratori della piccola impresa - e a maggior ragione il discorso vale per il cosidetto lavoro "autonomo" e per il lavoro in cooperativa - hanno sempre goduto di garanzie molto limitate rispetto ai lavoratori della grande impresa. L'esternalizzazione si configura, quindi, anche come escamotage per aggirare le residue garanzie che le attuali normative attribuiscono ad alcune categorie di lavoratori.

Bisogna osservare, a questo proposito, che i processi di esternalizzazione investono anche i servizi alla persona un tempo garantiti dal welfare. Lo Stato e le sue articolazioni, infatti, tendono sempre più ad appaltare tali servizi a privati, e in particolare alle cosiddette cooperative o imprese "sociali". In questo modo lo Stato, ossia il capitalista collettivo, può scaricare crescentemente il costo di questi servizi tanto sugli "utenti" del servizio - in termini di qualità e di prezzo - tanto sulla forza-lavoro impiegata: una forza-lavoro totalmente precarizzata e pressoché privata di ogni garanzia. Si può dire, in sostanza, che la cooperativa funziona qui come intermediatore di lavoro tra lo Stato e il socio-lavoratore, proprio come avveniva (e avviene) nel sistema del caporalato.

Si deve infine notare come i processi di esternalizzazione determinino un certo dualismo all'interno del mercato del lavoro, che vede, da una parte, un bacino di forza-lavoro super-flessibile e precaria, priva delle più elementari garanzie, cui attingono le piccole e medie imprese dell'indotto; e, dall'altra parte, una forza-lavoro maggiormente "garantita", impiegata nell'impresa-madre, che tuttavia subisce una crescente flessibilizzazione e precarizzazione. Si vede qui come, in Italia, il "modello giapponese" non si sia in realtà completamente affermato. Se in questo modello, infatti, l'indotto è caratterizzato da una forza-lavoro estremamente precaria e flessibile e subisce continue espansioni e contrazioni a seconda delle esigenze della produzione, ai lavoratori della impresa-madre vengono garantiti una certa stabilità di impiego e salari più elevati.

Non si deve comunque credere che questo modello di organizzazione della produzione, incentrato sul decentramento e sul just in time, sia "blindato" rispetto al conflitto. Anzi, esso appare gravido di contraddizioni. Ci riferiamo qui, in particolare, al manifestarsi di "punti critici" e di elementi di fragilità all'interno di un sistema che, sopprimendo le peculiari rigidità del fordismo-taylorismo e dell'operaio-massa, avrebbe dovuto, secondo alcuni autori, ridurre ad un minimo la conflittualità e l'impatto delle lotte all'interno del processo di produzione. L'insorgere di una conflittualità anche limitata, localizzata in alcuni punti strategici e capace di bloccare i flussi di merci/informazioni che in questi punti si incrociano, è in grado oggi di inceppare l'intero ciclo produttivo di un'impresa 8.

Non si deve dimenticare, infine, come - in controtendenza rispetto al diffondersi del modello "a rete" - si stiano verificando, anche in Italia, veri e propri fenomeni di ricentralizzazione del processo produttivo 9. Riguardo a questo punto, d'altra parte, poichè la documentazione è ancora piuttosto scarsa, si richiede senz'altro un ulteriore approfondimento, al fine di cogliere la reale portata del fenomeno e di fornirne una interpretazione soddisfacente.

2.4. La flessibilità del lavoro

Ad una "flessibilità tecnologica", relativa ai processi di esternalizzazione e decentramento produttivo e all'adozione di modelli di organizzazione del lavoro meno "rigidi" all'interno della grande fabbrica, corrisponde un processo di flessibilizzazione della forza-lavoro. Quest'ultimo si configura innanzitutto come attacco alle condizioni salariali e lavorative della classe operaia e come tentativo di rendere la forza-lavoro completamente subordinata alle esigenze d'impresa. Tale attacco viene condotto principalmente sul piano giuridico del diritto del lavoro e dei modelli contrattuali. Possiamo qui distinguere quattro diversi aspetti della flessibilità del lavoro:

a) flessibilità del mercato del lavoro: si tratta, in primo luogo, dell'introduzione di forme contrattuali "atipiche" (contratti a termine, apprendistato, formazione-lavoro etc.), che vanno a scardinare buona parte del sistema di garanzie di cui godeva il lavoratore della grande fabbrica in epoca fordista.

Innanzitutto l'attacco del capitale riguarda la stabilità dell'impiego. I cosiddetti contratti "atipici", che oggi riguardano la grande maggioranza delle nuove assunzioni, sono infatti contratti "a tempo determinato", che inducono una precarizzazione del rapporto di lavoro e rendono il lavoratore estremamente ricattabile: la disciplina sul posto di lavoro diviene la condizione necessaria, ma non sufficiente, affinchè il contratto di lavoro venga rinnovato una volta scaduto

D'altra parte, le forme contrattuali atipiche non costituiscono il risultato ultimo del processo di precarizzazione del lavoro, ma sono evidentemente soltanto un passaggio all'interno della tendenziale soppressione di ogni forma di contrattazione nazionale e collettiva, che include la piena libertà di licenziamento garantita alle imprese (si pensi, in Italia, al progetto di legge "Ichino").

Altre forme di lavoro precario sono anche il lavoro in cooperativa, cui già abbiamo accennato, e il cosiddetto lavoro interinale, o "lavoro in affitto". Quest'ultimo, un po' come nel caso delle cooperative di lavoro, prevede l'intermediazione di una agenzia tra il lavoratore e l'impresa che lo impiega. L'impiego può anche avere una durata brevissima. Da notare, inoltre, che è l'agenzia a corrispondere la retribuzione al lavoratore, per cui è essa a presentarsi come sua immediata controparte. In Italia, essendo appena stato introdotto, il lavoro interinale subisce, ad ogni modo, ancora alcune limitazioni (ad es. non può essere utilizzato in tutti i settori, non possono essere sostituiti lavoratori in sciopero con lavoratori "interinali" etc.). Si intravede in esso, comunque, una vera e propria legalizzazione del sistema del "caporalato".

Si deve infine accennare al cosiddetto lavoro autonomo di seconda generazione. In primo luogo va notato, come osserva Sergio Bologna 10, che i lavoratori inclusi in questa categoria non possiedono, in genere, alcuna autonomia sul mercato, in particolare quando i "contratti di collaborazione" prevedono che la committenza sia unica; i lavoratori "autonomi" pluricliente, d'altra parte, non sempre godono di maggiore autonomia, avendo spesso rapporti con un solo intermediario. In secondo luogo, le modalità e i tempi della produzione sono quasi sempre rigidamente determinati dall'impresa committente. Infine, in alcuni casi, è la stessa impresa a fornire al lavoratore il capitale necessario per l'acquisto di macchinari e attrezzature.

Buona parte di queste attività, al di là di ogni mistificazione giuridica, si configura dunque come «prosecuzione di un lavoro subordinato [salariato] in sito diverso dall'unità committente», ma «all'interno di un'organizzazione predeterminata del processo lavorativo» 11.

Infine - a dispetto di coloro che esaltano il lavoro "autonomo" come massima espressione di quell'attività creativa, comunicativa, richiedente skills, competenze, auto-imprenditorialità, di quell'attività libera, insomma, che dovrebbe caratterizzare il "post-fordismo" - è da notare che questa nuova forma di lavoro salariato è caratterizzata, oltre che da un fortissimo prolungamento della giornata lavorativa, nella gran parte dei casi dall'esecuzione di mansioni semplici del tutto simili a quelle un tempo peculiari dell'operaio di linea! 12.

b) flessibilità salariale: va intesa come superamento della rigidità salariale (verso il basso) che aveva caratterizzato l'operaio-massa. Gli strumenti della flessibilità salariale sono, ad esempio, i già citati "patti territoriali", le sostanziose riduzioni salariali previste da molti "contratti atipici", o l'agganciamento di una componente crescente del salario alla produttività individuale e alla redditività dell'impresa (è da notare come l'agganciamento dei salari alla produttività sia volto ad indurre l'identificazione dell'operaio con gli obiettivi d'impresa, ad elevarne cioè la produttività e la disciplina). Qui flessibilità è anche sinonimo di crescente frammentazione salariale, come risultato del tendenziale superamento della contrattazione nazionale collettiva.

c) flessibilità dell'orario: è il superamento di alcuni limiti a carattere temporale che i contratti, in epoca fordista, imponevano ai padroni nell'uso della forza-lavoro. Include, ad esempio, la reintroduzione massiccia dei turni notturni, l'introduzione del fine settimana lavorativo, le varie forme di lavoro part-time (orizzontale, verticale etc.), il calcolo dell'orario lavorativo su una media plurisettimanale (cosicché l'orario effettivo, in base alla normativa vigente, può variare dalle zero alle 78 ore settimanali). Il tempo di vita del lavoratore, di fatto, viene interamente subordinato alle esigenze della produzione e della valorizzazione del capitale!.

Quanto in particolare al part-time, bisogna notare come esso non comporti affatto una riduzione della giornata lavorativa sociale o una riduzione del saggio di sfruttamento. Alla riduzione dell'orario lavorativo si accompagna, infatti, una proporzionale riduzione del salario e, spesso, un incremento dei ritmi di lavoro (senza contare i numerosi incentivi governativi alle imprese, affinchè introducano sempre più massicciamente il lavoro part-time o, in generale, riducano l'orario di lavoro). E' ovvio, allora, che per mantenere livelli di reddito sufficienti, molti lavoratori sono indotti a cercare una seconda o terza occupazione, accrescendo in questo modo la competizione sul mercato del lavoro.

d) flessibilità delle mansioni: si tratta per lo più, nei settori in cui viene applicata, non già di una "ricomposizione delle mansioni" - che andrebbe a determinare una seppur parziale "riqualificazione" del lavoro - bensì di una semplice intensificazione del lavoro determinata dall'assegnazione di più mansioni parziali, semplici, standardizzate, ad uno stesso operaio.

Ma c'è di più. Se in alcuni settori produttivi l'adozione di nuovi modelli di organizzazione del lavoro (ad esempio i sistemi di montaggio modulari nell'industria automobilistica) consente una crescente flessibilità delle mansioni nel senso sopra indicato, vi sono invece settori in cui si è ben lungi dall'abbandonare il buon vecchio management scientifico di stampo taylorista. Come osserva Maria Turchetto, ad esempio, «in un nuovo settore chiave, quello dell'informatica, i vecchi principi del taylorismo sono ancora in auge [non solo] nella produzione di software (che pure potrebbe fornire ottimi esempi di taylorismo applicato al "lavoro intellettuale"), [ma anche nella] componentistica, industria strategica del settore» 13.

In sintesi, come effetto dei processi di flessibilizzazione della forza-lavoro, si assiste non solo ad un pesantissimo attacco ai salari e alla stabilità del lavoro, ma anche ad una ulteriore atomizzazione della forza-lavoro, che viene a distribuirsi lungo una gerarchia sempre più complessa di salari e condizioni lavorative, limitando in questo modo - nelle intenzioni del capitale - i meccanismi di solidarietà all'interno della classe e, con questi, il conflitto sociale.

Appendice: astrattizzazione e proletarizzazione del "lavoro intellettuale"

In Marx il lavoro astratto non è semplicemente una categoria analitica; esso identifica il carattere stesso del lavoro capitalistico: lavoro estraniato, imposto, degradato 14. «Il suo lavoro [dell'operaio] non è volontario, bensì forzato, è lavoro costrittivo. [...] non è quindi la soddisfazione di un bisogno, bensì è soltanto un mezzo per soddisfare dei bisogni esterni ad esso» 15.

Il concetto di "lavoro astratto" allude, inoltre, a quel processo di astrattizzazione del lavoro, che, da una parte, si riferisce alla crescente combinazione sociale e omogeneità del lavoro stesso, che diventa sempre più indifferente rispetto all'attività "utile", "concreta", e alle differenze merceologiche; dall'altra parte, si manifesta in una progressiva "degradazione" del lavoro, ossia nella tendenziale esclusione di ogni residuo di soggettività dal processo lavorativo 16.

Questi processi di "dequalificazione", o meglio di svalorizzazione della forza-lavoro, sono mediati dalla incorporazione dei saperi e delle abilità operaie - e tendenzialmente di ogni capacità umana - nel cervello sociale, nel cosidetto general intellect. Per general intellect, intendiamo, marxianamente, il «potere della scienza e della tecnica oggettivato nelle macchine», o, più in generale, la combinazione sociale del lavoro o cooperazione all'interno del processo produttivo. Ma in Marx, «la cooperazione degli operai salariati è un semplice effetto del capitale che li impiega simultaneamente: la connessione delle loro funzioni e la loro unità come corpo produttivo complessivo stanno al di fuori degli operai salariati, nel capitale che li riunisce e li tiene insieme. Quindi agli operai salariati la connessione fra i loro lavori si contrappone [...] come potenza di una volontà estranea che assoggetta al proprio fine la loro attività» 17. Non è tutto: «nella sua combinazione questo lavoro si presenta al servizio di una volontà estranea, e ne è diretto, giacché ha la sua unità spirituale al di fuori di esso, tanto quanto nella sua unità materiale è subordinato all'unità oggettiva delle macchine, del capitale fisso, che come mostro inanimato oggettivizza il pensiero scientifico [...] e non è esso come strumento a riferirsi all'operaio, ma è piuttosto l'operaio come singola puntualità animata, come isolato accessorio vivente, a esistere in funzione sua» 18. Oltre a presentarsi come forza produttiva del capitale, dunque, la combinazione sociale del lavoro è sempre mediata dal capitale fisso, dall'apparato macchinico, rispetto al quale il lavoratore si vede ridotto a mera appendice vivente.

D'altra parte, a scanso di ogni equivoco, è necessario osservare come, in realtà, il processo di esclusione della soggettività sia un processo contraddittorio: il capitale, la sua autovalorizzazione, non possono prescindere dal lavoro vivo; così come l'operaio, per quanto il suo lavoro risulti semplificato e svuotato, mantiene sempre la propria soggettività e non può essere ridotto a mero oggetto, a mero capitale. La contraddizione di classe sta tutta inscritta qui, nella possibilità sempre aperta del conflitto e dell'antagonismo proletario.

Le cose, ci pare, non cambiano affatto nell'epoca delle nuove tecnologie tele-informatiche: la combinazione sociale del lavoro, la scienza, la tecnologia, il sapere non assumono affatto un carattere "neutrale". Esse rimangono forze produttive del capitale: non solo nel senso che gli appartengono formalmente, ma anche nel senso che hanno in sé, sin dall'inizio, l'impronta del capitale, in quanto subordinate e finalizzate alla sua valorizzazione - non già alla liberazione dell'uomo dalla fatica e dall'alienazione del lavoro.

Il processo di astrattizzazione, allora, non riguarda soltanto il lavoro manuale; esso investe bensì ogni strato di forza-lavoro, inclusa quella "intellettuale". Non dovrebbe qui essere necessario ricordare che lo stesso Marx definisce il concetto di forza-lavoro senza porre distinzioni tra "lavoro materiale" e "lavoro immateriale": il dispendio di forza-lavoro non è altro che «dispendio di cervello, muscoli, nervi, mani etc. umani» 19. Dunque, la cosiddetta terziarizzazione, ovvero l'espansione del "lavoro intellettuale" fuori e dentro la produzione diretta produzione, coincide con l'astrattizzazione e la proletarizzazione di quest'ultimo

Ora, effettivamente, nei paesi a capitalismo avanzato, si può determinare l'illusione di una inversione di tendenza rispetto al processo di astrattizzazione. Tale illusione è dovuta, da una lato, alla progressiva espansione di un lavoro di tipo "intellettuale" (cioè prevalentemente mentale); e, dall'altro lato, almeno in certi settori, al grado ancora limitato - almeno rispetto al lavoro strettamente manuale - della sua socializzazione, ossia della sua sussunzione reale al capitale (applicazione dei metodi volti ad incrementare la produttività, ossia il plusvalore relativo: cooperazione, divisione del lavoro, macchine etc.).

L'illusione è accentuata dall'affermarsi di forme di lavoro in cui convergono caratteri sia del lavoro manuale sia del "lavoro intellettuale20. Si pensi, ad esempio, ai cosiddetti circoli di qualità presenti oggi in molte imprese. Lungi dallo scomparire, nell'ambito di queste forme di "partecipazione operaia", lo sfruttamento capitalistico si "sdoppia" e si estende alle stesse facoltà mentali dell'operaio. La soggettività del lavoratore viene sì coinvolta, ma, da un lato, tale coinvolgimento rimane sempre confinato entro i limiti di una "criticità debole21, compatibile con le esigenze della valorizzazione capitalistica; dall'altro lato questa soggettività "residuale" viene tendenzialmente sottoposta ad un processo di esclusione o, se si vuole, di incorporazione nel lavoro morto.

A questo proposito qualcuno ha correttamente parlato di "autonomia controllata". Nella fabbrica fordista si aveva una netta separazione tra l'ideazione, ossia l'elaborazione delle procedure di lavoro, prerogativa del management, e la loro esecuzione: «l'operaio non aveva nè possibilità nè capacità [...] di controllare e di modificare le procedure di lavoro, ma aveva un ampia possibilità di gestire l'esecuzione del lavoro» 22. Così, egli sviluppava tutta una serie di stratagemmi e di "segreti professionali", che andavano a costituire il cosidetto "sapere operaio"; un insieme di procedure informali di cui il lavoratore si serviva sia per ridurre i ritmi di lavoro e la fatica, sia per effettuare scambi con i capi intermedi e la direzione, sia per dare vita a vere e proprie forme di sabotaggio.

Nella fabbrica toyotista integrata, la "partecipazione operaia" alla definizione delle procedure si traduce nella sussunzione delle procedure informali e nella cessione al management, da parte operaia, dei saperi sviluppati nella fase di esecuzione (in cambio di premi in denaro o di altri "vantaggi"). D'altra parte l'autonomia dell'operaio nella fase di esecuzione viene ridotta al minimo, come conseguenza di un controllo sempre più rigido e capillare da parte della direzione 23.

In sintesi, dunque, la "detaylorizzazione" del lavoro di fabbrica, da una parte è riconducibile all'illusione determinata dalla sua crescente "intellettualizzazione"; dall'altra parte, invece, come si è visto, si riduce alla mera intensificazione del lavoro, ottenuta mediante l'accorpamento in un solo operaio di più mansioni semplici - il che non può assolutamente essere confuso con una complessificazione del lavoro stesso.

In definitiva, possiamo affermare che, lungi dal trovarci di fronte ad una "riqualificazione" (ri-soggettivazione) del lavoro di fabbrica o del lavoro sociale in genere, ad una richiesta di forza-lavoro in possesso di chissà quali «conoscenze superiori necessarie per la gestione delle nuove tecnologie» - così come gli apologeti più o meno ufficiali del capitalismo post-fordista vogliono far credere - stiamo bensì assistendo ad un fenomeno che attraversa l'intera storia del modo di produzione capitalistico, e che ora investe anche il cosiddetto "lavoro immateriale": razionalizzazione capitalistica dei saperi proletari come primo passo verso la loro la loro "macchinizzazione" 24 e la loro piena sussunzione nel general intellect!

Alla luce delle considerazioni sin qui svolte, ci pare sia opportuna una rilettura critica delle posizioni di quel filone teorico che si richiama alle tesi di Negri e che individua nel "lavoro immateriale" la forma di attività egemone caratteristica della cosiddetta epoca "post-fordista": un'attività di per sé non più alienata, coercitiva, eterodiretta bensì libera e autodeterminata. Rispetto ad essa il capitale si ridurrebbe a mero rapporto parassitario, a puro dominio politico: un autentico orco cattivo che, dall'esterno del processo di produzione, si appropria indebitamente della ricchezza creativamente prodotta dalle reti cooperanti dell'"intellettualità di massa", ossia dalla moltitudine dei lavoratori "autonomi", dei padroncini della piccola impresa e dei loro dipendenti.

Nell'introduzione al suo ultimo libro, André Gorz, che scegliamo a titolo puramente esemplificativo, sostiene che «ormai il capitalismo ha largamente dematerializzato le principali forze produttive: il lavoro (e non siamo che all'inizio di questo processo) e il capitale fisso. La forma più importante di capitale fisso è ormai il sapere accumulato e reso immediatamente disponibile dalle tecnologie dell'informazione, mentre la forma più importante di forza-lavoro è l'intelletto. Tra intelletto e capitale fisso [...] la frontiera è ora indefinita» 25.

Gorz afferma, in altri termini, che la storica scissione tra lavoratore e mezzo di produzione è tendenzialmente superata e che la combinazione sociale del lavoro si dà ormai spontaneamente, in forme autodeterminate, non più subordinate alla funzione organizzativa del capitale: «l'imprenditore capitalista vede le sue caratteristiche costitutive divenire puramente formali: in effetti egli esercita le sue funzioni di controllo e di sorveglianza dall'esterno del processo produttivo, poichè il contenuto del processo appartiene sempre più ad un altro modo di produzione, alla cooperazione sociale del lavoro immateriale» 26.

Rispetto a queste tesi, riassumendo quanto abbiamo già esposto in questo paragrafo, possiamo facilmente obiettare che:

a) Il "lavoro intellettuale" è oggi sempre più lavoro socializzato, combinato socialmente. E, come abbiamo visto, non solo è il capitale a determinare e comandare le relazioni di cooperazione, ma tali relazioni sono sempre mediate dal capitale fisso, dalle macchine. Che si tratti della vecchia catena di montaggio o delle nuove tecnologie tele-informatiche, da questo punto di vista non cambia nulla.

b) Come abbiamo accennato, il "lavoro intellettuale" - in quanto, dal punto di vista della valorizzazione capitalistica, non è che lavoro astratto - è investito oggi da quello stesso processo di sussunzione reale, di astrattizzazione e di degradazione, che il lavoro manuale ha subito negli ultimi due secoli.

Oggi il capitale è sempre più in grado di incorporare nel general intellect, nella cooperazione mediata dalle macchine, le stesse capacità intellettive e cognitive dell'uomo, cosicché anche il moderno "operaio mentale" diventa sempre più appendice dell'apparato tecnologico-organizzativo: il suo lavoro è sempre più lavoro alienato, semplificato, svuotato di ogni contenuto soggettivo. Se è vero che oggi il lavoro di fabbrica in senso classico viene in parte "detaylorizzato" - ma non per questo "riqualificato" - si assiste oggi ad una crescente taylorizzazione dello stesso "lavoro intellettuale" e scientifico 27.

Possiamo dire, in definitiva, che, alla trasformazione dell'operaio di mestiere in operaio-massa, corrisponde oggi la trasformazione del lavoro intellettuale tradizionale (includente tanto la figura dell'umanista incaricato di produrre e riprodurre l'ideologia dominante, quanto quella dello "scienziato") in quello che potremmo definire "lavoro mentale" 28. L'espansione di quest'ultimo, lungi dal poter essere identificata con una tendenziale "cetomedizzazione" della classe operaia, deve essere letta, al contrario, come processo di proletarizzazione del "lavoro intellettuale".

c) il carattere mistificatorio del brano di Gorz, come del resto dell'intero l'impianto teorico negriano, sta tutto nell'identificare - all'interno della componente immateriale della produzione sociale - la totalità delle informazioni e dei «saperi accumulati e resi immediatamente disponibili dalle tecnologie dell'informazione», con il mezzo di produzione/capitale fisso, anzichè - per utilizzare le categorie che vengono riferite solitamente alla produzione materiale - con la materia prima, con il semilavorato o con il prodotto.

Assumendo questa seconda prospettiva si può vedere come non venga affatto intaccata la vecchia distinzione tra lavoro vivo e lavoro morto, tra forza-lavoro e capitale fisso. Si può osservare, ad esempio, come il trattamento e la manipolazione delle informazioni - che costituisce la base del tanto esaltato "lavoro creativo e di innovazione" - sia sempre più funzione della cooperazione, ossia dell'apparato organizzativo-macchinico, e sempre meno del singolo lavoratore. Altro che creatività del lavoro immateriale! Il lavoratore individuale ha accesso ad una porzione sempre più limitata di informazioni e saperi e, seppure prevalentemente mentali, le sue mansioni sono sempre più standardizzate, semplificate, ripetitive.

d) Va osservato, infine, come la merce-informazione e la merce-sapere - che siano destinate al consumo individuale oppure a quello produttivo - non sono mai oggetti "neutrali", ma - come abbiamo osservato per le forze produttive in generale - sono sempre plasmate sulle esigenze della produzione e della valorizzazione capitalistica, e quindi anche del controllo politico della classe operaia.

Bologna, 31 maggio 1998.

FORMAZIONE E MERCATO DEL LAVORO

- NOTE PER UN'ANALISI DI CLASSE DELLA RISTRUTTURAZIONE DEI PROCESSI FORMATIVI -

1. Introduzione

La maggior parte delle analisi che sul tema della formazione il "movimento" ha prodotto negli ultimi anni, sono contraddistinte - nel loro stesso approccio teorico - da due forti limiti. In primo luogo, infatti, esse tendono a focalizzare l'attenzione quasi esclusivamente sull'aspetto dei costi di riproduzione e - considerando la spesa statale per l'istruzione come mera "spesa di reddito keynesiana" volta a sostenere la domanda aggregata - finiscono per leggere i processi di ristrutturazione che investono la scuola e l'università meramente in termini di razionalizzazione e abbattimento della spesa sociale, nel quadro di un complessivo attacco al salario e al reddito proletari. In secondo luogo, le trasformazioni che gli ambiti formativi hanno subito e subiscono sul piano dei contenuti e delle forme della didattica, dell'organizzazione etc., vengono letti come mera funzionalizzazione e adeguamento alle esigenze delle imprese, laddove tali esigenze vengono identificate con una crescente domanda - a sua volta determinata dalla fine del paradigma fordista-taylorista - di una forza-lavoro intellettuale altamente "qualificata", in grado di gestire le nuove tecnologie tele-informatiche.

Altri individuano nella scuola e nell'università i luoghi privilegiati in cui si costituirebbe la cosiddetta intellettualità di massa, «quella intelligenza collettiva che lavora comunicando, che produce inventando, che innova attraverso le nuove tecnologie informatiche» 29 e che - nelle posizioni di alcuni autori - si porrebbe come soggetto produttivo cooperante, in modo tendenzialmente autonomo rispetto ad un capitale ridotto a puro dominio politico, rapporto parassitario, vincolo giuridico 30.

La maggior parte di queste letture trovano conseguentemente il proprio sbocco politico nella rivendicazione del cosidetto "diritto allo studio" o nella richiesta - rivolta all'istituzione formativa - di un non meglio precisato "sapere critico", che viene contrapposto alla crescente "mercificazione del sapere". Nel caso dei teorici dell'intellettualità di massa, invece, l'obiettivo strategico viene identificato nel cosidetto reddito di cittadinanza, inteso come riconoscimento del ruolo centrale che lo studente assumerebbe, in quanto produttore di ricchezza, dentro i flussi della produzione immateriale.

1. Ci pare che entrambe queste impostazioni siano contraddistinte da un sostanziale appiattimento sull'ideologia capitalistica e sulla sua rappresentazione mistificata del rapporto di classe. Volendo elaborare una lettura di classe del nesso tra produzione e riproduzione, tra formazione e capitale, è a nostro avviso imprescindibile tenere conto di due diversi aspetti che, ciascuna a modo suo, le analisi fin qui considerate eludono. Il rapporto di capitale implica sempre due elementi tra loro inscindibili: profitto e comando, "razionalizzazione" dei costi e disciplinamento della forza-lavoro.

Marx afferma esplicitamente che la produzione capitalistica non è semplicemente riproduzione (su scala allargata) di merci e di valore, ma è in primo luogo riproduzione del rapporto di capitale stesso, ossia delle condizioni sociali su cui si basa il sistema del lavoro salariato e l'estrazione del plusvalore 31. Ora, Marx, descrivendo una fase determinata dello sviluppo capitalistico - quella concorrenziale - identifica la riproduzione della classe operaia quasi esclusivamente con il consumo individuale del lavoratore, che costituisce un prodotto "spontaneo" del processo di accumulazione del capitale. Ma a partire dagli ultimi decenni dell'Ottocento, in seguito all'insorgenza della classe operaia e alla crescente forza d'impatto delle sue lotte - indotta a sua volta dai processi di socializzazione e massificazione del lavoro - in tutti i paesi industrializzati si determina un crescente intervento dello stato nella regolazione del ciclo della riproduzione capitalistica.

Questo "interventismo" statale sfocerà, dopo la crisi del 1929, nella costituzione di quello che è stato definito dagli operaisti degli anni sessanta, lo stato-piano keynesiano; con esso il capitalista collettivo estendere il "piano" - in cui secondo Marx si incarna il dispotismo, ossia il comando del capitale dentro la fabbrica - dai luoghi della produzione diretta ad altri ambiti della società 32. Compito dello Stato diveniva da un lato quello di regolare la distribuzione della ricchezza sociale, sulla base della regola aurea keynesiana della proporzionalità tra le grandezze economiche - salario e profitto; ossia sulla base di quel "patto sociale" che istituzionalizzava il rapporto tra lotte e sviluppo, imbrigliando il conflitto operaio entro i limiti della mera rivendicazione salariale e legando la crescita dei salari (nella loro forma diretta e indiretta) a quella della produttività. Dall'altro lato lo stato si incaricava di mantenere la stabilità del "patto keynesiano", sia attraverso un uso pianificato della crisi e della disoccupazione - garantito dal controllo diretto delle fonti del credito e di alcuni settori strategici dell'economia nazionale (in particolare delle grandi concentrazioni monopolistiche dell'industria pesante); sia attraverso una sistematica opera di gerarchizzazione e frammentazione della forza-lavoro, complementare a quella che il singolo capitalista realizzava all'interno della fabbrica (ad esempio attraverso un uso differenziato e differenziante del salario sociale).

2. Il sistema formativo non può naturalmente sfuggire a queste considerazioni, in quanto costituisce una delle articolazioni fondamentali dello stato-piano. Sin dall'inizio l'istruzione ha ricoperto infatti una ruolo fondamentale all'interno dei meccanismi di riproduzione della forza-lavoro, considerata tanto nel suo aspetto di riproduzione materiale, ossia di erogazione di reddito e trasmissione di competenze e abilità tecniche; quanto nel suo aspetto di riproduzione formale, intesa come riproduzione di comando, come disciplinamento e gerarchizzazione della forza-lavoro - creazione di un sistema complesso e stratificato di ruoli e identità sociali caratterizzati da una incondizionata disponibilità al lavoro e allo sfruttamento capitalistico.

Occorre precisare che per "disponibilità al lavoro" non si deve qui intendere una astratta disponibilità a vendere la propria capacità lavorativa sul mercato del lavoro 33: a questo fine, evidentemente, è più che sufficiente la coercizione implicita nella storica scissione tra forza-lavoro e mezzi di produzione, ossia nel ricatto del salario come unica fonte di accesso alla ricchezza sociale 34. Il concetto va piuttosto riferito alla disciplina e alla malleabilità rispetto alle esigenze d'impresa, che il comando capitalistico richiede alla forza-lavoro dentro il processo di produzione.

Va inoltre precisato che nell'ambito dei processi formativi la riproduzione formale della forza-lavoro non si limita alla trasmissione di particolari contenuti ideologici e valori, ma ne verifica praticamente l'interiorizzazione da parte dei soggetti e, su questa base, produce gerarchizzazione: «il dispotismo dell'università, allora, non è solo un "attributo culturale", ma scaturisce dalla natura stessa del "lavoro scolastico", dall'imposizione allo studente di un potere esterno, rappresentato dalle sofisticate tecniche della disciplina scolastica» 35.

In sintesi, l'istituzione formativa agisce direttamente plasmando i corpi e le menti degli individui, manipolando la soggettività del futuro lavoratore al fine di farne un soggetto disciplinato e disponibile al lavoro: «lo sviluppo della "scolarizzazione di massa" [...] rende sempre più necessari sistemi massificati, standardizzati ed uniformi sul piano nazionale, in grado di misurare, certificare "ufficialmente", che lo studente sia in possesso di un certo numero di conoscenze e di informazioni (spesso irrilevanti ai fini dello svolgimento del suo futuro lavoro), che lo studente abbia frequentato la scuola o l'università con profitto, cioè in modo disciplinato e continuativo; tale certificazione della sua "qualificazione sociale", permetterà poi allo studente di accedere, in base al tempo trascorso nelle strutture di istruzione e ai suoi risultati, ad un determinato grado della scala gerarchica del mercato del lavoro» 36.

Damiano Palano individua almeno tre caratteri dell'istituzione formativa connessi alla sua funzione disciplinare. In primo luogo una scomposizione e parcellizzazione delle conoscenze (comunque mai "neutrali"), volta a favorirne il controllo standardizzato. In secondo luogo la segmentazione dei processi formativi, e l'introduzione di «meccanismi di controllo intermedi, volti a premiare il "lavoro" continuativo e disciplinato dello scolaro e dell'universitario, e a sanzionarne con diversi tipi di pena i comportamenti illeciti» 37. Infine il meccanismo del voto, che svolge una evidente funzione di verifica degli effetti disciplinanti della struttura formativa: «una carriera studentesca e universitaria culminata in voti bassi è sinonimo, per le singole aziende, di scarsa "motivazione al lavoro", e perciò chi occupa i gradini più bassi della gerarchia studentesca, probabilmente andrà ad occupare posti non elevati nella gerarchia salariale» 38. Ciò implica anche il prodursi di comportamenti competitivi all'interno del corpo studentesco - soprattutto per quanto riguarda la formazione pre-universitaria - comportamenti che preludono alla competizione operaia e proletaria sul mercato del lavoro.

3. E' nel questo contesto della crisi dello Stato-piano che vanno indagate le cause della crisi dei meccanismi di riproduzione della forza-lavoro, che inizia a manifestarsi negli anni '70 e che si protrae fino ai giorni nostri. Ad una ristrutturazione produttiva volta a disarticolare la composizione di classe dell'operaio-massa, incentrata sull'automazione/informatizzazione del processo lavorativo 39, sul decentramento, sulla "terziarizzazione", sulla delocalizzazione nei paesi del sud del mondo, sulla precarizzazione del rapporto di lavoro, si accompagna - seppure talvolta in termini diacronici - una ristrutturazione altrettanto profonda dei processi di riproduzione della forza-lavoro e quindi delle stesse istituzioni formative. E se è vero che si è assistito, nel corso di quest'ultimo ventennio, ad un sostanziale ridimensionamento del ruolo dello stato, in particolare sul versante della redistribuzione della ricchezza sociale (leggi welfare), così come al trasferimento di una parte delle sue antiche prerogative ad organismi sovranazionali, è pur vero che esso mantiene importanti funzioni sul piano del controllo e della gestione della forza-lavoro, funzioni a cui evidentemente non è estraneo l'ambito della formazione (al quale, non a caso, governo, padroni e sindacati attribuiscono un ruolo assolutamente strategico).

Entriamo dunque nello specifico della questione. Nei paragrafi seguenti ripercorreremo brevemente le tappe storiche dello sviluppo del sistema scolastico italiano e cercheremo di individuare i principali fattori della crisi attuale. In un secondo momento, su questa base, proveremo a capire come e in quale direzione si stiano sviluppando i processi di ristrutturazione - in apparenza tutt'altro che lineari - che investono oggi gli ambiti della formazione. Ovviamente quanto segue non intende essere esaustivo: si tratta più che altro di spunti analitici che dovranno certamente essere ripresi, sviluppati e approfonditi.

2. Il sistema scolastico e universitario italiano: cenni storici

1. Fin dalle origini il sistema scolastico italiano presenta un carattere fortemente dualistico. Fino a tutti gli anni '50 si potevano distinguere, già dopo il ciclo delle elementari, due ordini di studi nettamente separati: l'uno destinato alla formazione delle classi dirigenti e riservato ai rampolli della borghesia (la scuola media, i licei, l'università); l'altro destinato alla "formazione professionale" dei figli della classe operaia e tutt'al più di una parte della piccola borghesia tradizionale (commercianti, impiegati etc.). In questo secondo ordine di studi la scolarità si manterrà d'altronde piuttosto bassa fino almeno al secondo dopoguerra.

In epoca fascista il dualismo del sistema scolastico italiano viene accentuandosi. Come osserva Renato Nichelatti, l'ideologia corporativa fascista «muoveva dal riconoscimento di una società statica, in cui i rapporti tra le classi e i gruppi sociali erano definiti una volta per tutte, senza che si avvertisse alcun bisogno di temperarne la brutalità col ricorso all'ideologia della mobilità verticale e dei talenti individuali. E su questi presupposti si fondò la scuola gentiliana: le masse contadine analfabete consegnate all'apparato cattolico di consenso, il proletariato urbano integrato attraverso la disciplina del mestiere, la scuola che formava e riproduceva l'élite dirigente e parte della piccola borghesia intermedia» 40.

In questo contesto l'università, in quanto luogo di riproduzione della classe dirigente, doveva formare non solo imprenditori, professionisti e alti funzionari della burocrazia statale, ma anche i quadri tecnici e amministrativi, necessari all'organizzazione dell'impresa fordista-taylorista. A questo livello dello sviluppo, d'altra parte, il lavoro intellettuale era caratterizzato da una «complessità delle prestazioni individuali ancora assai legate al "lavoro concreto"» 41 e godeva quindi di privilegi salariali e normativi che lo legavano indissolubilmente al blocco sociale del capitale.

L'università di élite era caratterizzata da una struttura articolata per facoltà, che rifletteva le differenze reali tra "professionalità" ancora legate al lavoro concreto - cioè al valore d'uso del prodotto-merce - le quali richiedevano una elevata quantità e complessità di competenze. A questo bisogna aggiungere poi l'importante ruolo delle facoltà umanistiche, adibite principalmente alla formazione degli insegnanti e punto di connessione tra l'università e il sistema scolastico complessivo.

Romano Alquati distingue tre fondamentali funzioni caratterizzanti l'università di élite. In primo luogo, come abbiamo appena visto, essa doveva avere una funzione "professionalizzante", che garantiva al quadro laureato un inserimento coerente all'interno dell'attività lavorativa. In secondo luogo, doveva fornire una cultura differenziale e dimostrativa, intesa come simbolo di status, estremamente importante nei rapporti extralavorativi. Infine doveva fornire gli strumenti ideologici e conoscitivi che non solo potevano consentire un inserimento nella dirigenza politico-amministrativa dello stato, ma che facevano in ogni caso del lavoratore intellettuale un importante medium della socializzazione del consenso e dell'ideologia capitalistica. Bisogna osservare, d'altronde, che tutte e tre queste funzioni erano contemporaneamente presenti all'interno della stessa formazione tecnico-scientifica, in quanto caratterizzata da un'impostazione ideologica tutta basata sulla razionalità e "neutralità" della scienza e della tecnologia 42.

2. A partire dai primi anni Sessanta, in Italia, l'articolazione tradizionale del sistema formativo entra palesemente in crisi e viene investita da una profonda trasformazione.

Nel 1962 viene istituita la Scuola media unica, che costituisce un primo passo verso il superamento del dualismo del sistema scolastico italiano. Un ulteriore passaggio in questa direzione si ha nel 1969, con la liberalizzazione degli accessi all'università, che estende la possibilità di iscrizione anche a coloro che provengono da istituti tecnici e professionali. Ciò che sottende a questi due provvedimenti è un rapido e generale aumento della scolarità, ossia quel fenomeno sociale che è stato definito scolarizzazione di massa.

La scolarizzazione di massa è il risultato di due diverse tendenze contraddittorie. La prima può essere individuata nella cosiddetta "strategia operaia di fuga dalla condizione proletaria", che individuava nelle istituzioni formative un fondamentale canale di promozione sociale, capace di garantire ai figli della classe operaia l'opportunità di sfuggire alla predestinazione del lavoro in fabbrica e di raggiungere livelli più elevati nella gerarchia salariale e sociale. Si trattava, in questo caso, di comportamenti individuali diffusi, che erano però accompagnati da una forte pressione delle lotte operaie, le quali avevano fatto del libero accesso all'istruzione uno dei propri obiettivi politici 43. L'istituzione della Scuola media unica, non a caso, coincide con la prima grande ripresa delle lotte operaie dopo il "boom economico" degli anni cinquanta. La liberalizzazione degli accessi all'università segue di un anno il Sessantotto degli studenti e avviene praticamente in coincidenza con l'"autunno caldo". Bisogna inoltre considerare che, dopo la caduta dei limiti formali alla scolarizzazione di massa, saranno ancora una volta le lotte operaie e studentesche ad abbattere gli ostacoli materiali che si frapponevano all'aumento della scolarità e a fare della scuola e dell'università due grandi erogatori di reddito all'interno della struttura complessiva dello stato-piano keynesiano. A questo, nel corso degli anni sessanta, si deve poi aggiungere la «trasmigrazione di una parte cospicua di piccola borghesia autonoma verso posizioni più sicure e promettenti, quali venivano ritenute quelle aperte a chi possedeva un titolo di studio superiore» 44.

La strategia della fuga dalla condizione operaia metteva potenzialmente in crisi i meccanismi di disciplinamento e gerarchizzazione della forza-lavoro impliciti nei processi formativi, una crisi che si accompagnava al rifiuto del lavoro e alla crescente insubordinazione operaia dentro la fabbrica. Se qui, infatti, le lotte dell'operaio-massa avevano indotto un parziale livellamento verso l'alto delle qualifiche, e quindi dei salari, lo stesso fenomeno poteva riprodursi a livello sociale, come prodotto della scolarizzazione di massa.

In un primo momento - ed è questo il secondo fattore determinante della scolarizzazione di massa - la risposta capitalistica a questi fenomeni si configura come tentativo di gestione e regolazione dall'alto dell'aumento della scolarità, che avrebbe dovuto costituire la base su cui avviare un processo di terziarizzazione del lavoro. Intendiamo per "terziarizzazione" l'immissione di grosse quote di forza-lavoro intellettuale all'interno della processo produttivo immediato e, in generale, l'espansione del lavoro intellettuale (servizi, pubblica amministrazione etc.). Tale processo assume un preciso significato politico, in quanto va inteso come tentativo capitalistico di costituire un "nuovo ceto medio" tecnico e impiegatizio, capace di surrogare le funzioni politico-ideologiche della piccola borghesia tradizionale; una massa di manovra reazionaria da utilizzare in funzione anti-operaia, al fine di garantire la stabilità del "compromesso keynesiano".

La strategia della "terziarizzazione", che coinvolge tutti i paesi a capitalismo avanzato, va naturalmente contestualizzata all'interno delle condizioni storiche determinate e del dualismo peculiare che caratterizzano lo sviluppo capitalistico in Italia: se infatti al Nord grandi masse di forza-lavoro intellettuale vengono immesse direttamente nel ciclo produttivo e nell'organizzazione d'impresa sotto forma di lavoro impiegatizio oppure come «strato medio di intelligenza tecnica [con status e reddito privilegiati] che, nell'intreccio sempre più indistricabile tra scienza, tecnica e dominio, svolge funzioni di legittimazione del rapporto di classe su basi tecnico-scientifiche e di mantenimento di stereotipi ideologici di mobilità verticale» 45; al Sud, invece, l'espansione del lavoro intellettuale si configura per lo più come espansione, spesso mediata da criteri clientelari, di settori tradizionali (insegnamento, pubblica amministrazione, libere professioni) 46.

In questo contesto l'università si configura fondamentalmente come "università di ceto medio" 47, nelle cui aule, accanto alla classe dirigente, si riproducono gli strati più elevati di questa nuova forza-lavoro intellettuale in via di proletarizzazione - per lo più ancora di estrazione borghese e piccolo-borghese. D'altra parte, come nota Alquati, bisogna tenere conto anche di un'altra ipotesi, e cioè del fatto che, «come fino a ieri si sono chiamati, man mano, "tecnici", privilegiandoli e separandoli dagli altri, lavoratori che venivano a trovarsi in nodi particolarmente delicati della valorizzazione, così questa può essere ancora la funzione discriminante, all'interno della forza-lavoro, dell'università» 48.

Bisogna infine notare, a proposito di scolarizzazione di massa, che proprio in questi anni si diffondono le prime teorie sul "capitale umano", cioè sulla formazione di forza-lavoro "qualificata" come fattore essenziale dello sviluppo economico. Queste teorie, come nota Palano, si presentano più che altro come una giustificazione a posteriori di uno sviluppo reale, e assolvono ad una funzione del tutto ideologica: quella di mistificare il tendenziale svuotamento della preparazione universitaria, complementare, come vedremo, ai processi di svalorizzazione della forza-lavoro che si stavano verificando all'interno del processo lavorativo.

3. Le cause della attuale crisi delle istituzioni formative

1. Il fallimento del progetto capitalistico incentrato sulla terziarizzazione costituisce uno dei principali fattori dell'attuale crisi delle istituzioni formative. Le cause del fallimento della strategia capitalistica vanno ancora una volta ricercate all'interno del rapporto di classe: da una parte la resistenza alla "terziarizzazione" opposta da una classe operaia in grado di sviluppare, per tutti gli anni settanta e nonostante la crisi, un'efficace lotta in difesa dei livelli occupazionali; dall'altra parte l'elevato grado di conflittualità all'interno delle fabbriche che costringeva il capitale, in un ultimo disperato tentativo di stabilizzazione del "patto keynesiano", a gestire riformisticamente le lotte delle "tute blu", attaccando i privilegi di tecnici e impiegati per fare concessioni agli operai.

I processi di razionalizzazione e meccanizzazione, e quindi di svalorizzazione e astrattizzazione del lavoro vivo, investono così, a partire dalla fine degli anni '60, lo stesso "lavoro terziario". Il lavoro intellettuale diventa sempre più lavoro massificato, semplificato, ripetitivo, subalterno al macchinario informatizzato, tendenzialmente svuotato di ogni contenuto soggettivo 49. Nel corso degli anni settanta, terziarizzazione diviene sinonimo di proletarizzazione - sussunzione reale del lavoro intellettuale al lavoro astratto uguale.

Questi processi non potevano non produrre, all'interno del nuovo ceto medio in proletarizzato, una grave crisi di consenso. Sotto il pesante attacco della ristrutturazione capitalistica, tecnici, impiegati, addetti ai servizi etc., cominciarono a percepire sè stessi non più come soggetti privilegiati, parte integrante della classe dominante, bensì sempre più come proletari. Essi poterono così esprimere momenti di elevata conflittualità a carattere non corporativo, cioè accompagnati da una parziale ricomposizione con le lotte della classe operaia di fabbrica. Quando, anzi, nella seconda metà degli anni settanta l'operaio-massa incomincerà ad accusare l'impatto della ristrutturazione produttiva, saranno in parte proprio questi nuovi soggetti proletari a mantenere alto il livello dello scontro di classe nel nostro paese.

Questa crisi di consenso poneva evidentemente in crisi il ruolo stesso che negli anni sessanta la pianificazione capitalistica aveva attribuito ai processi formativi.

2. La crisi del sistema formativo era aggravata dalla sempre più palese impossibilità di una regolazione dall'alto dei processi di scolarizzazione di massa. Le lotte studentesche e operaie avevano consentito e consentivano un crescente afflusso ai gradi più elevati del sistema formativo; e quest'ultimo, di conseguenza, perdeva ulteriormente la sua capacità di legittimazione della gerarchia salariale (inclusa la fondamentale divisione occupati/disoccupati).

Questa relativa autonomia dell'offerta era anche all'origine di quella che veniva definita la crisi del mercato del lavoro. L'impossibilità di assorbire la crescente massa di forza-lavoro intellettuale all'interno del processo produttivo, infatti, faceva sempre più della scuola e dell'università, i luoghi in cui si costituiva una forza-lavoro disoccupata o precaria.

E' in questo contesto che, negli anni '70, si afferma la figura dello studente proletario. Con questo termine non intendiamo soltanto riferirci all'estrazione sociale di questo soggetto - che proviene in parte da famiglie operaie, in parte da una piccola borghesia messa ormai definitivamente in crisi dai processi di sussunzione reale. Nè ci riferiamo esclusivamente al suo ruolo di forza-lavoro in formazione, di forza-lavoro potenziale. Il termine indica la condizione immediatamente proletaria di soggetti già occupati, in modo più o meno stabile, o comunque in cerca di occupazione. Insomma, la popolazione studentesca, anche universitaria, in questi anni è composta in buona parte da studenti-lavoratori, studenti-precari e studenti-disoccupati, la cui condizione va considerata assolutamente interna al cosiddetto proletariato "non garantito".

La scuola e l'università assumono, in questo quadro, «un ruolo politico sempre più significativo nell'esigenza capitalistica di disporre di forza-lavoro dotata di mobilità, cioè di un proletariato marginale che consenta elasticità dell'offerta di lavoro» 50, condizione dalla quale la ristrutturazione del sistema produttivo, tutta incentrata sul decentramento e sulla terziarizzazione, non poteva prescindere. I processi formativi devono dunque produrre una forza-lavoro dotata, allo stesso tempo, di competenze generiche e di grande flessibilità e capacità di adattamento alla variabilità delle mansioni.

Complementare a questi processi è evidentemente una forte svalutazione del titolo di studio: «gli imprenditori, vista la maggiore disponibilità di diplomati [...], hanno cominciato ad usare il diploma come strumento selettivo, cercando spesso persone con livelli di istruzione più elevati anche se il lavoro non è divenuto più complesso» 51.

3. La condizione di proletario andava naturalmente ad incidere sulle caratteristiche della soggettività studentesca, determinando un profondo mutamento rispetto ai comportamenti e ai bisogni che i protagonisti del '68 avevano espresso nelle loro lotte (antiautoritarismo, rifiuto del sapere borghese, istruzione di massa etc.). Si afferma, in questa fase, una domanda immediata o latente di sapere, principalmente volta all'applicazione nella pratica politica e alla trasformazione della realtà sociale 52.

Non potendo essere questa domanda soddisfatta dall'istituzione formativa, d'altra parte, emerge in questi anni, anche sulla base delle conquiste sessantottesche (ad es. l'abolizione della frequenza obbligatoria), una radicale estraneità dello studente rispetto ai contenuti dello studio: la soggettività studentesca si caratterizza, in questa fase, per la «sopravvivenza di un rapporto meramente formale con l'istituzione, semplicemente intesa come "fabbrica di diplomi"» 53. Questa connotazione della composizione politica studentesca era naturalmente accentuata dalle difficoltà oggettive di mantenere un rapporto più organico con l'istituzione, connesse a quella "condizione immediatamente proletaria" dello studente di cui abbiamo detto. Talvolta, inoltre, sono l'università e la scuola stesse a costituire i luoghi in cui si concretizzano i processi di socializzazione e organizzazione delle lotte all'interno del territorio. Il capitale si trova qui di fronte ad una vera e propria fuga dall'istituzione formativa!

E' evidente, in questo contesto, che le lotte degli studenti sono strettamente subordinate alle lotte sul territorio, all'interno dell'articolazione diffusa della produzione: lo studente proletario definisce la propria soggettività in primo luogo in relazione alla sua condizione di lavoratore precario o di disoccupato e, solo in seconda istanza, a quella di studente. Ciò nondimeno questo dirompente processo di descolarizzazione pone definitivamente in crisi la tradizionale separatezza degli ambiti formativi rispetto al processo produttivo; quella separatezza che, fino agli anni sessanta, aveva costituito la esclusiva modalità di funzionamento dei meccanismi di disciplinamento e gerarchizzazione immanenti ai processi di formazione della forza-lavoro.

4. La ristrutturazione dei processi formativi

Le proposte di riforma della scuola e dell'università elaborate nel corso degli anni '70 dalle varie forze politiche istituzionali - per lo più modellate sulle riforme attuate negli altri paesi a capitalismo avanzato - contengono già le principali linee di sviluppo dei processi di ristrutturazione cui oggi stiamo assistendo. E' quasi sorprendente leggere le pagine in cui Roberta Tomassini, alla metà degli anni '70, analizzava i progetti di riforma del Pci. Qui venivano infatti valutate ipotesi quali il potenziamento del carattere professionalizzante dell'istruzione, l'adeguamento delle strutture formative alle esigenze del territorio, l'introduzione del numero chiuso e di livelli differenziati di titolo di studio nell'ordinamento universitario, la formazione permanente etc. 54.

Negli anni '80 i processi di ristrutturazione del sistema formativo hanno subito, nel nostro paese, notevoli rallentamenti, dovuti tanto all'opposizione dei movimenti studenteschi - per lo più sviluppatisi intorno al tema del "diritto allo studio" e della difesa della scuola di massa - quanto alle resistenze opposte dalla casta baronale e dalle sue clientele. Oggi, d'altra parte, questi ostacoli sembrano essere superati e la ristrutturazione procede a ritmi sempre più serrati, anche se non sempre segue percorsi lineari e si configura più che altro come una costellazione frammentaria di provvedimenti che, ad un primo impatto, sembra difficile ricondurre ad un disegno unitario. Vediamo dunque alcuni punti e alcune questioni che in seguito sarà necessario approfondire.

1. Una prima considerazione riguarda il lato materiale della riproduzione della forza-lavoro, ossia i contenuti determinati dei processi formativi.

Tutti i provvedimenti e i documenti istituzionali si caratterizzano per la grande enfasi posta sugli aspetti organizzativi e formali del sistema formativo, mentre si riscontra un quasi totale disinteresse per i contenuti della didattica - se si esclude una vaga critica al nozionismo e ai ricorrenti accenni alle procedure problem solving e alla centralità dei metodi di apprendimento.

Questo disinteresse risulta ovvio se si considerano i processi di svalorizzazione e astrattizzazione del lavoro vivo che accompagnano lo sviluppo capitalistico delle forze produttive. Ci troviamo infatti di fronte ad una forza-lavoro tendenzialmente omogenea, che si caratterizza per un'attività sempre più semplificata, banalizzata, svuotata dei suoi contenuti soggettivi. Conseguentemente, come abbiamo già accennato, il sistema produttivo richiede in primo luogo alle istituzioni formative una forza-lavoro dotata di competenze generiche e di grande flessibilità e mobilità.

La formazione inerente il ruolo specifico che il singolo lavoratore occuperà di volta in volta all'interno del processo produttivo è per lo più demandata all'impresa in cui egli verrà occupato. Di qui anche l'enfasi sullo sviluppo delle capacità d'apprendimento e sul problem solving 55. D'altronde, gli stessi processi di qualificazione all'interno dell'impresa, risultano crescentemente banalizzati e svuotati: «il concetto stesso di qualificazione - osserva Braverman - si degrada insieme con il lavoro, e la pietra di paragone rispetto alla quale essa viene misurata, precipita ad un tale livello che oggi il lavoratore è ritenuto in possesso di una qualifica se la sua mansione richiede un addestramento di qualche giorno o di poche settimane» 56.

Ci sembra d'altra parte necessario indagare più a fondo, per ciò che riguarda la formazione specifica del lavoratore (propriamente l'addestramento), il ruolo svolto dalle strutture formative. All'interno di queste ultime, sempre più legate alle esigenze del territorio, va infatti assumendo un peso sempre maggiore la stessa esperienza lavorativa. Se, ad esempio, è vero che gli stages garantiscono alle imprese l'utilizzo di una forza-lavoro a bassissimo costo, è altrettanto vero che, in alcuni casi, potrebbero costituire per l'impresa che utilizza studenti "stagisti", un valido criterio di assunzione, che permetterebbe oltretutto di scaricare i costi dell'addestramento sulle casse dello stato.

Allo stato di cose che abbiamo qui delineato, esistono ovviamente delle eccezioni. Gli strati più elevati della forza-lavoro intellettuale, aventi funzioni di management, di coordinamento e di organizzazione all'interno dell'impresa diffusa o della pubblica amministrazione, sono caratterizzati da una vastità e complessità di conoscenze decisamente superiore rispetto a quelle competenze generiche che vengono richieste alla grande massa della forza-lavoro. Qui i processi di sussunzione reale e di proletarizzazione non sono arrivati e a questi lavoratori vengono richieste capacità critiche e decisionali notevolmente superiori alla media 57. Questo costituisce un ulteriore spunto di riflessione: si tratta di chiarire attraverso quali canali formativi si riproduca questa particolare forza-lavoro.

Per quanto riguarda nello specifico l'università, la sussunzione del lavoro sociale al lavoro astratto, induce evidentemente una crisi della tradizionale struttura per facoltà, struttura ricalcata sulla distinzione tra i diversi settori merceologici e tra le forme di lavoro "utile", "concreto", ad essi legate. Fino ad oggi, tuttavia, questa struttura è sopravvissuta, nonostante siano in buona parte mutate le sue funzioni. Come osserva Alquati, «certe professioni che sono rimaste etichette vuote sono assai domandate dal mercato e dalle imprese; ma non perchè si domandi davvero la professionalità relativa, ma perchè si sa che nella Facoltà dove la si dava, si produceva, e si attua tuttora, una didattica repressiva, autoritaria, ideologica» 58.

D'altra parte, l'istituzione dei dipartimenti, che risale alla metà degli anni '70, e oggi l'impianto del progetto di riforma dell'università, denotano una esplicita tendenza al superamento della struttura universitaria tradizionale. Si pensi, ad esempio, alla prevista istituzione di un anno iniziale «trasversale rispetto alle attuali facoltà» e all'introduzione di un c.u.b. (certificato universitario di base) «non finalizzato ad una specifica professionalità [...e] comune a una pluralità di Lauree ed eventualmente di Diplomi universitari» 59.

Riguardo ai contenuti determinati della formazione universitaria, un ultimo spunto di analisi ci viene dal solito Alquati; uno spunto che potrebbe costituire un primo indizio per l'individuazione dei canali attraverso i quali si organizza la formazione degli strati più elevati della forza-lavoro intellettuale, non ancora investiti dai processi di sussunzione reale. Esso riguarda il crescente peso che in tutte le facoltà, a partire dagli '70, hanno assunto le cosiddette scienze sociali 60. Si tratta qui della formazione di "profili professionali" dotati di «capacità di analizzare criticamente i processi sociali [...], in modo da saper gestire ed organizzare un'attività di direzione di questi processi verso obiettivi più o meno scelti» 61. E ciò nella misura in cui il "primato" del lavoro vivo e la necessità del suo controllo, fanno sì che la ristrutturazione produttiva si configuri in primo luogo come trasformazione organizzativa, imposizione di una nuova forma di cooperazione, a cui l'innovazione tecnologica e di prodotto sono interamente subordinate. Ma si tratta anche di funzioni legate al "governo del territorio", ossia agli ambiti della riproduzione, in cui svolgono sempre più un ruolo fondamentale le varie istituzioni territoriali (Enti locali, associazioni di imprenditori, sindacati, istituzioni formative etc.).

D'altra parte, osserva Alquati, oggi «l'organizzazione, questa forza produttiva centrale, è prodotta a sua volta come un oggetto: è [...] prodotta industrialmente, al punto che le forme del processo lavorativo in cui si produce l'organizzazione sono a loro volta le stesse di tutti gli altri processi produttivi industrializzati» 62; ciò che vale in generale per la produzione di tutte le altre forze produttive (la scienza, la tecnologia etc.). Questo significa che ampi strati di lavoro intellettuale impiegati nella produzione di organizzazione, nella ricerca scientifica pura e applicata, nello sviluppo delle tecnologie, svolgono sempre di più una attività lavorativa "in generale", sussunta al lavoro astratto. La questione va ovviamente approfondita.

Per concludere, sulla base delle osservazioni qui sopra sviluppate, si deve porre l'accento sulla crescente integrazione tra produzione e riproduzione della forza-lavoro: molti momenti della formazione vengono infatti a sovrapporsi e a coincidere con la produzione di plusvalore. Si pensi non solo all'apprendistato e ai contratti di formazione, ma anche ai già citati stages, ai tirocini, al lavoro di ricerca svolto o meno all'interno alle strutture accademiche (studenti, assistenti, ricercatori etc.). Da qui anche un prima lettura dell'autonomia didattica e amministrativa, intesa come strumento attraverso il quale consolidare il legame con il territorio, ovvero con le imprese e le istituzioni politico-amministrative che qui operano. Si tratta ovviamente di indagare più a fondo come e attraverso quali meccanismi si articoli il rapporto tra istituzioni formative, sistema produttivo e apparato amministrativo, sia per quanto riguarda la fornitura di forza-lavoro più o meno generica (agenzie "interfaccia" etc.), sia per quanto riguarda la ricerca e i cosiddetti trasferimenti tecnologici (fondazioni, poli tecnologici etc.).

2. I processi di svalorizzazione e astrattizzazione del lavoro, il costituirsi di una forza-lavoro tendenzialmente omogenea e allo stesso tempo estremamente mobile e flessibile, implicano, per il capitale, la necessità di mistificare questi stessi processi producendo e legittimando una crescente stratificazione della forza-lavoro complessiva.

Nella misura in cui il valore di scambio della forza-lavoro si autonomizza rispetto al suo valore d'uso, nella misura in cui cioè tutto il lavoro diventa tendenzialmente lavoro astratto, l'ideologia della qualificazione e il lato formale della riproduzione assumono un ruolo centrale e preponderante sul terreno della legittimazione della gerarchia salariale. La tendenza, d'altra parte, non deve essere assolutizzata. Come già abbiamo osservato, esiste, per quanto ristretto, uno strato di lavoratori intellettuali con funzioni direzionali e organizzative, non ancora coinvolto nei processi di sussunzione reale. Nella formazione di questi lavoratori l'aspetto materiale della riproduzione, ossia la trasmissione di competenze complesse che verranno effettivamente spese nell'attività lavorativa, mantiene tutta la sua importanza.

Nei provvedimenti attuati in questi ultimi anni e nei progetti di riforma che sono allo studio del governo, si possono riscontrare gli indizi di questa centralità della riproduzione formale. La richiesta di una forza-lavoro generica, mobile, flessibile, disciplinata, emerge, in modo più o meno velato, in tutti i i documenti istituzionali. In alcuni di essi si arriva a riconoscere, come processo positivo comune a tutti i paesi più sviluppati, una progressiva svalutazione e semplificazione dei contenuti della formazione, anche ai livelli superiori 63.

a) La centralità della formazione come "educazione al lavoro" è confermata non solo, come abbiamo sottolineato, dal pressoché totale disinteresse per i contenuti determinati della formazione, ma anche da altri fondamentali nodi del progetto complessivo di ristrutturazione. In primo luogo si deve accennare al principio della contrattualità che, secondo i redattori della riforma dell'università, dovrebbe in futuro informare il rapporto studente-ateneo, rendendolo così sempre più simile - almeno sul piano formale-giuridico - a quello tra il lavoratore e l'impresa. L'interiorizzazione delle leggi del mercato esce così dai confini della sfera dell'ideologia e si estende alla prassi quotidiana del rapporto con l'istituzione formativa.

Tra i nodi centrali della riforma, in secondo luogo, va ricordata l'introduzione dei crediti formativi, per il momento previsti soltanto per gli studi universitari, ma tendenzialmente applicabili all'intero sistema dell'istruzione. I "crediti" vengono concepiti come «valori numerici (tra 1 e 60) associati alle unità di corso per descrivere il carico di lavoro richiesto a studentesse e studenti per completarle [...] comprese le lezioni, il lavoro sperimentale e pratico, i seminari, i tutorial, gli elaborati, i tirocini, gli stages, lo studio individuale, le tesi, gli esami e le altre attività di valutazione» 64. L'enfasi sul carico di lavoro - più che su una qualche "qualità della conoscenza" - come misura della valutazione, oltre alla grande importanza attribuita agli stages, ai tirocini e al carattere "professionalizzante" della formazione, tradiscono ancora una volta il ruolo decisivo delle istituzioni formative come funzione di disciplinamento della forza-lavoro, ossia come produzione di "disponibilità al lavoro65.

Ma oggi disponibilità al lavoro significa innanzitutto disponibilità ad un lavoro precario e flessibile. La parola d'ordine della flessibilità costituisce conseguentemente uno dei cardini della riforma complessiva del sistema scolastico e universitario. Tanto l'introduzione dei "crediti" a livello universitario, quanto il riordino dei cicli scolastici, consentono, a tutti i livelli del percorso di studi, il passaggio continuo da un indirizzo ad un altro, da un istituzione formativa ad un altra, producendo in questo modo una "naturale" predisposizione alla precarietà e alla flessibilità.

b) Tra le linee fondamentali della ristrutturazione dei processi formativi, possiamo rilevare un rafforzamento dei meccanismi disciplinari propri dell'istituzione formativa, che costituisce in un certo senso una restaurazione rispetto agli spazi di relativa autonomia apertisi con le lotte del '68 e ai comportamenti di rifiuto che, sfruttando questi spazi, la soggettività studentesca degli anni '70 aveva saputo esprimere (ma, sia ben chiaro, non vogliamo teorizzare alcun "ritorno al passato").

Il rafforzamento dei meccanismi disciplinari si sostanzia in una serie di politiche più o meno striscianti - attinenti tanto alla didattica quanto alla condizione di reddito dello studente - che determinano in primo luogo una accresciuta selettività delle istituzioni formative. Tra queste politiche, per quanto riguarda l'università, si possono sicuramente annoverare l'estensione della frequenza obbligatoria, l'aumento delle propedeuticità, la semestralizzazione dei corsi, l'irrigidimento dei programmi d'esame, l'incremento delle tasse, i tagli ai servizi, l'introduzione di criteri quasi esclusivamente meritocratici per l'assegnazione di borse di studio e di altre forme di assistenza etc.

Il discorso sulla selezione verrà ripreso nel prossimo punto. Qui ci basti notare che, quanto ai provvedimenti più legati a fattori di reddito e "di classe", se essi rientrano senza dubbio in una logica di "razionalizzazione" della spesa e di riduzione dei costi di riproduzione, bisogna tenere conto anche degli effetti decisivi che essi producono sul piano del disciplinamento della forza-lavoro in formazione. In generale, se la formazione implica costi molto elevati - e qui ovviamente entrano in gioco anche le sue condizioni di reddito - lo studente cercherà in tutti i modi di accelerare i tempi del conseguimento del titolo di studio: «la consapevolezza di pagare quote significative dei costi di [ri]produzione sembra avere straordinari effetti incentivi sull'applicazione agli studi dello studente» 66.

Non è un caso se la riduzione della durata media degli studi universitari (che oggi ammonta a circa 7 anni) costituisce un obiettivo esplicito e "qualificante" della riforma. Si deve notare, a questo proposito, come il "sistema di valutazione nazionale" che accompagnerà l'applicazione del principio dell'autonomia didattica e della "differenziazione competitiva" tra gli atenei, dovrà fare riferimento quasi essenzialmente a parametri di efficienza (numero di laureati in relazione al numero degli iscritti in un certo numero di anni). E sempre in relazione a queste considerazioni, deve far pensare il fatto che i due più importanti criteri sulla base dei quali le imprese effettuano oggi le assunzioni di laureati sono l'età anagrafica e l'ateneo di provenienza.

c) L'accresciuta selettività, oltre al rafforzamento dei meccanismi disciplinari operanti all'interno della singola istituzione formativa, risponde anche ad un altra esigenza. Le lotte operaie e studentesche degli anni '60-'70, come si è visto, avevano portato ad un aumento incontrollato della scolarità, "intasando" i canali formativi fino ai livelli più alti e neutralizzando così, in parte, la capacità dei processi formativi di legittimare la gerarchia dei salari. Oggi, per il capitale, si tratta di recuperare la formazione alla sua funzione di gerarchizzazione della forza-lavoro, in un contesto in cui il mercato del lavoro presenta una estrema frammentazione e complessità.

L'irrigidimento dei meccanismi di selezione, tanto all'ingresso quanto durante il percorso di studi, è in primo luogo funzionale ad una redistribuzione della forza-lavoro in formazione lungo uno spettro sempre più complesso di ambiti formativi e livelli di "qualificazione". Misure quali il riordino dei cicli scolastici, la nuova struttura dell'ordinamento didattico prevista per l'università, l'introduzione dei crediti formativi 67, l'autonomia didattica e finanziaria delle scuole e degli atenei (con la conseguente distinzione tra atenei più o meno "qualificanti"), la distinzione tra studenti universitari a tempo pieno e part-time, la proliferazione di canali formativi anche al di fuori degli ambiti tradizionali della scuola e dell'università, garantiscono tutte una crescente segmentazione e individualizzazione dei percorsi di studio. Lo stesso si dica per lo sviluppo della formazione post-universitaria: il potenziamento del dottorato di ricerca (che sarà possibile svolgere anche all'interno delle imprese), i masters e le scuole di specializzazione, da una parte costituiscono il riconoscimento istituzionale di una avvenuta svalutazione della laurea; dall'altra parte aggiungono ulteriori livelli alla gerarchia degli studi.

Un discorso del tutto analogo può essere fatto per la cosiddetta formazione permanente. Negli anni '70 l'introduzione delle "150 ore" e di altri corsi di "riprofessionalizzazione" per lavoratori occupati o espulsi dal ciclo produttivo, rispondeva a un duplice scopo: «da un lato poter attenuare la massificazione studentesca, mantenendo aperta la possibilità di riprendere gli studi; dall'altro riattivare un sistema di qualifiche legate ai titoli di studio via via conseguiti, non totalmente sottoposto alle lotte operaie e alla pressione egualitaria e antiselettiva del movimento studentesco» 68. In un contesto caratterizzato, come abbiamo accennato, da una relativa autonomia dell'offerta sul mercato del lavoro, la "formazione permanente" diventava inoltre «garanzia di una forza-lavoro dotata di mobilità ed elasticità e che soprattutto accetta a livello iniziale mansioni esecutive, perchè in tal modo inserita in una divisione del lavoro non più rigida, che supera le caratteristiche della predestinazione» 69. Alla luce di tutte le considerazioni svolte, è palesemente mistificante considerare la formazione permanente come una necessità indotta dalla sempre più rapida evoluzione delle tecnologie e dei sistemi di produzione, e dalla presunta obsolescenza delle conoscenze che ne conseguirebbe. Essa assume piuttosto il significato di una ulteriore complessificazione del sistema formativo, e cioè di una ulteriore fonte di gerarchizzazione della forza-lavoro.

In questo senso possono essere interpretate le stesse politiche volte allo sviluppo dell'istruzione privata (scuole, atenei, corsi etc.) che, oltre a costituire certamente un momento di "razionalizzazione" dei costi e a garantire nuove opportunità di investimento e di profitto al capitale sociale - si inseriscono armoniosamente all'interno di quella strategia della "differenziazione competitiva", che costituisce oggi l'espressione determinata della funzione gerarchizzante del sistema formativo.

5. Conclusioni

Abbiamo cercato, in queste pagine, di abbozzare un'ipotesi teorica sulla base della quale articolare un intervento politico all'interno dell'università e, più in generale, del sistema formativo. Questa ipotesi dovrà senz'altro essere sviluppata, approfondita e corretta, in una costante tensione dialettica tra teoria e prassi: soltanto nella misura in cui la teoria saprà fare emergere le contraddizioni reali, saprà stimolare il conflitto, saprà essere contemporaneamente espressione delle lotte e loro momento di autochiarificazione e di direzione, potremo dire che essa ha raggiunto il suo scopo.

Quanto all'aspetto dell'analisi, si tratterà in primo luogo di approfondire alcune tematiche cui qui abbiamo soltanto accennato (la determinatezza del rapporto tra gerarchia degli studi e struttura del mercato del lavoro, la ricerca, il ruolo della scienza etc.).

In secondo luogo risulta imprescindibile, in riferimento ai segmenti studenteschi che sono interni alla composizione di classe, articolare quel discorso sulla soggettività che, da troppo tempo, è rimasto disatteso. Esso, crediamo, dovrà svilupparsi principalmente lungo due direttive. Da un lato, sul piano storico, si tratterà di indagare le trasformazioni che, a partire dal secondo dopoguerra, hanno investito la soggettività studentesca - in relazione al ruolo via via assunto dalle diverse articolazioni del sistema formativo e al livello dello scontro di classe presente all'interno della società (più sopra abbiamo già accennato a questa problematica). Dall'altro lato, invece, si tratterà di avviare un lavoro di inchiesta che dovrà non solo darci il polso della situazione circa il modo in cui oggi lo studente vive e percepisce le contraddizioni relative alla sua condizione di forza-lavoro in formazione; ma anche a fare emergere queste contraddizioni a livello cosciente, a tradurle in comportamenti di rifiuto, a trasporle dalla dimensione individuale della frustrazione e dell'accettazione dell'esistente, a quella collettiva del conflitto.

Ci auguriamo che gli spunti di analisi che qui abbiamo offerto, per quanto sommari e certamente non esaustivi, possano essere d'aiuto a tutti quei compagni e quelle compagne che, come noi, considerano la formazione uno dei nodi centrali della riproduzione del comando capitalistico e che credono ancora possibile, oltre che auspicabile, mantenere aperti spazi di conflitto e di antagonismo all'interno del complesso intreccio di canali attraverso cui si produce e riproduce la forza-lavoro.

Bologna, 31 maggio 1998.


note


1 Cfr. M.Lazzarato,T.Negri, Lavoro immateriale e soggettività, in Derive e Approdi, n.0 (1992)
2 Si pensi, in Italia, al "modello Zanussi". Cfr. M. Gervasoni, La campagna della "qualità totale" in Italia, in Marx Centouno n. 12, p. 54-55.
3 M. Melotti, Dopo il decennio rosso '68/'77, in Vis-à-Vis n. 5 (1997), p. 132.
4 Cfr. M.De Angelis, Autonomia dell'Economia e Globalizzazione, in Vis-à-Vis n.4 (1996), p.15.
5 Cfr. par 2.4.
6 F.Barchiesi, Difetti di fabbricazione, in Vis-à-Vis n.5 (1997), p. 105 (il grassetto è di chi scrive).
7 M.Dalla Costa, Sviluppo e riproduzione, in Vis-à-Vis n.4 (1996).
8 Si pensi al caso dello sciopero dei lavoratori dell'indotto della General Motors, di cui si tratta nel già citato articolo di F.Barchiesi.
9 Si veda in proposito E.Calzolari, P.Fornari, Sviluppo della piccola produzione cooperante o sviluppo del lavoro salariato?, in Vis-à-Vis n.6, 1998.
10 S.Bologna, Problematiche del lavoro autonomo in Italia (I), in Altreragioni n.1.
11 Ibidem, p.19-20 (il grassetto è di chi scrive).
12 Cfr. ibidem, p.19.
13 M.Turchetto, Flessibilità, organizzazione, divisione del lavoro, in Alternative n.1, 1995, p.66.
14 Si veda M. De Angelis, Valore, lavoro, autonomia, in Vis-à-Vis n.1 (1993).
15 K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, in Scritti filosofici giovanili, La Nuova Italia, 1990. Si veda inoltre K.Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell'economia politica (Grundrisse), II, La Nuova Italia, 1997, p.82 e sg.
16 A. Vigorelli, Politica e filosofia nei Grundrisse di Marx, in AA.VV., Bisogni e teoria marxista, Mazzotta, 1976, p. 229 e sg. Si tratta qui della esclusione di quella componente soggettiva del lavoro vivo che, in contrapposizione con il concetto di forza-lavoro, definiamo forza-invenzione. Si veda, in proposito, anche R.Alquati, Università, formazione della forza-lavoro intellettuale e terziarizzazione, in R.Tomassini (a cura di), Studenti e composizione di classe, Aut Aut Edizioni, 1977.
17 K. Marx, Il Capitale, I, 1989, Editori Riuniti, p. 373 (il grassetto è di chi scrive).
18 K. Marx, Grundrisse, II, op.cit., p. 93.
19 K.Marx, Il Capitale, I, op.cit., p.76.
20 Si vedano La Lotta Continua - Gruppo di Studio Villa Mirafiori, Capitalismo e spazio interstellare, e E.Modugno, Grundrisse postfordisti, in Derive/Approdi n. 3/4.
21 Cfr. R. Alquati, Cultura, formazione e ricerca, Velleità Alternative, 1994. Si deve precisare che questo coinvolgimento del lavoratore, riguarda soltanto un frammento della componente mentale della soggettività; la corporeità del lavoratore rimane quasi interamente esclusa.
22 M. Gervasoni, op. cit., p.50.
23 Cfr. ibidem, p.50-51.
24 Si veda R. Alquati, op. cit., p.25 e sg.
25 Il brano è tratto dall'Introduzione di A.Gorz al suo ultimo libro, Miserie del presente. Ricchezza del possibile, Manifestolibri (1998), pubblicata in anteprima sul numero speciale della rivista Banlieues, dedicato alle lotte dei disoccupati e dei precari francesi (inverno 1998)
26 A.Negri, Lavoro immateriale e soggettività, in Derive/Approdi n.0 (1992).
27 Si veda R.Alquati, op.cit., p.25 e sg.
28 Si veda E.Modugno, op.cit..
29 Alcune riflessioni sulle politiche della formazione a livello comunitario, in Banlieues n.1, 1997, p.9.
30 Si veda, solo a titolo di esempio, A.Negri, M.Lazzarato, Lavoro immateriale e soggettività, in Derive/Approdi n.0, 1991.
31 K.Marx, Il Capitale, I, Editori Riuniti, 1989, p.625-626.
32 Si veda R.Panzieri, Plusvalore e pianificazione, in Lotte operaie nello sviluppo capitalistico, Einaudi, 1976.
33 Si veda C.Offe, G.Lenhardt, Teoria dello stato e politica sociale, Feltrinelli, 1979, cit. in D.Palano, Università, formazione, antagonismo, in Vis-à-Vis n.5, 1997, p.243.
34 Si veda F.Ciabatti, A.Gagliardi, Dominio senza sfruttamento? Risposta a Palano, in Vis-à-Vis n.5, p.263.
35 D.Palano, op.cit., p.251.
36 Ibidem.
37 Ibidem, p.251-252.
38 Ibidem, p.252.
39 Come abbiamo visto, d'altra parte, questi processi non devono essere assolutizzati (si veda il nostro Note sulla ristrutturazione del sistema produttivo, 1998, in fotocopie).
40 R.Nichelatti, Scuola di massa e riproduzione sociale, in Aut Aut n.155-156, 1976, p.79.
41 R. Alquati, Università, formazione della forza-lavoro intellettuale, terziarizzazione, in AA.VV., Studenti e composizione di classe, a cura di R.Tomassini, Edizioni Aut Aut, 1977, p.48.
42 Si veda ibidem, p.47-49.
43 Si veda R.Tomassini, Scolarizzazione di massa e ricomposizione di classe, in Aut Aut n.155-156, 1976, p.98.
44 R.Nichelatti, op.cit., p.80.
45 R.Nichelatti, op.cit., p.78.
46 Si veda ibidem, p.81-82.
47 Si veda R.Alquati, op.cit., p.18-19.
48 Ibidem, p.19.
49 Si veda Alquati, Università, formazione della forza-lavoro..., op.cit., p.35. Si veda inoltre il nostro Note sulla ristrutturazione del sistema produttivo, op.cit.; A.Vigorelli, Politica e filosofia nei "Grundrisse" di Marx, in AA.VV., Bisogni e teoria marxista, Mazzotta, 1976, p.232 e sg.; H.Braverman, Lavoro e capitale monopolistico, Einaudi, 1976.
50 R.Tomassini, op.cit., p.103.
51 Collective Bargaining Today, cit. in D.Palano, op.cit., p.249.
52 Si veda R.Alquati, Università, formazione della forza-lavoro..., op.cit., p.54.
53 R.Tomassini, op.cit., p.114.
54 Ibidem, 105-107.
55 Si intende per problem solving una tecnica caratterizzata da procedure standardizzate o semi-standardizzate, attraverso le quali risolvere grandi classi di problemi. Si veda R.Alquati, Cultura, formazione, ricerca, Velleità Alternative, 1994, p.8-13. «La questione fondamentale che sta dietro il tutto, ovvero la preferenza per la proceduralità, è quella della "banalizzazione"» (ibidem, p.10).
56 H.Braverman, op.cit., p.447, cit. in D.Palano, op.cit, p.248.
57 Si veda R.Alquati, Cultura, formazione, ricerca, op.cit., p.43-46. «Cosa significa allora qui per questa minoranza "Capacità critica"? Significa spesso una capacità più flessibile, creativa, meno assolutamente procedurale e mnemonica, con un minimo di riflessività e idoneità a risolvere problemi con aspetti non del tutto immediatamente prerisolti» (Ibidem, p.46).
58 R.Alquati, Università, formazione della forza-lavoro..., op.cit., p.61.
59 Bozza "Martinotti", p.13 (il c.u.b. attesta l'acquisizione di 120 crediti, corrispondente, nel caso di uno studente full-time, a due anni di corso). A conferma di questa tendenza, a p.14 viene ancora sottolineata l'esigenza di una differenziazione progressiva e graduale della struttura curricolare, giustificata dalla necessità di favorire l'orientamento degli studenti.
60 Si veda R.Alquati, Università, formazione della forza-lavoro..., op.cit., p.62-67.
61 Ibidem, p.64.
62 Ibidem, p.66.
63 Si veda La riforma Berlinguer, a cura di Unicobas Scuola, p.12.
64 Bozza "Martinotti", p.11 (corsivo nostro).
65 Quanto alle intersezioni tra sistema produttivo e formazione (stages, tirocini etc.), si può leggere nel primo documento sul "riordino dei cicli scolastici" del gennaio 1997 (La riforma Berlinguer, op.cit.): «Elemento connaturale alla professionalità è [...] la responsabilità che ciascuno assume nella vita sociale e lavorativa. [...] fattore determinante per la crescita della professionalità è il contesto lavorativo, che assume forte vocazione formativa» (p.13, corsivo nostro).
66 P.Giarda, L'Università italiana tra diversificazione, inefficienza e autonomia finanziaria, cit. in D.Palano, op.cit., p.255.
67 Si pensi, per quanto riguarda la nuova struttura curricolare dell'università, all'introduzione di un livello intermedio di titolo di studio (il già citato c.u.b.) e alla possibilità di spendere sul mercato del lavoro, o all'interno di altre strutture formative, i crediti acquisiti anche portando a termine un solo corso.
68 R.Tomassini, op.cit., p.106.
69 Ibidem.